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Bellezza e armonia nel linguaggio neoclassico

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Questa rubrica vuole porre all’attenzione dei lettori di Tuttavia la capacità della poesia e delle arti figurative di rappresentare l’immaginario delle varie epoche storiche e delle stagioni culturali che si sono succedute nel nostro Occidente a partire dal Basso Medioevo, cioè da quando si è andata costruendo la civiltà delle città e del ceto medio che in esse si è andato affermando. Abbiamo definito pittura e poesia “linguaggi dell’anima” per la loro capacità di coinvolgere in modo integrale chi ne fruisce, ovvero in modo da mobilitare, oltre alla dimensione razionale del comprendere, anche gli aspetti affettivi, emotivi e volitivi dell’esistenza.

A tale scopo saranno sottoposti quindicinalmente dei testi poetici e iconici paralleli, reinterpretati quali “oggetti culturali” per la loro capacità di esemplificare l’immaginario di un’epoca. Alla poesia e alla pittura potrà affiancarsi anche la musica, quando gli autori riterranno di proporre qualche fonte musicale, coeva oppure a noi contemporanea, capace di evocare efficacemente lo spirito dell’epoca trattata. Il parallelismo potrà anche strizzare l’occhio agli insegnanti – quali sono i due autori – che volessero istituire nessi più stringenti tra i vari linguaggi, nella convinzione che i ragazzi amano le contaminazioni e soprattutto si lasciano coinvolgere volentieri nello spazio della creatività e dell’interpretazione.


Neoclassico tra Settecento e Ottocento

Poesia e arti figurative testimoniano lo spirito neoclassico che si afferma a partire dalla metà del Settecento e che trova illustri realizzazioni artistiche in figure come Ugo Foscolo e Antonio Canova, peraltro stretti in amicizia. Qui mettiamo in relazione il poemetto foscoliano incompiuto dal titolo “Le Grazie” ed il gruppo scultoreo coevo di Canova dal titolo simile.

Ugo Foscolo: La Bellezza che salva dal Male (da “Le Grazie”, 1812-13)

Inno III, vv.179-86; 198-212

Mesci, o Flora gentile, oro alle fila;
e il destro lembo istorïato esulti 
d’un festante convito: il Genio in volta
prime coroni agli esuli le tazze.
Or libera è la gioia, ilare il biasmo,
e candida è la lode. A parte siede
bello il Silenzio arguto in viso e accenna 
che non volino i detti oltre le soglie.
[….]Come d’Èrato al canto ebbe perfetti
Flora i trapunti, ghirlandò l’Aurora
gli aerei fluttuanti orli del velo
d’ignote rose a noi; sol la fragranza
se vicino è un Iddio, scende alla terra.
E fra l’altre immortali ultima venne
rugiadosa la bionda Ebe, costretti
in mille nodi fra le perle i crini,
silenzïosa, e l’anfora converse: 
e dell’altre la vaga opra fatale
rorò d’ambrosia; e fu quel velo eterno.
Poi su le tre di Citerea Gemelle
tutte le Dive il diffondeano; ed elle
fra le fiamme d’amore ivano intatte 
a rallegrar la terra; e sì velate
apparian come pria vergini nude.

A metà del suo cammino questa rubrica riflette su se stessa. Linguaggi dell’anima. L’opzione degli autori è stata quella di tenere intrecciati quei linguaggi che evocano la creatività umana: arti figurative, poesia e musica, secondo l’intuizione oraziana condensata nel celebre ut pictura poesis. Ma non si tratta di riflettere sospendendo il cammino. Il cammino prosegue e si avvale qui di un testo che, pur apparentemente distante dalla sensibilità contemporanea, contiene in sé motivi che si prestano tanto alla rivisitazione di alcune istanze del nostro tempo, quanto alla riflessione sul senso stesso del nostro lavoro in questa rubrica.

La notorietà di Ugo Foscolo, e il suo prevalente utilizzo scolastico, è legata soprattutto ai Sepolcri. E invece il brano che qui propongo è tratto dal poemetto incompiuto, e quindi frammentario, dal titolo “Le Grazie”, che egli scrisse in uno stile neoclassico e quindi di non facile decifrazione. Ci siamo già imbattuti nel linguaggio neoclassico con Parini, ma qui siamo davanti al trionfo del linguaggio rarefatto e armonioso, intriso di bellezza, con un’ambientazione che è al di là di ogni esperienza. Siamo nella mitica isola di Atlantide, dove la dea Minerva sta incaricando alcune divinità minori di tessere un velo per le protagoniste del poemetto, appunto le tre Grazie che rappresentano nel mito antico le creature figlie di Zeus mandate nel mondo per civilizzare l’umanità.

Il poemetto celebra il tentativo delle tre Grazie di tenere gli uomini al riparo della barbarie, ma nel terzo Inno esse devono fuggire perché il male umano le sovrasta. E le divinità hanno il compito di tessere un velo che le protegga pur non nascondendone la bellezza. Siamo davanti con chiarezza ad allegorie sulla vita, la morte, il male, la gioia di vivere, la civiltà, la storia. Sono i temi presenti nei Sepolcri, che qui vengono proiettati in una luce mitica ed espressi in un linguaggio non del tutto affrancato ma certamente distanziato dalle passioni umane.

La dea dei fiori Flora, nel brano, sta tessendo il velo, ma ad accompagnarla è la musica delle muse Talia e Tersicore nonché il canto di Erato, musa del canto corale, che la invita ad istoriare il velo con i temi cari al poeta. La musica ed il canto sostengono il dipingere di Flora nel contesto del poetare foscoliano. L’intreccio dei linguaggi dell’anima è presente in ogni piega del testo, ed è la poesia che lo rende eterno.

Flora nel velo dipinge un grande banchetto, ma gli ospiti di onore sono gli esuli, e la virtù celebrata è quella dell’Ospitalità, ma non solo. La convivialità degli uomini è anche gioia libera e comunicazione leale: il rimprovero non è astioso e la lode non è opportunistica. E non manca l’elogio per il Silenzio, quale virtù capace di stare entro il limite del rispetto umano. Utopia foscoliana e utopia del nostro tempo.  

Le Grazie attendono che il velo sia pronto. La loro fuga dal mondo degli umani ha significato il prevalere della malvagità umana sulle spinte umanizzatrici e civilizzatrici di cui esse sono portatrici. Il furore della violenza umana è qui decantato, ma è tutt’altro che assente, perché è proprio l’ambientazione in un rifugio mitico e divino che rende il testo capace di rappresentare una vera e propria contestazione al male della storia. In nome dell’Ospitalità, della Comunicazione rispettosa, della Bellezza. Temi che sorreggono la religiosità laica di Foscolo. E che restano attuali.

Il velo per le Grazie è quasi pronto. C’è ancora tempo per un intervento dell’Aurora e della dea della gioventù Ebe: l’una porta fragranza di rose, l’altra profumatissima ambrosia. Questi interventi integrano efficacemente la Bellezza che è la vera protagonista del testo e che coinvolge interamente i sensi. Sembra che il poeta voglia dircelo: l’antidoto al male è nella Bellezza, e la Bellezza non può abitare solo nell’intelletto (detto da uno di formazione illuminista), ma deve coinvolgere i sensi. Tutto il poemetto infatti è attraversato da un’indubbia sensualità, ed è questo il segreto miracoloso della poesia foscoliana: la compresenza di intelletto, volontà, emozione, sensualità, eros.

Tutto questo rende quel velo eterno e permette alle Grazie di tornare a rallegrare la terra senza dover più temere di essere distrutte dalle passioni umane, per quanto il loro essere “velate” non impedisce di poterle contemplare, quali “vergini nude”, nella loro incomparabile bellezza.   

Dal web: Una lettura al femminile

L’armonia in un abbraccio: Antonio Canova

Antonio Canova, Le tre Grazie, 1812-1816. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.

L’opera Le tre Grazie fu commissionata ad Antonio Canova da Giuseppina Beauharnais, prima moglie di Napoleone. Le tre Grazie rivelano come il rapporto tra Foscolo e Canova si basi su affinità, coincidenze artistico-letterarie e dialogo tra funzione civile e consolatrice della bellezza nonché bellezza come ideale estetico-formale di armonia .

Ugo Foscolo, nel proemio al primo Inno, dedica la sua opera a Canova, che sta contemporaneamente lavorando al gruppo marmoreo e con il quale condivide uno stesso intento artistico: “Forse (o ch’io spero!) artefice di Numi, / nuovo meco darai spirto alle Grazie / ch’or di tua man sorgon dal marmo”. Foscolo entra quindi in sintonia con il gruppo scultoreo realizzandone l’equivalente in poesia. Esule dal 1816 in Inghilterra è infatti stimolato dal capolavoro arrivato a Woburn Abbey ad andare avanti nella stesura del componimento, trovando così consolazione nella poesia.

L’uomo è sempre alla ricerca dell’armonia, e “l’universale segreta armonia” presente nel cosmo e nell’animo umano si riflette nelle arti. E Le tre Grazie di Canova sono la rappresentazione scultorea delle sacerdotesse descritte da Foscolo, personificazioni delle arti, unite da un abbraccio in un intreccio organico. Il sottile equilibrio dell’armonia, che produce bellezza, è però sempre compromesso da “tendenze guerriere e usurpatrici”, direi caotiche.

La parola “cosmo” indica, nella tradizione occidentale, l’ordine e la bellezza del mondo creato, la proporzionalità e la giusta simmetria delle sue parti. Il suo opposto è “acosmia”, disordine, caos. Perciò il concetto di cosmo implica il riferimento ad un tutto organico, che comprende la complessità del reale all’interno di un principio di ordine e di bellezza. Al concetto di cosmo si associa quindi l’idea di armonia universale. Possiamo traslare questo concetto anche sul piano esistenziale, e in questo caso l’armonia può essere intesa come accordo tra livelli diversi di conoscenza, sensibile, spirituale, razionale, e come accordo tra desiderio e volontà, uno “stato di grazia” in cui i nostri talenti non siano dissipati da distrazioni fuorvianti.

La musica, campo sperimentale dell’armonia, è stata concepita nel corso dei secoli come scienza (“Ars”), e anche il canto aveva influssi sugli uomini poiché apriva alla conoscenza intellettuale dell’universo provocando, attraverso l’emotività, un’apertura intuitiva al cosmo, elevando gli uomini ad una fruizione diretta del divino. Si capisce allora perché la cultura ha tanto investito nel tempo sulla musica e sulla rappresentazione delle passioni che diventarono poi anche parola, gesto ed immagine, espressione multimodale dell’animo umano.

Non si comprende però il neoclassicismo senza fare riferimento al suo principale teorico: Joachim Winckelmann, autore del saggio Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, pubblicato nel 1755. Egli dice: “La generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata”.

Proviamo a capire perché Winckelmann determinò il gusto del tempo affermando la superiorità dell’arte greca nei confronti dell’arte romana, e la necessità della sua mimesi per conferire valore artistico all’opera.

Winckelmann riteneva che l’arte nascesse in clima di libertà, e riteneva che i greci fossero uomini veramente liberi in quanto vivevano, al contrario dei romani, in uno stato basato su un sistema democratico.  L’arte greca quindi non poteva che essere più libera e avere il primato su quella romana, che ne riproduceva le forme svuotandole del significato democratico originario. Quindi, secondo Winckelmann, purezza formale, armonia, equilibrio e assenza di turbamento dei greci derivavano dalla loro elevatissima libertà etica e politica.

Infatti l’uomo greco è capace di pienezza d’essere, come afferma Schiller: “quell’uomo era uno con se stesso e felice nel sentimento della propria umanità”, senza contrapposizione tra sensibilità e ragione né, di conseguenza, senza il prevalere dell’una sull’altra. Da questo discendeva l’armonia trasmessa dalla sua arte. Oggi, nella molteplicità degli aspetti della nostra esistenza, abbiamo forse perso l’unità con noi stessi, e quella tra sensibilità e ragione, tendendo a porle in antitesi. Sarà perché, come pensava Winckelmann, non viviamo nella piena libertà, ma sotto qualche forma di “schiavitù”?

Comunque, in una realtà complessa che spesso pone in conflitto i suoi meccanismi e le naturali aspirazioni dell’essere umano, la dimensione creativa e lirica ha davvero bisogno di essere salvaguardata da un lume, che Canova ci ha rappresentato come il velo che lega insieme le Grazie e le copre solo parzialmente senza occultare il corpo e la sensualità, come qualcosa che tiene insieme gli aspetti costitutivi di un insieme organico, senza alterarne la “vergine nuda” natura.

 IN MUSICA: La Cura di Franco Battiato  

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