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L’autunno del medioevo: homo materialis

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Introduzione

Questa rubrica vuole porre all’attenzione dei lettori di Tuttavia la capacità della poesia e delle arti figurative di rappresentare l’immaginario delle varie epoche storiche e delle stagioni culturali che si sono succedute nel nostro Occidente a partire dal Basso Medioevo, cioè da quando si è andata costruendo la civiltà delle città e del ceto medio che in esse si è andato affermando. Abbiamo definito pittura e poesia “linguaggi dell’anima” per la loro capacità di coinvolgere in modo integrale chi ne fruisce, ovvero in modo da mobilitare, oltre alla dimensione razionale del comprendere, anche gli aspetti affettivi, emotivi e volitivi dell’esistenza.

A tale scopo saranno sottoposti quindicinalmente dei testi poetici e iconici paralleli, reinterpretati quali “oggetti culturali” per la loro capacità di esemplificare l’immaginario di un’epoca. Alla poesia e alla pittura potrà affiancarsi anche la musica, quando gli autori riterranno di proporre qualche fonte musicale, coeva oppure a noi contemporanea, capace di evocare efficacemente lo spirito dell’epoca trattata. Il parallelismo potrà anche strizzare l’occhio agli insegnanti – quali sono i due autori – che volessero istituire nessi più stringenti tra i vari linguaggi, nella convinzione che i ragazzi amano le contaminazioni e soprattutto si lasciano coinvolgere volentieri nello spazio della creatività e dell’interpretazione. 


La materialità dell’esistenza espressa dall’arte

Poesia e pittura testimoniano, attraverso l’esperienza di Cecco Angiolieri e Hieronymus Bosch, l’istanza materiale  sia pur col filtro dell’arte  che percorre l’autunno del Medioevo e che convive con l’anelito alla trasfigurazione e idealizzazione del reale già trattato nel precedente contributo. Qui offriamo il sonetto S’i’ fosse foco, ardereï il mondo del poeta senese e il Trittico del carro da fieno del pittore olandese, in omaggio alla dimensione comico-realistica di questa stagione culturale.

CECCO ANGIOLIERI: S’I’ FOSSE FOCO, ARDEREÏ IL MONDO (1280-1310ca.)

S’i’ fosse foco, arderei’l mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempesterei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo;

s’i’ fosse papa, sare’ allor giocondo,
ché tutti cristïani imbrigherei;
s’i’ fosse ‘mperator, sa’ che farei?
A tutti mozzarei lo capo a tondo.

S’i fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente farìa da mi’ madre.

S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
e vecchie e laide lasserei altrui.

Nel tempo del senese Cecco Angiolieri, la poesia esplorava i sentieri dell’indicibile. Il Dolce Stil Novo celebrava la bellezza della donna e la magia dell’innamoramento con il linguaggio stilizzato dell’amor cortese. Guido Guinizzelli aveva teorizzato il legame tra amore e cuore nobile. La strada era aperta per la lingua pudicissima di Francesco Petrarca, che ancora ragazzino aveva già tra le mani questo genere di testi. Ma questi stessi scrittori, come non raramente accade oggi, erano anche capaci di utilizzare la poesia per esplorare il registro della trasgressione e dello spirito carnevalesco. Lo faceva Dante Alighieri, con le sue “tenzoni” poetiche e con la lingua da bassifondi utilizzata dai diavoli nel suo Inferno. E anche in questo caso il piccolo Giovanni Boccaccio, come si suol dire, prendeva appunti.

Qui abbiamo Cecco Angiolieri, senese, spirito goliardico, che ci propone questo celebre sonetto in cui cortesia e gentilezza cedono il posto ad impertinenza e irriverenza. Tutte le autorità sono chiamate in causa per distruggere ed essere distrutte. La natura, matrigna ben prima di Leopardi, è assunta per annientare il mondo, ma anche Dio non fa di meglio perché vorrebbe farlo sprofondare. E così le due massime autorità, il papa e l’imperatore, ebbri di potere, non farebbero altro che uccidere i loro fedeli e sudditi.

Nel suo malanimo impertinente e iconoclasta, Cecco vorrebbe far fuori anche il padre e la madre. Insomma, il poeta, oggi si direbbe, gioca ad essere contro tutto e tutti, ma l’ultima terzina rivela che in fondo tutta la sua rabbia è un gioco letterario e parodico. Infatti l’unica cosa che realmente può fare l’impertinente senese è prendersi tutte le donne belle e lasciare agli altri quelle vecchie e brutte. Altro che amore cortese. Qui la donna è assunta nella sua dimensione materiale ben altrimenti che nei coevi poeti stilnovisti.

C’è un forte sapore di realtà in questo sonetto. Il lessico attinge a piene mani dal registro delle azioni materiali e rivela l’altra faccia dello spirito duecentesco. Accanto al trasfigurare e contemplare la letteratura visita i territori del distruggere e del godere, che rappresentano la reazione consapevole allo spiritualismo lirico del tempo. Materia, sensualità, trasgressione, ma soprattutto realismo: uno spaccato di cruda realtà medievale in cui anche le figure più nobili – Dio, il papa, l’imperatore, il padre e la madre – sono trascinate nella vita spericolata e nel  vortice poetico irriverente di Cecco.

Dal web: Il peggior nemico di Dante

 HIERONYMUS BOSCH: TRITTICO DEL CARRO DA FIENO (1510-12)

La genesi di un’alternativa pittorica è tarda rispetto a quella di un’alternativa letteraria. Il pittore che avvia una tradizione parallela a quella ufficiale, ribaltando temi e linguaggi seri, con un linguaggio comico tra il simbolico e il realistico, è infatti l’olandese Hieronymus Bosch, pittore fiammingo del ‘400, la cui arte ha però radici iconografiche medievali. Ci rappresenta un mondo dove gli istinti animali e la corruzione interiore hanno preso il sopravvento, ma l’ironia rende il tutto amaramente digeribile. L’essenza è il paradossale, l’irrazionale, lo strano. È la combinazione artistica di un periodo di transizione, il declino del feudalesimo e l’inizio del capitalismo.

Riporto un dialogo tra Erasmo da Rotterdam e Hyeronimus Bosch, tratto dalla biografia romanzata del pittore olandese, scritta da Enrico Malizia:

-Erasmo da Rotterdam: “…per me però la pazzia è segno della completa disgregazione dell’essere umano raziocinante, è la morte della mente e dello spirito, nonché l’annullamento della visione e comprensione del mondo reale.”

-Hieronymus Bosch: “Su questo punto siamo discordi. Per me, l’emblema del folle è il giullare dei re e dei potenti, il pazzo che può dire tutte le verità, anche le più spiacevoli, senza essere punito. Ritengo la pazzia la sola cosa che abbia il potere di rallegrare gli dei e i mortali. […] Al pazzo infatti, specie nella nostra civiltà nordica, è concesso di dire o fare tutto quello che vuole, senza ritenerlo responsabile o colpevole, ma solo incosciente. Di qui, la commedia della follia per poter dire quel che si pensa e fare ciò che si desidera senza rischiare”.

Cecco e Hieronymus, dunque, entrambi raffinati intellettuali, sono accomunati dalla forza dell’invettiva, dall’ambiguità che caratterizza il conflitto dell’uomo rispetto alle regole imposte dalla morale, dall’intento satirico di dare una rappresentazione del mondo che rivela con franchezza che la vita interiore dell’uomo è grottesca e scandalosa. L’esagerazione e la distorsione sono tratti tipici dell’iconografia comica, ma in più Bosch combina realtà impossibili da unire, sovrappone elementi fantastici e realistici, immagini del quotidiano e dell’immaginario, trasmettendo così una visione ‘politicamente scorretta’ del genere umano attraverso un campionario di eccessi, allusioni disgustose, immagini indecenti, personaggi tra l’animalesco e l’umano devastati dall’orgia dei peccati, ciarlatani, maschere carnevalesche, zoologia fantastica, spiedini di corpi, presenze di gruppo fortemente trasfigurate fino al raggiungimento della caricatura.

Il fine di Bosch potrebbe anche apparire didattico, poichè le azioni mostrate evocherebbero i peccati per evitarli, ma poi l’immaginazione supera l’intento originario, generando ilarità per la diabolica brutalità delle sue creazioni. Un esempio è il Trittico del carro da fieno, opera della maturità, qui descritta.

Trittico del carro da fieno, olio su tavola, 1510-12, Museo del Prado, Madrid.

In musica: “S’i’ fosse foco” Di Fabrizio de Andrè

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