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Il ritorno della teologia della liberazione

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di Giuseppe Savagnone

 

Si può leggere l’enciclica Laudato si’, di papa Francesco, da punti vista diversi  e ugualmente legittimi. Qui vorrei suggerire che essa, con la sua forte accentuazione del rapporto tra crisi ecologica e “cultura dello scarto”,  costituisce una sostanziale ripresa della teologia della liberazione. Qualcuno potrebbe interpretare la mia affermazione come un’accusa, se non di aperta eresia, almeno di drastica discontinuità, da parte dell’attuale pontefice, nei confronti dei suoi due immediati predecessori. La teologia della liberazione non è stata forse  esplicitamente condannata dalla Chiesa durante il pontificato di Giovanni Paolo II con documenti della Congregazione per la dottrina della fede firmati dall’allora cardinale prefetto Josef Ratzinger?

In realtà la chiave di lettura che propongo non suppone affatto una sua rottura col magistero ecclesiastico precedente. Per rendersene conto, basta  leggere il primo dei due documenti dedicati dall’ex Sant’Uffizio (al tempo, ribadisco, in cui ne era prefetto il futuro Benedetto XVI) alla teologia della liberazione – Libertatis Nuntius,  del 1984  (il secondo, che comunque suppone il primo, è Libertatis Conscientia, del 1986) – , si scopre con stupore che tanti luoghi comuni sulla sua incompatibilità con la visione della Chiesa sono un’indebita semplificazione, a uso e consumo di tutti coloro che hanno avuto interesse, in questi anni, a ridurre l’influsso del cristianesimo al livello puramente spirituale, disinnescando la sua carica rivoluzionaria sul terreno sociale.

Il fatto è che, dietro l’etichetta “teologia della liberazione” stanno concezioni e modalità pratiche molto diverse fra di loro. Lo rileva, appunto, la Libertatis Nuntius, dove leggiamo che, «presa in se stessa, l’espressione “teologia della liberazione” è un’espressione pienamente valida: essa designa una riflessione teologica incentrata sul tema biblico della liberazione e della libertà e sull’urgenza delle sue applicazioni pratiche» (III,4).  Essa, perciò, «designa innanzi tutto una preoccupazione privilegiata, generatrice di impegno per la giustizia, rivolta ai poveri e alle vittime dell’oppressione» (III,3).

«Partendo da questo approccio», tuttavia, continua il documento, «si possono distinguere parecchie maniere, spesso inconciliabili, di concepire il significato cristiano della povertà e il tipo d’impegno per la giustizia che esso comporta. Come ogni movimento di idee, “le teologie della liberazione” presentano posizioni teologiche diverse» (ivi).

Ciò che rende certune di esse inaccettabili, dal punto di vista della fede, è che «di fronte all’urgenza dei problemi, alcuni sono tentati di porre l’accento in maniera unilaterale sulla liberazione dalle schiavitù di ordine terrestre e temporale, per cui sembrano far passare in secondo piano la liberazione dal peccato, e così non attribuirle più, praticamente, l’importanza primaria che invece ha» (Intr.).

Ma, insiste il documento, «esiste un’autentica “teologia della liberazione”, quella che è radicata nella Parola di Dio, debitamente interpretata» (VI,7). Essa si fonda sul fatto indiscutibile che «il Vangelo di Gesù Cristo è un messaggio di libertà e una forza di liberazione» (Intr.). Solo che, nella visione cristiana, «la liberazione è innanzi tutto e principalmente liberazione dalla schiavitù radicale del peccato. Il suo scopo e il suo punto d’arrivo è la libertà dei figli di Dio, dono della grazia» (ivi). Ciò non significa, però, limitarne la portata alla sola sfera spirituale e religiosa, perché «essa comporta, di logica conseguenza, la liberazione dalle molteplici schiavitù di ordine culturale, economico, sociale e politico, che in definitiva derivano tutte dal peccato, e costituiscono altrettanti ostacoli che impediscono agli uomini di vivere in conformità alla loro dignità» (ivi). La dimensione trascendente della storia biblica non può essere mai separata da quella sociale: «Nell’Antico Testamento, i profeti, dopo Amos, non cessano di richiamare, con singolare vigore, le esigenze della giustizia e della solidarietà e di esprimere un giudizio estremamente severo nei confronti dei ricchi che opprimono il povero. Essi prendono le difese della vedova e dell’orfano. Proferiscono minacce contro i potenti: l’accumularsi delle iniquità conduce necessariamente a terribili castighi. La fedeltà all’Alleanza non è concepibile senza la pratica della giustizia. La giustizia verso Dio e la giustizia verso gli uomini sono inseparabili. Dio è il difensore e il liberatore del povero» (IV,6).

Anche nel NT «la Lettera a Filemone dimostra che la nuova libertà, apportata dalla grazia di Cristo, deve avere necessariamente delle ripercussioni sul piano sociale» (IV,13). E non potrebbe non essere così, dal momento che «coloro che soffrono o sono perseguitati vengono identificati col Cristo» (IV,10).

Sempre con l’avvertenza che «non si può restringere il campo del peccato, il cui primo effetto è quello di introdurre il disordine nella relazione tra l’uomo e Dio, al cosiddetto “peccato sociale”. In realtà solo una retta dottrina sul peccato permette d’insistere sulla gravità dei suoi effetti sociali» (IV,14).

Questa la dottrina della Chiesa. Sappiamo tutti cosa è accaduto nei trent’anni che ci separano da quel documento magisteriale: la teologia del liberazione è stata demonizzata in blocco; i suoi rappresentanti sono stati isolati (si è dovuto attendere papa Bergoglio per la beatificazione di mons. Romero, martirizzato per la  sua battaglia contro le ingiustizie e lo sfruttamento dei poveri in America Latina); i temi bioetici hanno occupato quasi tutto lo spazio dell’attenzione ecclesiale, sotto l’etichetta di “valori non negoziabili”,  a scapito  di quelli della giustizia e della solidarietà.

È chiaro che i pericoli di una lettura unilaterale del vangelo in chiave socio-politica sono realissimi; ma questo non può giustificare la caduta in una lettura opposta e altrettanto unilaterale. Dobbiamo essere grati, perciò,  a papa Francesco di averci riproposto quella «autentica “teologia della liberazione”» – di cui parlavano Giovanni Paolo II e Ratzinger – che senza minimamente sostituire  gli altri aspetti della fede e della morale cristiane, li integra felicemente in un unico grande «messaggio di libertà» e in una unica dirompente «forza di liberazione».

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