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Il tempo della consolazione

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Introduzione alla lectio di Mc 13, 24-32

15 novembre 2015 – XXXIII domenica del tempo ordinario

 

 

 

Disse Gesù ai suoi discepoli: [24] «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo chiarore, [25] le stelle cadranno dal cielo, e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. [26] Allora vedranno il Figlio dell’Uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. [27] Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra, fino all’estremità del cielo. [28] Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, voi sapete che l’estate è vicina. [29] Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose sappiate che egli è vicino e alle porte. [30] In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo accada. [31] Il cielo e la terra passeranno ma le mie parole non passeranno. [32] Quanto poi a quel giorno e a quell’ora nessuno lo sa, né gli angeli in cielo né il Figlio, ma solo il Padre»

 

Dio è per noi rifugio e forza, aiuto sempre vicino nelle angosce. 

Perciò non temiamo se trema la terra, 

se crollano i monti nel fondo del mare. (Sal 46, 2-3)

  

 

Il brano di questa settimana propone alla nostra meditazione l’ultima parte del monologo (il cosiddetto discorso escatologico) che Gesù indirizza a Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea (i discepoli che ricevettero da Gesù la prima chiamata – Mc 1, 16-20). Questo lungo discorso può essere assimilabile «ai numerosi “discorsi d’addio” presenti sia nell’Antico Testamento sia nel Nuovo Testamento, in cui il leader della comunità (che sia Mosè, Giosuè, Davide, Tobia o Paolo) trasmette ai suoi le ultime istruzioni, incoraggiandoli nei confronti delle inevitabili difficoltà da affrontare dopo la sua morte» (Guida, 689). Gesù sembra nutrire qui una forte preoccupazione pastorale. Nell’imminenza della sua passione, morte e resurrezione (Mc 14-16) rivolge all’originario gruppo di discepoli una parola che rivela gli eventi futuri, ma soprattutto ne offre loro la corretta chiave di lettura prima del compimento.

 

All’inizio del capitolo, l’autore del secondo vangelo, fedele alla logica dello spostamento (Marguerat, 35), racconta che Gesù esce dal tempio di Gerusalemme (v. 1) e sedendovi provocatoriamente di fronte, sul monte degli Ulivi (v. 3), annuncia la caduta della città e la distruzione del suo tempio (v.2; Zc 14, 4). In risposta alla domanda dei discepoli che chiedono tempi e date precisi (v. 4), il Maestro consegna in disparte l’ultima rivelazione, prima che inizino effettivamente “le doglie del parto” (v. 8). In realtà, nella prima parte del discorso, Gesù predice la distruzione di un «sistema del quale il tempio è l’ipostasi, la concretizzazione» (Guida, 690). Quel sistema è stato già demolito in parte nelle dispute fra Gesù e le autorità ufficiali del giudaismo gerosolimitano (Mc 11 e 12) (Bianchi, Perché, 22).

 

Tutto il discorso di Gesù sembra presentare ai discepoli due tempi in particolare: il primo, racchiuso nella prima parte (v. 5-23), è quello della prova; il secondo, invece (quello che si aprirà dopo la grande tribolazione – v. 24-32), è il tempo del giudizio finale che coinciderà con la venuta gloriosa del Figlio dell’uomo. Marco sembra voler dire alla sua comunità – segnata da un’esperienza storica drammatica quale poteva essere quella della distruzione di Gerusalemme e del suo tempio, probabilmente a causa della guerra giudaica del 66-70 d.C. -, che il tempo della tribolazione non corrisponde al termine della storia. Questo perché il mondo e tutta l’umanità vanno verso quel “Giorno del Signore”, già invocato dai credenti di Israele, giorno di salvezza e di giudizio (Is 65, 17; 2 Pt 3, 13; Ap 21, 1-2).

 

Sicuramente la comunità di Marco era a conoscenza del genere letterario apocalittico, dotato di una sua logica interna, i «cui capitoli sono catastrofe, imminenza della fine, ultimo giudizio con relativa separazione dei buoni dai cattivi e nuova era. Il tutto in un clima di esaltazione, di paura e di attesa febbrile attenta a decifrare i segni e a calcolare i tempi. Una mentalità mai venuta a meno nel corso della storia…» (Bruni, 1). Marco ospita nel suo Vangelo la positività di questa mentalità apocalittica («il non poterne più, il desiderio di emancipazione da tutte le potenze e i poteri che giocano a rendere amara la vita, il sognare un mondo diverso e l’attenderlo oggi stesso dal proprio Signore») e, nello stesso tempo, ritocca le sue «sfaccettature negative ricorrendo a detti di Gesù ripensati nella comunità dei discepoli» (Bruni, 1).

 

Conviene osservare che nel genere narrativo apocalittico non conta tanto prevedere eventi futuri che segnano la fine della storia, quanto ri-velare il fine della storia, cioè la sua finalità. In altre parole, l’obiettivo è «portare a conoscenza quanto agli occhi umani resta nascosto e impenetrabile, non tanto perché si riferisce a un futuro inaccessibile, quanto piuttosto perché appartiene (…) al mistero stesso della creazione voluta da Dio e della storia guidata da Dio» (Bianchi, L’Apocalisse, 7). In una parola, si tratta di svelare-rivelare dove va la storia, qual è il suo compimento (il verbo greco apokalỳptein significa togliere il velo). Ricordiamo inoltre la presenza, nel mondo biblico-giudaico, di una concezione lineare del tempo e della storia, «la quale viene così posta tra un inizio, posto da Dio, e una fine, che sarà ugualmente posta da Dio» (Ibid., 10). Forse adesso è chiaro che per l’autore di cultura giudaica la fine coincide con il fine.

 

In effetti, per l’evangelista la “grande tribolazione” segnala la fine di un tempo, ma non coincide con il fine della storia. Pensare che il dolore, la morte, la miseria, gli inganni, le persecuzioni o la violenza siano segni della fine del mondo significa giudicare secondo le apparenze. E ricordiamo che Gesù – vedendo la vedova povera gettare nel tesoro del tempio due monetine – aveva già insegnato ai discepoli a non giudicare secondo le apparenze (Mc 12, 42-44). Se la fine dei tempi coincidi con un evento che ricapitolerà tutta la storia e le darà un senso pieno (la parusia – v. 26), allora la tribolazione-desolazione non potrà mai essere l’ultima parola rivelatrice di Dio per l’uomo. Terremoti, tsunami, impreviste variazioni climatiche, guerre e sradicamento delle ragioni che danno senso al vivere, vanno letti innanzitutto come segni della quotidianità della storia, della realtà di sempre. Questa lettura della desolazione alla luce del principio della realtà, «non esclude ovviamente il principio utopia, l’invocare la fine di questo mondo sperando l’apparizione di ciò che ancora non ha luogo, un mondo diverso» (Bruni 1). Dio – che è Signore della storia e del tempo – è un Dio buono verso tutti e non abbandona il mondo e l’uomo nel dolore. Siamo invitati pertanto a vivere il presente come tempo della prova, con la consapevolezza dell’essere stati già salvati, perché il cielo e la terra passeranno, ma le Sue parole non passeranno (v. 31).

 

Per i cristiani l’ultima Parola di Dio sulla storia e sull’umanità si realizza nel Risorto e Veniente, che tornerà nel giorno del giudizio-riscatto, il giorno in cui si vedrà non l’ira e il castigo divino, ma il sorgere di un nuovo cielo e di una nuova terra (un mondo diverso – 2 Pt 3, 13). Giorno salvifico e liberatorio in cui il male sarà definitivamente sconfitto, l’uomo vedrà faccia a faccia il suo Amato e l’umanità degli eletti si riunirà al Suo cospetto (v. 27). «Con intelligenza – osserva Bruni – l’evangelista ha collocato il discorso escatologico avanti il racconto della passione-resurrezione, a voler dire che la pasqua è la chiave di lettura delle cose ultime. Il come Cristo ha vissuto il tempo della sua crisi diventa il come la deve vivere il discepolo» (Bruni 2).

 

Gesù, il messia sconfitto della storia, non ha desiderato la morte, ma ha vissuto il proprio annientamento affidandosi a Dio. Nel vangelo di Marco, Gesù sembra identificarsi con il Figlio dell’uomo, colui che ha il potere di perdonare i peccati (Mc 2, 10), e che verrà a porre fine alla storia, giudicando con la potenza di Dio e istaurando il suo Regno (Dn 7, 13-14). Quando allora intuisce il fallimento della forma originaria della sua attesa, Gesù rivede il fine e la fine della sua vita alla luce della promessa divina. Davanti alla morte eminente, Lui abita la crisi e dirime davanti a Dio il senso delle cose; non trova una soluzione, ma attraversa il tempo della devastazione rimanendo ancorato a Dio. Il Cristo crocifisso trasforma così il subire in un atto creativo: affida al Padre il compimento della propria vicenda e vive il tempo dell’attesa con la fiducia che le promesse di Dio restano. E così il «Cristo risorto dai morti è evento apocalittico nel rivelare che la morte non ha potere su chi ama» (Bruni 2).

 

In questo tempo dell’attesa i discepoli sono invitati a non perdere senno dietro calcoli di ore e di giorni (v. 32), cioè a non misurare il quando e come verrà il giorno di Dio. Come per dire che la realizzazione-compimento della promessa di un Regno di pace e di giustizia non appartiene al tempo dell’uomo e del mondo (Rm 8, 19-24). Nell’oggi della nostra vita c’è invece preparazione-purificazione e invocazione, affinché si possa accogliere quello che verrà (Ap 22, 17.20; 1 Cor 16, 22; 2 Pt 3, 11-13). Ecco perché san Basilio ci richiama: «Che cosa è proprio del cristiano? Vigilare ogni giorno e ogni ora, sapendo che nell’ora che non pensiamo il Signore viene».

 

Persiste ancora la domanda: come attraversare il tempo della crisi, della tribolazione e della devastazione? Non certo alienandosi dall’oggi in un sonno indifferente al mondo (v. 36-37), anzi essendone capace di aderire al presente, restando fedele nell’amore alla gente e alla terra in cui si vive. Solo così i cristiani affrettano con la loro attesa perseverante la venuta dei tempi della consolazione (At 3, 19-21).

Maria de Fatima Medeiros Barbosa 

Comunità Kairòs

 

Brani di riferimento:

Paralleli con Matteo 24, 29-36; Luca 21, 25-33.

È consigliabile la lettura di Marco 13.

Apocalittica giudaica: Is 13, 10; 34, 4; Ag 2, 6.21; Dn 7, 13-14; 9, 27; 12, 1.

Sulla vigilanza come attesa 1 Ts 5, 1-11.

 

Bibliografia

Bianchi, E., Perché avete paura? Una lettura del vangelo di Marco, Oscar Mondadori 2011.

________, L’Apocalisse di Giovanni. Commento esegetico-spirituale, Edizioni Qiqajon 2012.

_______, XXXIII Domenica del tempo Ordinario. Commento al Vangelo di Enzo Bianchi – 18 novembre 2012, in AlzogliOcchiversoilCielo. it.

Bruni, G., Abitare la crisi: da apocalittici?, in ToscanaOggi.it.

Focant, C., Il vangelo secondo Marco, Cittadella Editrice 2015, 530-542.

Guida, A., «Introduzione al vangelo secondo Marco. Raccontare la buona notizia», in I Vangeli tradotti e commentati da quattro bibliste, Ancora 2015, 685-696.

Marguerat, D., «Quattro lettori per quattro vangeli», in D.Marguerat – A. Wenin, Sapori del racconto biblico. Una nuova guida a testi millenari, EDB 2013, 25-58.

 

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