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LE RADICI PROFESSIONALI DELLA GRATITUDINE SCOLASTICA

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di Maurizio Muraglia

 

In ambito scolastico l’idea di gratitudine presenta molteplici sfaccettature, poiché coinvolge tutte le componenti del fare scuola, dal ruolo dell’insegnante, all’atteggiamento degli studenti alla scelte didattiche. Un approccio professionale al tema della gratitudine può permettere di tenersi distanti da alcuni stereotipi che spesso caratterizzano il discorso sulla relazione educativa tra chi insegna e chi impara. E’ necessario che la gratitudine verso gli insegnanti sgorghi dal riconoscimento della loro qualità culturale e soprattutto pedagogica piuttosto che da generiche simpatie.

 

Scenari educativi della gratitudine

L’esperienza della gratitudine non è ignota a coloro che operano in campo educativo, siano essi genitori, insegnanti o figure che a vario titolo spendono la propria vita prendendosi cura della crescita altrui. Quanti ex alunni dichiarano di essere “grati” ai loro insegnanti per quanto hanno ricevuto nel tempo della formazione e dell’apprendimento? E tanti tra questi sanno anche esplicitare le ragioni di questa gratitudine, che spaziano dalla relazione umana, alla competenza professionale, alle capacità metodologiche. Si è consapevoli di aver ricevuto un dono inalienabile, capace di strutturare la personalità, le scelte, le visioni del mondo per tutta la vita, e di poter trasmettere questo dono alle generazioni successive. La gratitudine in questo ambito, in altri termini, germoglia dalla lucida consapevolezza che quanto ricevuto in età giovanile non è annoverabile tra le esperienze “ordinarie”, ma rappresenta qualcosa di speciale, di significativo, che va riconosciuto, apprezzato e custodito.

É vero che talvolta ci si imbatte in persone che “non devono dire grazie a nessuno”. Anche quest’atteggiamento merita attenzione, se non altro per la involontaria mistificazione che contiene.

Cosa vuol dire “non devo dire grazie a nessuno”? Cosa nasconde una simile affermazione?

É probabile che a questo tipo di dichiarazioni soggiacciano esperienze negative, di trascuratezza educativa, a contatto con adulti indifferenti se non ostili, incapaci di prendersi cura. Si dice così anche quando si vuole rivendicare la propria estraneità a clientelismi di qualsiasi genere e la propria capacità di affermarsi nella vita e nella professione grazie alle proprie forze, e in questo caso la valenza della in-gratitudine può ritenersi positiva. Ma in ambito educativo, come che sia, è molto difficile che un individuo non sia preceduto in alcun modo da un qualsivoglia atteggiamento di cura prestato da adulti, siano essi genitori o insegnanti. Certo, ci sono i casi estremi. I casi di abbandono, di maltrattamento, di violenza che si registrano in ambienti in cui bambini e giovani non hanno davvero alcuna ragione per esprimere gratitudine. Ma si resta convinti del fatto che comunque il processo educativo, generalmente parlando, implichi una dimensione oblativa, per la quale uno dei due partners della relazione, prima o dopo, nella misura in cui acquisisce sempre maggiore consapevolezza del dono ricevuto, sente crescere in sé il sentimento della gratitudine.

 

 

Un campo semantico

Già da queste prime linee introduttive ci si imbatte nella necessità di delineare un campo semantico della gratitudine, che include concetti quali dono, gratuità, consapevolezza, cura, reciprocità, riconoscimento (e riconoscenza), tutta materia di riflessione per chi si interroga sulle dinamiche umane che si innescano nel momento in cui ci si accinge all’impresa educativa. A questo setting di concetti, aggiungeremo un altro concetto-chiave su cui val la pena spendere una riflessione, che è quello di professionalità. Sarà quest’idea a rappresentare, ad un certo punto del ragionamento che segue, una sorta di controcanto, un fattore di criticità, una sorta di provocazione epistemologica insidiosa verso l’idea di gratitudine. Si tratterà di rideclinare quest’idea alla luce del campo semantico prima tratteggiato, col quale sembra non potere e non volere intrattenere relazioni.

Cosa c’entrano il dono e la gratitudine con la professione, potrebbe chiedersi il senso comune? Chi esercita una professione non dovrebbe collocarsi in uno spazio, per così dire, deontologico, emotivamente controllato, alieno da indebite confusioni tra piano razionale e piano affettivo?

In effetti, la posta in gioco sta proprio nell’interferenza tra quei due piani, che strutturano in profondità l’animo umano. Le professioni non sono tutte uguali. Ci sono professioni che consentono con più facilità -e richiedono costitutivamente -la separazione tra ragione e affettività, ma ce ne sono altre per le quali osiamo dire che tale separazione può risultare addirittura pregiudicante l’efficacia dell’esercizio della professione stessa. E crediamo che le professioni di ambito educativo siano le maggiori indiziate.

 

Le ragioni della gratitudine

Ora, per tornare alla gratitudine, occorre riconoscere che le ragioni della gratitudine in ambito educativo appartengono al piano della soggettività. Se si dovessero intervistare gli ex alunni di una stessa classe, non è detto che tutti siano disposti a provare gratitudine per gli stessi insegnanti. E ciò non sorprende per due ragioni. La prima rimanda, appunto, al piano soggettivo del riconoscimento che consente ad alcuni e non ad altri di comprendere il valore di quanto si è ricevuto. La seconda, che introduce un elemento di complessità da non trascurare, rinvia al piano oggettivo riferibile a chi ha educato o insegnato, alle differenze che egli stesso ha istituito all’interno della sua azione. É possibile che, all’interno dello stesso contesto educativo, si sia agito solo con alcuni in modo da suscitare gratitudine. É il caso, per fare solo un esempio, di non pochi professori di Liceo, superpreparati e appassionati della propria materia, ma scarsamente capaci di predisporre ambienti di apprendimento fruibili da un numero più cospicuo di alunni. Insegnanti capaci di entusiasmare un manipolo ristretto di studenti, di seguirli anche dopo gli studi, di interagire con loro anche dopo molti anni. É inevitabile che in questi ultimi sgorghi la gratitudine, così come è altrettanto inevitabile che nei compagni lasciati un po’ per strada ben presto alberghi l’oblio.

Il piano del riconoscimento e della gratitudine quindi incrocia soggettività e oggettività, finendo per situarsi in un orizzonte complesso, in cui è difficile individuare con nettezza da un lato gli atteggiamenti capaci di ingenerare gratitudine, dall’altro le disposizioni interiori capaci di provare gratitudine. Questo secondo livello non è controllabile da chi opera nel campo dell’educazione.

Anche a fronte di un’impresa educativa “obiettivamente” giudicabile come qualcosa di nobile e di grande, è possibile un non riconoscimento. L’animo umano è capace di gratitudine come è capace di ingratitudine. Occorre, su questo, saper essere realisti. Viene da riproporre qui una bella dichiarazione della psicanalista Melanie Klein, nel suo Invidia e gratitudine: “Il sentimento di gratitudine è una delle espressioni più evidenti della capacità di amare. La gratitudine è un fattore essenziale per stabilire il rapporto con l’oggetto buono e per poter apprezzare la bontà degli altri e la propria.” Ma l’acquisizione della capacità di gratitudine non sta nell’orizzonte di questo intervento. Qui l’intento è quello di tentare di comprendere, pur nella consapevolezza dell’estrema complessità dell’operazione, quali requisiti possa avere un’azione educativa nei cui confronti sia possibile (ma non scontato) concepire, da parte di animi ben disposti, un sentimento di gratitudine.

 

L’ambito scolastico

Tuttavia, intendiamo restringere il campo di osservazione. Abbiamo fin qui discusso, genericamente, di “azione educativa”, implicando in essa un variegato panorama di figure sociali. Adesso è il momento di restringere il campo alla scuola, e per far questo occorre ancora una sorta di chiarificazione concettuale preliminare.

Altrove abbiamo avuto occasione di destreggiarci tra i concetti di educazione e istruzione, tentando una loro sintesi nel sovraordinato concetto di formazione. Non è inessenziale, dal nostro punto di vista, ritornare su questo sentiero, anche in ordine all’esplorazione del tema della gratitudine. A scuola, infatti, l’insegnante è un formatore nella misura in cui è capace di integrare sapientemente, fino a farne un tutt’uno, azione educativa e azione istruttiva. Potremmo dire che è proprio questo il pregio della professionalità di un insegnante: la capacità di evitare le due derive che si anniderebbero nel prevalere smaccato di una delle due dimensioni. É in virtù di questa sapienza pedagogica che, a nostro avviso, l’insegnante potrebbe creare i presupposti per una gratitudine ben riposta. Approfondiamo.

 

L’insegnante educatore e l’insegnante erudito

Ci sono ragioni educative e ragioni istruttive (o didattiche) perché un alunno o un gruppo di alunni provi gratitudine verso uno o più insegnanti. Ma se la gratitudine dovesse limitarsi alle une o alle altre, potrebbero prospettarsi alcuni scenari che non riteniamo all’altezza di una sorta di “gratitudine globale”. Quali scenari? Proviamo a delinearli. L’insegnante che ha saputo essere un buon padre o una buona mamma, dando tanti buoni consigli, seguendo attentamente le vicende personali dei ragazzi e stabilendo con loro una relazione calda, certamente dà qualcosa di importante agli allievi.

Questi insegnanti esistono e spesso sono persone capaci di coltivare grandi valori, di spendersi nel volontariato, di rappresentare un vero modello di comportamento per i giovani. Alcuni di questi hanno davvero meriti speciali in ambito sociale. E vengono guardati con ammirazione per il loro impegno civile e la loro irreprensibilità etica. E con molta probabilità gli alunni saranno grati a questo tipo di insegnante, che è stato capace di intercettare la loro sfera emotiva ed etica magari anche in momenti difficili in cui era fondamentale avere accanto un adulto non distratto. Saremmo qui di fronte ad una forte rilevanza del versante cosiddetto “educativo”. E potrebbe andar benissimo se il mondo di significati di cui è portatore un simile insegnante potesse emergere, quasi implicitamente, dal modo in cui egli traffica il suo sapere con gli studenti.

Ma non è detto che questo avvenga. Capita invece non raramente che figure di insegnanti di alto profilo morale e civile dedichino scarsa attenzione alle discipline che insegnano, col risultato di ingenerare nell’immaginario degli alunni una sorta di doppio binario relazionale: quello con l’insegnante attivista e “pasionario” e quello – ben meno entusiasmante – con il docente di scienze o di italiano.

Fin qui il primo scenario, che vede smaccatamente prevalere il versante che chiamiamo educativo con provvisoria banalizzazione.

Andiamo adesso alle ragioni istruttive (o didattiche) della gratitudine. L’insegnante preparato, colto, che prepara accuratamente le sue lezioni, capace anche di offrire delle spiegazioni chiare, è certamente un insegnante che tanti vorrebbero avere e verso il quale è abbastanza ovvio nutrire gratitudine. Si tratta di una figura non infrequente nel panorama professionale dei docenti. É l’insegnante che “fa il suo lavoro”, intrattenendo con i suoi alunni un rapporto di carattere esclusivamente “deontologico”, basato sull’erogazione accurata di contenuti culturali del cui apprendimento chiamerà a rendere conto gli studenti con atteggiamento molto “professionale” che non indulge ad altre considerazioni che non siano quelle della correttezza, attendibilità, oggettività.

Al suono della campana egli è già altrove, chiama i ragazzi per cognome e non è disposto ad immaginare alcun nesso esplicito tra quanto insegna, sia pur molto bene, e l’esperienza o l’esistenza dei ragazzi. Si tratta di due partite che si giocano su tavoli diversi: la partita del sapere e la partita della vita. Egli istruisce bene. Stop. Fin qui il secondo scenario, che vede smaccatamente prevalere il versante che chiamiamo istruttivo, con provvisoria banalizzazione.

Nell’immaginario di chi ha oltrepassato l’età della formazione scolastica, non è raro trovare entrambi i tipi di insegnanti, verso i quali si prova qualcosa di positivo. Possiamo ritenerla gratitudine? Possiamo osare il dubbio su questo? La sensazione è quella di trovarsi di fronte ad un mix di rispetto e di stima, ad una considerazione positiva della figura che attraversa la nostra memoria di ex studenti. Ricordiamo positivamente la prof Tizia o la prof Caia perché era una persona a tutto tondo, coraggiosa, capace di assumersi le sue responsabilità, che nel suo tempo si muoveva con grande desiderio di cambiamento, oppure la ricordiamo perché era veramente seria e preparata, non dimenticava nulla, era sempre presente, conosceva un sacco di cose. Forse tra le due figure di insegnanti sarà risultata più empatica e conviviale la prima, e più fredda e distaccata l’altra, ed il riconoscimento successivo degli ex sarà condizionato dall’importanza che ciascuno darà ai fatti di relazione o ai fatti di apprendimento.

Resta però il sospetto che in nessuno dei due casi ci si trovi davanti ad una proposta formativa capace di far crescere, all’interno del soggetto che ne ha beneficiato, la pianta rigogliosa della gratitudine anche nel senso ad essa dato dalla citazione di Melanie Klein.

Abbiamo non casualmente utilizzato l’espressione “far crescere”, che in qualche modo induce la possibilità che la gratitudine non costituisca esclusivamente l’esito di una “disposizione interiore”, come se esistessero i grati e gli ingrati per natura. Azzardiamo invece l’ipotesi che anche il senso di gratitudine sia “educabile”, e lo sia attraverso un modo di proporsi capace di uscire dalla polarità educazione vs. istruzione all’interno della quale sembrano irretite le due figure di insegnanti sopra tratteggiate.

 

L’insegnante “professionista”

Per lavorare a questa ipotesi è necessario tratteggiare un terzo tipo di insegnante, probabilmente meno diffuso degli altri due, capace di coniugare insieme educazione e istruzione e, per ciò stesso, capace di indurre nei ragazzi qualcosa che superi il mero senso di rispetto o di stima e che si avvicini a quello che ci piace intendere per gratitudine. Parliamo di un insegnante che, non abdicando per nulla alla sua dimensione di “professionista”, anzi, valorizzandola appieno, instaura un certo tipo di relazione con i due ambiti fondamentali del suo lavoro ovvero con il sapere che insegna e con gli studenti che incontra quotidianamente. Sul tavolo di questa triangolazione, docente-sapere-studenti, si gioca la sua capacità di legare indissolubilmente educazione e istruzione e quindi la sua…speranza di indurre, prima o dopo, profonda gratitudine negli studenti.

Il rapporto che ogni insegnante instaura col proprio sapere rappresenta la prima tappa di questo percorso. Si tratta di una tappa “culturale” che precede quella riguardante la relazione educativa con gli studenti. E ciò viene posto in virtù della specificità dell’ambiente scolastico, che rimane un ambiente per l’apprendimento, in cui si favorisce l’incontro tra i giovani e la cultura. Nei profili della professione docente che qua e là si ha modo di leggere, la competenza disciplinare sta sempre al primo posto, affiancata dalle competenze psicopedagogiche che possono essere più o meno ancillari e più o meno ritenute essenziali. Bisogna dunque che ciascun insegnante conosca bene la sua materia.

Fermiamoci un po’ su questo assunto. Che vuol dire conoscere bene la materia che si insegna a scuola? Qual è l’oggetto culturale, chiamato “materia”, che entra in rapporto con un soggetto conoscitivo come colui che insegna? Poniamo il caso di un alunno che “va male” in una certa materia. Cosa intende dire un insegnante quando afferma che, ad esempio, Mario va male in italiano? Quale circolarità esiste tra quell’insegnante, Mario e quella materia? Perché quella materia non è diventata anche di Mario, visto che già era la materia di quell’insegnante? Cosa ha impedito questa sorta di comunione di beni tra quell’insegnante e Mario? É dipeso soltanto dalla indisponibilità di Mario a condividere quel bene? Oppure c’è qualcosa, nel rapporto non solo tra l’insegnante e Mario, ma tra quell’insegnante e quella materia, che in qualche modo ha reso difficile se non impossibile il coinvolgimento di Mario nel processo di appropriazione di quella materia, o se vogliamo di costruzione di competenze in quella materia?

Certamente l’insegnante entra in classe portando qualcosa di proprio. Egli insegnerà la “sua” materia. Di essa una parte (talora cospicua) è oggettivata e, per così dire, mummificata nel libro di testo. Un’altra, pur presente nel libro, vive nella sua mente in una forma personalizzata e disponibile a farsi contaminare dal sapere informale e non formale portato dagli studenti. Quanto più quest’ultimo sapere magmatico e tumultuoso alligna tra i banchi, tanto più risulta necessario che si allarghino i confini di quella quota di materia, per così dire, vivente nella testa (e nel cuore) dell’insegnante. Si deve dire che in genere l’attenzione dell’insegnante ai processi di apprendimento e alla vita emozionale degli studenti è inversamente proporzionale alla ampiezza della parte di materia codificata nel libro di testo. Curiosamente questa parte della “materia”, non rielaborata e vissuta personalmente dall’insegnante e pertanto sostanzialmente estranea al suo mondo di significati, finisce per rivelarsi indisponibile ad essere condivisa con le altre materie ad essere negoziata col mondo di significati degli studenti. Questa parte, cioè, nozionistica della materia, finisce per diventare tanto più la “mia” materia quanto meno, di fatto, lo è. Come dire che soltanto chi è disposto a perdere il possesso rigido della propria materia ne è veramente il proprietario.

Soltanto chi è capace di smarrire confini e di accogliere feconde contaminazioni è colui che è profondamente abitato dal sapere che insegna. É colui che non fa un mito della propria materia. E non ne fa un mito perché il bene di cui è proprietario ha radici solide.

Hanno fatto capolino già gli studenti in questo primo movimento del nostro discorso. E non è casuale. Nel rapporto dell’insegnante con ciò che insegna – versante dell’istruzione – si annida già la problematica del rapporto con gli studenti – versante dell’educazione – Se il primo rapporto è viziato da convenzionalità e nozionismo, ne risentirà il secondo. L’istruire educativo consiste proprio in questa possibilità di consentire un incontro coinvolgente tra chi impara e ciò che viene imparato, ed è su questo terreno che è possibile immaginare la profonda gratitudine che possono provare gli studenti di fronte a chi ha mobilitato le loro intelligenze e le loro emozioni non a fianco dei saperi insegnati, ma proprio attraverso i temi affrontati in classe. L’effetto di questa capacità di fare interagire il sapere con l’esperienza e l’esistenza degli studenti non è di ingenerare gratitudine soltanto per la sensazione di avere trascorso delle ore piacevoli in classe – ragione comunque da non trascurare! – ma anche per la consapevolezza che quanto imparato a scuola è stato effettivamente appreso.

Fermiamoci un attimo sulla distinzione tra imparare e apprendere.

 

Imparare e apprendere

Imparare è l’attività ordinaria dello studente. Implica attenzione, sforzo, memoria. Negli studi sul curricolo, questo è l’apprendimento di primo livello. Si imparano delle cose a scuola. Apprendere invece è un processo collaterale e, per così dire, carsico. Mentre impara qualcosa, lo studente matura anche qualcos’altro di meno visibile, potremmo chiamarlo uno stile di pensiero, che è destinato a rimanere come apprendimento di secondo livello anche quando ciò che si è imparato ad un primo livello è stato dimenticato. Questi apprendimenti, che la ricerca educativa da alcuni anni chiama “competenze”, strutturano la mente e servono nella vita. Si tratta delle energie cognitive costruite a scuola non meramente perché si è imparato qualcosa, ma perché la si è imparata in un certo modo, perché chi l’ha insegnata lo ha fatto in modo non nozionistico ma formativo. Si respirava già in classe, ricorderà qualche studente, l’atmosfera generata da un sapere che era per noi, che dialogava con le nostre vite, che leggeva le nostre situazioni reali, che rispondeva a necessità della vita reale. Lo imparavamo fiduciosi che ci sarebbe servito nella vita, perché l’insegnante era credibile e si vedeva che insegnava non per svolgere un programma ma per darci chiavi di lettura competenti della realtà.

Il rapporto col sapere ed il rapporto con gli studenti, secondo questa rappresentazione, finiscono per essere integrati a tal punto da non potersi più distinguere l’azione educativa dall’azione istruttiva. É avvenuta la formazione della persona in senso pieno. E non è affatto scontato che l’insegnante debba realizzare questo soltanto per alcuni…. “motivati”. La motivazione egli l’assume non come variabile innata ma come sfida professionale che lo spinge a lavorare sempre meglio sulla trasformazione del proprio sapere in oggetto di apprendimento. Quando si parla di scuola inclusiva, non può mai mancare la qualità culturale della proposta di insegnamento, per evitare la deriva paternalistica o buonistica.

 

La sfida professionale

L’ultimo tornante di questo percorso vuole proprio affrontare il tema della sfida professionale insita nella prospettiva fin qui delineata e quindi tornare ad una questione accennata in precedenza: la questione del rapporto tra professionalità e gratitudine. Chi ha letto quanto sopra potrebbe essere indotto a coltivare lo stereotipo dell’ insegnante “missionario” o dell’ insegnante “per vocazione”.

Si sarà compreso che siamo lontanissimi da questa impostazione. Né il missionario né l’erudito stanno nell’orizzonte che qui si propone. É proprio la professionalità docente quella che vogliamo rimettere a tema, osando immaginare che la gratitudine possa essere indotta proprio dal riconoscimento di avere incontrato, a scuola, durante la propria carriera scolastica, uno, due o più “professionisti”. Non nascondiamo la sfumatura polemica di quest’accezione di professionalità docente verso tutti quei dispositivi ordinamentali o tutte quelle politiche scolastiche, anche col contributo sindacale, che manifestano palese incomprensione di questa cifra ineludibile della professione docente: la cifra dell’integrazione tra momento educativo e momento didattico. La professione docente non è missione, non è vocazione e non è erudizione: è un mix di ragione, affezione e tecnica, e per coltivare una professione docente a questo livello occorre fatica intellettiva ed emotiva. Ogni percorso di formazione della professione docente non può ignorare questa complessità.

La gratitudine, dunque, non è riservata a chi ha fatto “di più”. É vero, c’è una gratitudine che può germogliare per qualche ragione specifica, perché qualche insegnante, in una certa situazione, ha saputo gettare il cuore oltre l’ostacolo. E non sappiamo comunque quanta professionalità si possa attribuire a chi, per mero principio, esclude a priori per sé questa possibilità. Ma la nostra ambizione è quella di immaginare anche una “gratitudine ordinaria”, che nasce e cresce non solo dopo ma anche durante l’esperienza scolastica verso insegnanti che fanno esattamente, deontologicamente, il proprio lavoro da professionisti, che è quello, si è detto, di una continua regia culturale capace non di mettere in scena gli oggetti culturali davanti agli alunni spettatori, ma di allestire un set in cui oggetti culturali e alunni siano tutti protagonisti di un’avventura cognitiva e culturale faticosa ma gratificante, soprattutto se l’insegnante sa concepire il processo della valutazione non come vicenda esterna e fiscale, ma come dimensione tutta interna al set allestito.

Lorenzo Milani è noto come alfiere della scuola inclusiva. E si potrebbe essere portati a pensare che la sua inclusività consistesse nel fare una scuola facile, nell’accogliere i ragazzi di Barbiana con spirito empatico e disponibile. É uno stereotipo. Da don Milani si imparava, e si imparava con fatica e col corredo di ceffoni che alle volte si rendeva necessario quando i comportamenti “educativi” ostacolavano l’impresa di apprendimento. Il fatto è che don Milani comprendeva che quei ragazzi andavano incontrati manomettendo culturalmente il sapere insegnato. L’alternativa sarebbe rimasta la strada o la campagna, ma l’allora neonata scuola media unica questo non sembrava disposto a comprenderlo e abbiamo ampi motivi di ritenere che anche molta secondaria di primo grado dei nostri giorni faccia fatica a comprenderlo, soprattutto nelle nostre scuole più disgraziate. Non sorprende quindi che gli alunni di Lorenzo Milani provassero gratitudine per lui. Si trattava – e si tratta – di una gratitudine di carattere globale, culturale non meno che psicologica o emotiva. Si trattava – e si tratta – di una gratitudine che si nutre della consapevolezza di essere diventati, grazie all’azione formativa (proprio secondo l’etimo di form-azione), altra cosa rispetto a quel che si era quando si è cominciato.

La professione dell’insegnante non è orientata sic et simpliciter al dono. Se l’opinione pubblica e il senso comune hanno costruito lo stereotipo dell’insegnante missionario, questo è avvenuto perché le politiche scolastiche hanno lesinato sempre di più le risorse necessarie all’esercizio della funzione docente, col risultato di divaricare la categoria in due tipi di insegnanti, quelli che si limitano al minimo sindacale indispensabile ed i cosiddetti missionari. A questi ultimi i ragazzi sarebbero grati perché hanno ravvisato un “di più” rispetto agli altri insegnanti che invece instaurano una sorta di reciprocità con l’amministrazione. É una distorsione. La professione dell’insegnante dovrebbe essere messa nelle condizioni di esercitarsi ordinariamente in modo da suscitare gratitudine negli studenti, in modo che la divaricazione riguardi semmai tra chi intende svolgere il lavoro di insegnante e chi non intende svolgerlo. Il missionario è una figura che rivela la patologia di un sistema. I ragazzi sono grati a chi compra di tasca propria le risme di carta, ma è una gratitudine “malata”, che esula dall’orizzonte che qui abbiamo cercato di delineare. La gratitudine che abbiamo cercato di esplorare è una gratitudine non basata sull’eccezionale o sull’eroico, ma sull’ordinario. L’ordinario è il professionista, figura umana a tutto tondo capace di ragione e di emozione, e destinata per questo a farsi ricordare perché ha lasciato una traccia indelebile, umana e culturale, nel cuore degli studenti.

 

Pubblicato in

LE NUOVE FRONTIERE DELLA SCUOLA” 31/2013, Periodico quadrimestrale di cultura, pedagogia e didattica

 

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