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Il segreto della felicità – Lectio Divina su Lc 6,17.20-26

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17Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone.  20Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. 21Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. 22Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. 23Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti. 24Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. 25Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. 26Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti.

La liturgia di questa sesta domenica del tempo ordinario mette ognuno di noi davanti alle conseguenze delle proprie scelte e porta a chiederci in chi riponiamo la nostra fiducia. È il profeta Geremia, nella prima lettura, a ricordarci che il discrimine tra maledizione e benedizione dipende dal fondamento della nostra fiducia. Non si tratta di disprezzare il genio umano e i doni ricevuti, piuttosto di riconoscere i propri limiti.

Geremia parte da una situazione concreta: Israele ritiene di poter sopravvivere alle potenze circostanti intessendo una rete di alleanze politiche, confidando nell’intelligenza e nella scaltrezza umana. Il profeta, invece, ci avverte che riporre la propria fiducia nei valori che vengono dagli uomini e dal loro calcolo, porta a vivere in un deserto inabitabile. È la prova che sempre si pone davanti all’uomo: riconoscere la propria fragilità e fondare le propria vita in Dio è l’unica possibilità per fondare una città realmente umana.

Questo non perché Dio è geloso del fuoco, come nel mito di Prometeo, ma perché il Padre celeste chiede ai suoi figli una responsabilità adulta, un essere-per-gli-altri autentico, unico antidoto al nostro limite. L’uomo che confida nel Signore avrà sempre linfa e forza di vita (cfr. Sal 1): nella corresponsabilità tra Creatore e creatura anche il deserto fiorisce, perché il bene fatto, l’amore seminato, rimangono e fruttificano anche al di là di noi.

Il Vangelo

utilizza lo stesso linguaggio sapienziale di Geremia nel proporci le beatitudini secondo la versione di Luca. Il racconto presenta 4 beatitudini e 4 maledizioni, che in realtà non fanno altro che riaffermare le beatitudini in forma negativa. Gesù si trova in mezzo a una gran folla, ma rivolge la sua parola soltanto ai discepoli e, in prospettiva, alla comunità cristiana. Le prime tre beatitudini che dichiarano beati i poveri, gli affamati e gli afflitti sono una chiara manifestazione del messaggio centrale del Regno di Dio veniente: essi
trovano risposta soltanto in Dio e nella giustizia del Regno che viene. 

La prima beatitudine riguarda la povertà volontaria, caratteristica propria del cristiano perché “Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”(Lc 14,33). La povertà evangelica non è il disprezzo dei beni e dei doni ricevuti, ma la consapevolezza che noi siamo solo custodi di una ricchezza che, in ultima analisi, è dono di Dio, che noi siamo chiamati ad amministrare e fare fruttificare secondo il progetto di Dio. I poveri sono anche gli oppressi, i privilegiati del Regno, coloro che non possono difendersi da soli e quindi si affidano totalmente a Dio.

Per Luca la povertà è una situazione opprimente, a cui occorre rispondere con il sostegno di chi si trova in migliori condizioni. Questo non significa trovarsi davanti a una risoluzione radicale della povertà materiale; Gesù, infatti, non assicura un cambiamento già ora sulla terra, ma l’annuncio di una promessa futura: nel futuro Regno di Dio vi sarà un capovolgimento dei rapporti terreni, una “svolta escatologica” come nella parabola di Lazzaro (cfr. Lc 16,19-31).

Gli afflitti sono coloro che soffrono intensamente e che hanno Dio come solo sostegno; gli affamati sono coloro, invece, che non possono procurarsi il necessario sostentamento, mentre i perseguitati a causa del Figlio dell’uomo sono coloro che stanno seguendo il Maestro e proprio la persecuzione è il segno della radicalità della loro sequela.

Le beatitudini non sono un’esaltazione da parte di Gesù di queste situazioni di disagio, ne vogliono mettere in risalto la virtù del povero, quanto piuttosto la condizione di insufficienza umana di fronte alla quale Dio interviene. Non si è beati perché poveri, oppressi, afflitti, ma perché Dio interviene in prima persona in loro favore, in questo senso la prospettiva originaria delle beatitudini non è morale, ma storico salvifica e corrisponde alla situazione concreta della vita di Gesù, che interviene non in nome di una rivendicazione di giustizia sociale, ma in nome della giustizia regale di Dio.

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