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il tempo non è nostro

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Introduzione alla lectio divina su Lc 21, 25-28.34-36

02 dicembre 2012 – I domenica del tempo d’Avvento

 25Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, 26mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. 27Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. 28Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”. 34State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; 35come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. 36Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo”

 Albrecht Dürer, St John’s Vision of Christ and the Seven Candlesticks, 1498, Staatliche Kunsthalle Karlsruhe

 

 La vostra liberazione è vicina. È l’annuncio di questo brano del terzo vangelo, quello che leggeremo lungo tutto il nuovo anno e che è stato scelto dalla liturgia per introdurci nel tempo di Avvento.

Questo annuncio trasmette una luce particolare ad un tema che l’evangelista riprende dal più antico vangelo di Marco (nella stessa versione già letta, appena due domeniche fa, alla fine dell’anno B), il quale ancora risentiva direttamente della contemporaneità con la distruzione di Gerusalemme, percepita dal popolo ebraico come l’“abominio della desolazione”, come una suprema umiliazione.

Luca, che invece scrive a distanza di circa vent’anni da Marco ad un uditorio non esclusivamente ebraico, pur continuando a richiamare Is 34,4 (i cieli si arrotoleranno come un libro) ed i suoi sconvolgimenti fisici, attenua il carattere apocalittico della fonte e parla di “segni” nella natura dell’imminente arrivo del Figlio dell’Uomo, che generano reazioni emotive nell’uomo (angoscia, ansia, paura).

A fronte di questi sentimenti negativi, si rivela centrale l’avvertimento rassicurante dell’evangelista: la parousia (appunto, la – seconda – venuta gloriosa del Figlio), più che un temibile giudizio o una catastrofe cosmica, sarà un momento di sollievo e di redenzione per i cristiani che sono sottoposti, come gli altri uomini, alle fatiche ed ai dolori, alle contraddizioni ed alle incomprensioni che incontriamo nel mondo.

La storia umana non viene presentata nella cultura biblica come un tempo infinito (indeterminato e insignificante), ma come un percorso che ha un inizio ed avrà un compimento in quel “verrà nella gloria a giudicare i vivi ed i morti” che ripetiamo (talvolta piuttosto automaticamente), nel Credo. La nostra storia ha, dunque, una direzione ed un senso e questo senso si riassume proprio nella finale affermazione gloriosa del Cristo, in una novità radicale rispetto alla esperienza quotidiana di male e dolore che sperimentiamo tra gli uomini e che ci appare una necessità di natura. Gesù, al contrario, ci ha donato un futuro e ci ha promesso che questa necessità sarà spezzata. (“Io vengo presto!”: Ap 22,20).

In questa prospettiva, al cristiano non resta che attendere l’adempimento di questa promessa. E l’evangelista fornisce alcuni avvertimenti circa il giusto atteggiamento da mantenere: testa alta e portamento eretto (atteggiamenti di dignità, tipici dell’innocente che viene a giudizio), ma soprattutto attenzione e lucidità nel comprendere i segni dei tempi in cui viviamo.

La venuta del Signore, che continua a rimanere un mistero quanto a tempi e modalità, non è dunque un evento marginale, ma impronta di sé tutto il nostro modo di essere cristiani. Secondo San Basilio, “il cristiano è colui che resta vigilante ogni giorno e ogni ora sapendo che il Signore viene”. Per questo Luca esorta il lettore a non distrarsi: il tempo, orientato verso un futuro di resurrezione e salvezza predisposta per tutti noi dal Signore Gesù, non è a nostra disposizione, né ci appartiene in modo proprietario. Preoccupazioni materiali e piaceri della vita sono dimensioni forse fisiologiche per l’uomo contemporaneo e, tuttavia, i nostri cuori sono chiamati a gestirli sapientemente senza esserne dominati, senza risultarne in qualche modo appesantiti, soprattutto senza perdere tempo per ciò che è essenziale.

Il pericolo vero è, in realtà, per il cristiano quello di non attendere più nulla, ma di lasciarsi vivere in una quotidiana ripetizione di comportamenti, in un ottundimento egocentrico che coinvolge anche le forze più vitali e che non ci fa scorgere i segni del Regno di Dio. Ed è un rischio tremendamente attuale, se solo pensiamo a cosa pensano oggi gli stessi cristiani quando parlano di Avvento: nella migliore delle ipotesi, ad un devoto periodo di preparazione al Natale.

E c’è un rischio anche ecclesiale: una Chiesa, che non attende la venuta del suo Signore, che ritiene di aver raggiunto la verità senza continuare a cercarne le tracce in compagnia degli altri uomini, una Chiesa che è priva di una consapevole lucidità di se stessa e dei propri limiti, una Chiesa che crede di essere essa stessa il Regno di Dio già nel tempo presente, ebbene questa Chiesa è una vera e propria negazione della nostra fede escatologica.

Diamo realmente all’“Avvento” di Dio ancora un futuro? O abbiamo segretamente relegato Dio nel ghetto di un mero passato?” (J.B. Metz). A queste domande è difficile rispondere.

L’evangelista Luca non si limita a ricordare l’annuncio di liberazione e ci indica come affrontare questo sforzo di lucidità al quale siamo chiamati, mostrandoci due strumenti preziosi per andare incontro al Signore che viene: la veglia e la preghiera, due strumenti a disposizione di ogni cristiano che permettono di lasciar spazio all’essenziale, al senso che veramente orienta la nostra vita.

 

 

Lorenzo Jannelli

 

 

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