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L’agape: amore di cura – Lectio Divina su Gv 10, 11-18

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Il Vangelo del giorno: Gv 10, 11-18

11Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. 12Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; 13egli è un mercenario e non gli importa delle pecore. 14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio».

La cura

La liturgia di questa quarta domenica dopo Pasqua ci presenta il tema dell’agape che trova la sua massima espressione nel pastore bello che dà la propria vita per le sue pecore. Le letture odierne presentano due modi differenti di vivere la relazione: il desiderio di possesso, di potere e un amore tutto proteso verso l’altro, un essere per.

L’Agape nella prima lettera di Giovanni

La prima lettera di Giovanni in pochissimi versetti ci introduce nella contemplazione di un amore che supera ogni logica umana e che proprio per questo genera stupore. È un amore estraneo alla nostra realtà, perché l’agape non è suscitata dall’attrazione o dall’interesse, ma è pura gratuità, dono che trascende ogni merito. Se l’essere agapico di Dio rimane per l’uomo un mistero, anche la nostra condizione futura rimane nascosta nella promessa di Dio: “noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato”.

Questa tensione verso il futuro e ciò che àncora l’uomo nella speranza: se da un lato oggi la nostra società giudica il nostro valore in base al lavoro, al rendimento, alle nostra efficienza, dire che “non è ancora rivelato ciò che saremo” ci permette di ritornare alla gratuità del dono. Nella logica del Regno, l’uomo è giustificato non in base alle proprie prestazioni, ma al suo essere figlio, al suo futuro nascosto in Dio. In questo modo la nostra vita ritrova il suo senso nel mistero d’amore che in Dio ci avvolge.

La cura del pastore

Il Vangelo di Giovanni approfondisce ulteriormente questa dimensione d’amore attraverso l’immagine del pastore, molto diffusa nell’antichità per descrivere gli uomini che governo sul popolo. Nella tradizione biblica il pastore è colui che ha cura e dà la vita per il suo gregge, a differenza del mercenario interessato solo al proprio guadagno e alla sua sicurezza.

Cristo, dopo essersi definito porta del recinto delle pecore, passaggio necessario alla vita, cioè al Padre, si presenta adesso come il pastore bello, in contrapposizione con i falsi pastori già descritti nella predicazione profetica (cfr. Ez 13, 3-23). Di sfondo è possibile leggere una polemica contro le classi abbienti della società giudaica che invece di occuparsi del popolo e dei suoi bisogni miravano ad accrescere il proprio prestigio e i propri beni (cfr. Gv 5,44). Una sottile critica è rivolta anche ai farisei, che disprezzano il popolo perché ritenuto ignorante della legge.

Il “bel pastore” è colui che mette al centro il suo gregge

Lo scopo principale di Giovanni è soprattutto mostrare la vera identità di Gesù bel pastore, messa a confronto con i pastori salariati: il vero pastore “è colui che da la vita”, che non mette al primo posto se stesso e la sua salvezza, ne cerca di guadagnare attraverso le pecore, ma le mette al primo posto perché sono le sue pecore. Il bel pastore è colui che conosce le sue pecore e che le pecore conoscono; Giovanni utilizza la stessa formula per descrivere il rapporto tra il Padre e il Figlio, ed proprio questa relazione che permette al Figlio di conoscere ed amare le pecore. L’identità del pastore bello è unita alla conoscenza delle pecore, una reazione reale di affidamento, tale che il suo gregge diviene rivelazione del Figlio perché le pecore ascoltano la sua voce, lo conoscono e perciò lo seguono. La bellezza è in questa capacità di accogliere e rivelare l’altro. Ci sono anche molti altri recinti, in cui vivono pecore che già gli appartengono perché lui da la vita per loro. L’essere di Gesù per i suoi ha il suo fondamento nella relazione con il Padre: “per questo il Padre mi ama, perché io do la mia vita”.

L’amore per il Padre e il suo essere in profonda comunione con Lui permette a Gesù di poter offrire liberamente se stesso in dono, nessuno gli toglie la vita ma è Lui che la dona.

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