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La Chiesa di Palermo per la scuola

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Il testo costituisce uno stralcio dell’intervento tenuto dall’autore a Palermo il 1° aprile 2014 in occasione della presentazione all’Arcivescovo della iniziativa “La Chiesa per la scuola” in programma il prossimo 10 maggio a Roma

 

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di Patrizia Graziano

 

Da sette anni svolgo attività di Dirigente Scolastico ma appartengo al mondo della scuola da un tempo un po’ più remoto, era l’anno 1980/81 nel quale inizio un’avventura che mi porta dai banchi alla cattedra; sono ben 33 anni che sono parte integrante della comunità scolastica, del sistema scuola.

In tutti questi anni ho assistito a molti mutamenti: riforme, novità normative, autonomia, cambi generazionali, evoluzioni interne ed esterne; una mutazione continua e costante, non saprei dire se il sistema è migliorato e/o peggiorato di certo è mutato.

“La Chiesa per la Scuola”- come prima fase ho letto con molto interesse questo documento della CEI e ho trovato in esso un’analisi molto attenta e dettagliata di tutte le componenti che appartengono al mondo della scuola e che in un certo senso sono le stesse che formano anche la Chiesa come comunità.

 

BENE COMUNE

La scuola è costituita da più componenti: famiglia – utenza – alunni. Docenti – personale – dirigenza.

Anelli imprescindibili di una stessa catena, tutte queste componenti la costituiscono e se ne costituiscono. Tutte queste componenti attive e interattive tra esse, in un continuo dare e avere reciproco, circolare. Tale bene comune è un patrimonio che non può essere fine a se stesso ma in continua riproduzione con la componente sociale; una scuola che non si inserisce e che non ha ricadute in un contesto sociale è un bene fine a se stesso, non ha ragione di esistere, si consuma, non entra nel sistema circolare della riproduzione. La scuola come fonte e produttore di capitale umano (a tal proposito consentitemi di integrare con una citazione) “La conoscenza è una ricchezza che si può trasmettere senza impoverirsi, solo il sapere può essere condiviso senza dar luogo ad impoverimento, al contrario arricchendo chi lo trasmette e chi lo riceve. Sabotare la cultura e l’istruzione significa sabotare il futuro dell’umanità”.

Umanità intesa come Humanitas, qualità specifica e distintiva dell’homo (così come recita il documento) “homo inteso come creatura dotata di intelligenza, di volontà, di sensibilità estetica, di dimensione affettiva, di capacità comunicativa e relazionale in grado di cogliere i significati oltre le apparenze e di comprendere il valore del singolo” in riferimento alla sentenza di Protagora “di tutte le cose misura è l’uomo, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono”. L’idea di umanesimo rinvia insomma a un’educazione coinvolgente e completa, ma soprattutto rispettosa del valore unico di ogni persona (pag. 28/29).

EDUCARE è alla base (della mission scolastica), è la vera vocazione della scuola; non soltanto trasmettere conoscenza e sapere (generare nuova cultura), la scuola è necessaria per affrontare la complessità del mondo contemporaneo e decisiva per l’attenzione all’orientamento, e accompagnamento continuo dei giovani nella scoperta delle proprie potenzialità e dei propri interessi. È in crisi il sistema educativo, sono in crisi gli educatori. Intendendo per educare: guidare, dare esempi, trasmettere comportamenti, modi di pensare e di essere. Educare (lo sappiamo tutti) E – DUCO – DUCERE, condurre fuori – guidare fuori – liberare.

L’educazione trae dalla persona ciò che ha da sviluppare di autentico, di proprio, l’educato è chi conosce il valore delle cose della propria vita. L’educatore è guida per l’educato.

 Chi è l’educato? Non è colui che si comporta bene, che conosce le regole del BON TON; ma colui che trae fuori da sé, dal profondo: talento, doti, capacità.

In un’azione educativa avviene un reciproco “trarre fuori”, l’educatore conosce il valore della propria vita, del profondo sé e aiuta l’educato a “trarre fuori”; pertanto parliamo di un’azione di reciprocità, di contemporaneità. Paragonando il concetto ad una visione, ad una immagine: è errato vedere il docente, il maestro che a piene mani versa, svuota le mani nel sacco dell’educato; piuttosto l’educatore attinge a piene mani dentro di sé, non svuota sull’educato ma avviene uno scambio, l’educato si presenta con le mani piene del proprio (per questo tutte le buone regole educative recitano che bisogna partire dal vissuto del ragazzo – da ciò che esso è), ha attinto da sé il pieno delle mani e l’educatore e l’educato si scambiano il contenuto delle proprie mani per riportarlo nel proprio profondo di sé. Non avviene uno svuotamento piuttosto: svuotamento – scambio – riempimento – CRESCITA RECIPROCA.

 Ecco perché in un processo educativo bisogna partire sempre dal valore e dal profondo della realtà della persona, dell’individuo, non si può prescindere dall’individuo stesso; per questo ogni apprendimento passa necessariamente dalla relazione, dal profondo dell’essere.

L’educazione è strutturalmente legata ai rapporti tra le generazioni, anzitutto all’interno della famiglia, quindi nelle relazioni sociali. Molte delle difficoltà sperimentate oggi nell’ambito educativo sono riconducibili al fatto che le diverse generazioni vivono spesso in mondi separati ed estranei. Il dialogo richiede invece una significativa presenza reciproca e la disponibilità di tempo.

All’impoverimento e alla frammentazione delle relazioni, si aggiunge il modo in cui avviene la trasmissione da una generazione all’altra. I giovani si trovano spesso a confronto con figure adulte demotivate e poco autorevoli, incapaci di testimoniare ragioni di vita che suscitino amore e dedizione. A soffrirne di più è la famiglia, primo luogo dell’educazione, lasciata sola a fronteggiare compiti enormi nella formazione della persona, senza un contesto favorevole e adeguati sostegni culturali, sociali ed economici. Lo sforzo grava soprattutto sulle donne, alle quali la cura della vita è affidata in modo del tutto speciale. La famiglia, tuttavia, resta la comunità in cui si colloca la radice più intima e più potente della generazione alla vita, alla fede e all’amore.(Pag 23 n. 12 Educare alla vita buona del vangelo della CEI).

La diffusione dei disturbi dell’apprendimento, sempre più frequenti, DSA, dislessia, disprassia, discalculia, disgrafia, tutte le “DIS” e i “BES” bisogni educativi speciali; sono l’effetto di una causa: relazioni mancate, malate, distorte, disturbate.

I bambini non sanno neanche allacciarsi le scarpe, nessuno glielo insegna. Che dolore ho provato quando qualche giorno fa Claudia, prima elementare, e arrivata a scuola con le scarpe scambiate; appena ho detto:” ma come sei combinata?” Claudia si è aggiustata le scarpe e mormorava:”la mamma stamattina aveva premura siamo usciti di corsa da casa”. Tutto sempre di corsa sorvolando sempre su TUTTO!

Già all’interno del primo nucleo relazionale LA FAMIGLIA, le relazioni sono disturbate. L’anello più debole del bene comune (la scuola) ma anche della società è la famiglia. Mi accorgo di quanta necessità e quanto bisogno esprimono le famiglie di oggi; hanno paura, sono fragili, chiedono sostegno – guida, non esprimono solo un bisogno economico (la crisi che ci attanaglia prima di essere economica è etico-morale) esprimono necessità etiche, morali, di comportamento. Siamo il risultato di un consumismo sfrenato, esteso all’eccesso, la diffusione “dell’usa e getta” ha inquinato, ha deturpato, ha violentato le RELAZIONI.

Se la logica “dell’usa e getta” è attribuibile alle cose ( io non la condivido neanche per le cose, ci sono cose che parlano di un passato che non è giusto sorvolare, che ognuno di noi si porta con sé e che va custodito gelosamente perché costituisce le fondamenta dell’essere); tale logica è deprecabile nelle relazioni, sui nuclei fondanti la società, l’umanità. Non si può attribuire il danno della logica “usa e getta” alle nuove generazioni: “In educazione il problema non è la generazione dei figli, ma la generazione dei padri; non la generazione dei discepoli ma quella dei maestri”.

Lo abbiamo creato noi il danno!

Si vuole tutto e subito, si è spaventati dalla fatica, dal dolore, dalla prova, dalla necessità di cambiare, si è terrorizzati dall’idea di cadere e di doversi rialzare. Insomma si ha tanta paura della vita, ma la vita è fatta di tutte queste cose. La vita, il bene più prezioso, siamo arrivati ad avere paura di essa; una volta si lottava per la vita, per sopravvivere, l’istinto di sopravvivenza ci salvava da particolari pericoli, sventure; oggi la paura, la fragilità, l’incapacità di affrontare difficoltà, l’impervietà ci detta la rinuncia, l’arresto, il suicidio, la morte. Antonio Socci ci dice e si domanda:”Perché il mondo ha tanta paura delle sofferenze? Perché ha cosi bisogno di chiudere una ferita? Forse perché sconvolge la vita, le nostre visioni, i nostri progetti. La sofferenza chiede AMORE, tanto AMORE e non è facile amare cosi”. Non si deve aver paura del cammino della vita, delle sue fatiche e delle sue prove. Perché è questo brevissimo cammino che ci fa guadagnare la felicità per sempre. Magistralmente lo recita Fernando Pessoa nel suo componimento:

Di tutto restano 3 cose:

la certezza che stiamo sempre iniziando, la certezza che abbiamo bisogno di continuare, la certezza

che saremo interrotti prima di finire.

Pertanto, dobbiamo fare: dell’interruzione un nuovo cammino, della caduta un passo di danza, della paura una scala del sogno, un ponte del bisogno un incontro.

 Ci siamo costruiti una vita di plastica, usa e getta che somiglia a quella vera ma non è la vera vita. (come i piatti di carta, se ne può fare lo stesso uso, ma non sono i piatti veri, quelli rigidi, quelli che possono raffreddare i pasti troppo caldi, che permettono di trasportare i pasti troppo liquidi).

E in questa logica, anche se ne ha il dovere, la scuola non può permettersi di evidenziare le differenze: tutti  sono uguali, tutti devono farcela, tutti devono essere eccellenti, tutti devono essere competenti, tutti (senza smontare i vecchi pregiudizi) devono andare al Liceo perché sono figli di…, non si può essere lenti, non si deve essere riflessivi, non si deve essere pacati, non si deve essere intelligenti pratici, non si deve essere… secondo una logica della clonazione, della massificazione, ansie da prestazione continue, dobbiamo essere tutti uguali: tutti bravi, tutti promossi, tutti belli, tutti possedere tutto, tutti uguali. Ma la scuola deve combattere le disuguaglianze non le differenze; deve offrire pari opportunità a tutti anche se i risultati devono essere diversi per tutti. Il raggiungimento del successo scolastico, a cui s’appellano tutte le più recenti indicazioni pedagogiche, significa prendersi cura della persona, vivere la diversità come valore aggiunto, attenzionare la relazione, i bisogni, sollecitare lo stupore, l’orientamento, le scelte, il discernimento.

A forza di risparmiarli dalle fatiche, dal sacrificio, dalla “prova”, dalle responsabilità si rischia l’appiattimento: …mi viene in mente Pascal quando dice che partecipare ai riti religiosi ci aiuta a diventare credenti. Geniale! Non è che vai a messa perché sei credente, vai a messa per diventarlo! Cosi non è che vai a scuola perché adori leggere Torquato Tasso o applicare il Teorema di Pitagora, vai a scuola perché un giorno tu possa leggerlo, e quindi adorarlo, appassionartene. A forza di risparmiarli dalle difficoltà a furia di rottamare il “vecchio” latino, il greco, tutte le materie obsolete che si contrappongono con la “modernità”, loro nel frattempo hanno preso l’abitudine di andare ai centri commerciali, di farsi l’aperitivo. Peccato che fare una versione di latino o un componimento letterario piuttosto che un test a risposta multipla, sia un ottimo modo per “stare” sulle parole: educa all’indugio, alla riflessione, alla meditazione verbale, fa bene alla testa, attiva certe particolari sinapsi legate al mondo simbolico del linguaggio verbale, e dunque alla capacità di parlare, leggere e scrivere come dice PAOLA MASTROCOLA(Scusate il disturbo). Ma forse non ci crediamo più neanche noi, forse è venuta meno la voglia di sperimentare, modificarsi, di rivedersi nella forma, nella formula, nel metodo. Una versione di latino è un mezzo, come sono mezzi gli apparecchi elettronici e/o digitali.

L’enorme sviluppo e slancio digitale va sostenuto, la scuola si deve adeguare deve adottare i nuovi linguaggi e i nuovi mezzi tenendo sempre presente che sono mezzi non devono diventare scopo, fine, DISCIPLINE.

Per concludere vorrei fare un breve passaggio sul riordino dei cicli in istituti comprensivi, li hanno inventati le scuole cattoliche che da sempre accoglievano e si occupavano dei bambini dall’infanzia quasi fino all’università. Io trovo che siano una bella invenzione (al di la dei tagli), COMPLESSA ma fruttuosa e sensata; pianificare e sistematizzare il processo formativo dai 3 anni(anche 2 e mezzo) ai 14 è una enorme responsabilità ma un sano sistema per pianificare, progettare, monitorare, realizzare una formazione completa, assistita, ciclica, verificabile secondo una linea e un piano serio, condiviso, realizzabile. Per il sistema scolastico, soprattutto nei piccoli centri, significa detenere il “potere” della costruzione del pensiero, dell’opinione, dei comportamenti; si può intervenire efficacemente la dove c’è l’incuria familiare o la debolezza familiare. Si può incidere sinergicamente con le famiglie se c’è collaborazione. E’un sistema funzionale, utilizzando la continuità e un percorso curricolare in verticale si procede tutti insieme secondo una linea condivisa e controllata nelle varie tappe evolutive del bambino, del ragazzo. Ho visto e vissuto in questi anni la risoluzione di tanti problemi individuati nella fase giusta e non trasportati alla cieca e inosservati, da un ordine di scuola all’altro.

A tal proposito, concludo davvero, dandovi lettura di un brano interessantissimo, quest’estate ho letto questo libro di DANIEL PENNAC “Diario di scuola” – la scuola dal punto di vista degli alunni. O meglio, dal punto di vista dei “somari”, di quelli che vanno male a scuola. Pennac oggi docente di francese in una scuola parigina è un ex “somaro”.

I nostri studenti che “vanno male”(studenti ritenuti senza avvenire) non vengono mai soli a scuola. In classe entra una cipolla: svariati strati di magone, paura, preoccupazione, rancore, rabbia, desideri insoddisfatti, rinunce furibonde accumulati su un substrato di passato disonorevole, di presente minaccioso, di futuro precluso. Guardateli, ecco che arrivano, il corpo in divenire e la famiglia nello zaino. La lezione può cominciare solo dopo che hanno posato il fardello e pelato la cipolla. Difficile spiegarlo, ma spesso basta solo uno sguardo, una frase benevola, la parola di un adulto fiduciosa, chiara ed equilibrata per dissolvere quei magoni, alleviare gli animi, collocarli in un presente rigorosamente indicativo.

Naturalmente il beneficio sarà provvisorio, la cipolla si ricomporrà all’uscita e forse domani si dovrà ricominciare daccapo. Ma insegnare è proprio questo: ricominciare fino a scomparire come professori. Se non riusciamo a collocare i nostri studenti nell’indicativo presente della nostra lezione, se il nostro sapere e il piacere di servirsene non attecchiscono su quei ragazzini e quelle ragazzine, nel senso botanico del termine, la loro esistenza vacillerà sopra vuoti infiniti. Certo non saremo gli unici a scavare quei cunicoli o a non riuscire a colmarli, ma quelle donne e quegli uomini avranno comunque passato uno o più anni della loro giovinezza seduti di frante a noi. E non è poco un anno di scuola andato in malora è l’eternità in un barattolo. (Pag. 55, cap. 10)

 

Bisognerebbe inventare un tempo specifico per l’apprendimento. Il presente d’incarnazione, per esempio. Sono qui, in questa classe, e finalmente capisco! Ci siamo! Il mio cervello si propaga nel mio corpo: si incarna.

Quando non succede, quando non capisco niente, mi sfaldo, mi disintegro in questo tempo che non passa, mi riduco in polvere e un soffio basta a disperdermi.

Ma, affinché la conoscenza possa incarnarsi nel presente di una lezione, occorre smettere di brandire il passato come una vergogna e l’avvenire come un castigo. (Pag. 56 cap. 11)

 

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