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Il Rabbi che sconfinava (I parte)

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Ringraziamo don Angelo Casati per aver regalato a Tuttavia.eu ed ai suoi lettori il testo integrale di una sua preziosa riflessione tenuta presso il Monastero di Bose lo scorso 27 ottobre 2013.

Ne pubblichiamo questa settimana la prima parte.

 

 di Angelo Casati

  

Il mio sarà un racimolare qualche pensiero,  non avete davanti a voi, lo sapete, un teologo di professione, ma uno che viene dalla cura pastorale e non dalle cattedre universitarie.

E questo è il pericolo che correte, quello di vedervi proporre pensieri che vanno più per trasalimenti che non per concatenazioni logiche, forse più per passioni che non per rigorose elaborazioni. Davanti a voi semplicemente un prete, che di anni ne ha una gragnola sulle spalle, ma che è, come voi, innamorato di Gesù. Devo subito aggiungere del Gesù dei vangeli. Ecco vi dirò qualcosa su Gesù e, se vedo bene, su uno dei suoi modi di stare al mondo che vorrei racchiudere in un verbo: “sconfinava”.

Dicevo, il Gesù dei vangeli. Il Gesù di una certa predicazione che lo rende asettico, confinato in regioni eteree che lui non ha mai frequentato, non mi affascina, non dice niente alla mia vita, non mi interroga. mi lascia indifferente. Quando invece mi fermo a osservarlo da vicino dalle pagine dei vangeli, a ottant’anni e più anni, mi batte il cuore.

Perdonate questa premessa che vi sto facendo, forse eccessivamente lunga, ma io continuo a pensare che lui e il suo vangelo siano la grande occasione della chiesa.

 

Ricordo che alcuni anni fa fui invitato una sera a Lecco per un incontro dove mi fu chiesto di raccontare perché avevo scritto il libro “Incontri con Gesù” edito da Bose. Mi venne spontaneo confessare che fu per un debito di fascino. Affascinamento da Gesù.

Se vado a scavare da dove e da quando il fascino di Gesù, nella memoria mi si accende una età della vita e un giorno.

Ricordo, ero in terza liceo, da anni in Seminario. Quel giorno venne a parlarci un professore di teologia, insegnava teologia fondamentale, Don Corti Gaetano “il bello” lo chiamavamo, per distinguerlo da un nostro professore di greco, anche lui Corti, ma Antonio, che chiamavamo “il brutto”. Ci parlò di Gesù, della sua calda umanità. Rimasi affascinato. Segnato per sempre.

Quell’episodio divenne per me come una parabola. Perché? Perché mi racconta della possibilità di una chiesa dove si parla di tutto fuorché di ciò per cui esiste. Cioè di Gesù. Immaginate quanti discorsi ascetici mi ero sorbito dai miei padri spirituali negli anni di seminario: ogni giorno,  uno al mattino e uno alla sera; quanti insegnamenti dai miei superiori, e mai, quasi mai, dal vangelo. Quell’episodio mi racconta anche della possibilità purtroppo di una chiesa che dica Gesù, ma un Gesù privato della sua calda umanità, come fosse un mezzo uomo, o anche meno, asfittico. Con la conseguenza straziante di ambienti asfittici.

Ebbene gli uomini e le donne del nostro tempo attendono una parola che faccia ardere il loro cuore, che parli dalla pienezza del cuore. Il resto crea disagio. Ricordo il disagio di Rainer Maria Rilke in una sua poesia in cui metteva in guardia da quelli che sono abili a imbalsamare tutto. Io vorrei dire, anche il vangelo:

 non c’è montagna che li meravigli,

le loro terre e i giardini confinano con Dio.

 Vorrei ammonirli, fermarli: state lontani,

a me piace sentire le cose cantare.

Voi le toccate: diventano rigide e mute.

Voi mi uccidete le cose.

 

Ma ora qualcosa di nuovo si coglie nell’aria. Dove la novità?

Un biblista spagnolo la sottolineava di ritorno da Roma al suo paese. Così si esprimeva in una sua lettera a Francesco:

“Caro fratello Francesco, da quando sei stato eletto per essere l’umile “Roccia” sulla quale Gesù vuole continuare a costruire oggi la sua Chiesa, ho seguito con attenzione le tue parole. Ora, sono appena rientrato da Roma, dove ti ho potuto vedere mentre abbracciavi i bambini, benedicevi gli infermi e gli invalidi e salutavi la folla.

Dicono che sei vicino, semplice, umile, simpatico, e non so quante altre cose. Penso che c’è in te qualcosa di più, molto di più. Ho potuto vedere la Piazza San Pietro e la Via della Conciliazione piena di gente entusiasta. Non credo che questa folla si senta attratta soltanto dalla tua semplicità e simpatia. In pochi mesi sei diventato una “buona notizia” per la Chiesa e, anche, molto al di là della Chiesa. Perché?

Quasi senza che ce ne rendiamo conto, stai introducendo nel mondo la Buona Notizia di Gesù. Stai creando nella Chiesa un clima nuovo, più evangelico e più umano. Ci stai portando lo Spirito di Cristo. Persone lontane dalla fede cristiana mi dicono che li aiuti ad avere più fiducia nella vita e nella bontà dell’essere umano.

Alcuni che vivono senza un orientamento verso Dio mi confessano che si è risvegliata dentro di loro una piccola luce che li invita a rivedere il loro atteggiamento di fronte al Mistero ultimo dell’esistenza.

Io so che nella Chiesa abbiamo bisogno di riforme molto profonde per correggere deviazioni favorite durante molti secoli, ma in questi ultimi anni è andata crescendo in me una convinzione. Perché queste riforme si possano realizzare, abbiamo bisogno prima di una conversione a un livello più profondo e radicale. Abbiamo bisogno, semplicemente, di tornare a Gesù, radicare il nostro cristianesimo con più verità e più fedeltà nella sua persona, nel suo messaggio e nel suo disegno del Regno di Dio” (José Antonio Pagola).

 

Perdonate la lunga premessa, ora vorrei sfiorare il tema: Gesù, il Rabbi che sconfinava. Penso che la pretesa di riportare Gesù nei confini non abbia altro effetto se non quello di impallidire o forse meglio cancellare la buona notizia. Che ce ne faremmo di un Gesù ricondotto alle nostre pallide ovvietà? Perché lo sconfinare ha un nome: “grazia”. Grazia dice sconfinare, fuori dal dovuto. Grazia – chissà quante volte ci avete pensato! – è una parola che non sta nei confini.

Dagli inizi fino al termine della sua vita Gesù a sconfinare. Scompigliando. Comincia già quando ancora non lo si vede, ed è nascosto nel grembo tenero di una donna. Va in un paese ai confini a scompigliare la vita di una ragazza con quel gonfiore del corpo che le incollerà addosso gli occhi curiosi e sospettosi dei suoi concittadini e gli occhi  inquieti e sofferenti turbati di Giuseppe. Sconfina.

Nasce ed è fuori i confini: prima fotografia, ora che è fuori dal grembo è adorato da pastori razza sospetta. Muore fuori i confini, ultima fotografia, fuori la città, morto di croce, tra due malfattori. Fuori la città, in posto laico, perché nessuno vantasse proprietà su di lui.

In mezzo, tra nascita e croce una vita, perdonate, a sconfinare.

Poco si sa di lui di quando era ragazzo, un fotogramma, uno solo nei vangeli, e per dire che era fuori. Lo trovano fuori, fuori dalla carovana, fuori perché lo vuole lui, non perché si è smarrito come si usa ancora dire quando si recita il rosario. Sconfina dalla famiglia. E’ vero, ritorna a casa, ma dite che c’era con la testa? Con la testa era nelle cose del Padre suo. Allora sconfini non da vagabondo, ma da nomade perché hai un centro verso cui aneli. Non ti lasci catturare.

Pensate, più tardi da grande quelli di casa, sua madre, i suoi, preoccupati che lui e i suoi discepoli neanche trovassero il tempo per mangiare,  “uscirono” è scritto “per andare a prenderlo”, verbo duro, quasi da cattura. A prenderlo, perché dicevano: “È fuori di sé”, fuori di testa. Sconfinava. Secondo loro ci voleva una misura, era fuori misura. Fuori di testa. Chissà, mi chiedo,  se qualche volta lo siamo anche noi o se abbiamo anestetizzato il vangelo, fuori da ogni follia. Una chiesa nei confini.

“E stando fuori” è scritto mandano a chiamarlo. “Gli dissero: Ecco tua madre, i tuoi fratelli, le tue sorelle sono fuori e ti cercano”. Ma egli rispose loro: “Chi è mia madre, chi sono i miei fratelli e le mie sorelle?” Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli!”. Sconfina in un’altra casa, che non è di cattura.

Il Dio di Gesù Cristo, il Dio che vediamo e tocchiamo in lui, è il Dio dello sconfinamento. Era ciò che faceva sussultare di rabbia, inviperire il gruppo intransigente dei gran capi dei sacerdoti e dei farisei. Era un pericolo pubblico e andava fermato, lo hanno fermato, fermato sulla croce. Pensavano di averlo fermato. Ha sconfinato. Nella risurrezione.

Aveva messo sotto accusa, dicevo, una religione ridotta a ideologia, dove non sentivi più pulsare il cuore di Dio, un Dio che ha cuore di padre e di madre. Lui  per dirlo sconfinava.

Mangiava con pubblicani e peccatori facendo invelenire gli uomini di una legalità spenta e senza cuore, mangiava non con i perfetti, ma con peccatori

Lui a tavola con i peccatori, ancora non convertiti: mangia con loro, che sono impuri. Non solo, ma si lascia ungere e profumare dalla donna, una poco di buono. La difende. E dice una cosa strabiliante, la dice con forza. Dice: “In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo vangelo nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che ella ha fatto” (Mt 26,13). Noi non sappiamo il nome della donna, ma noi oggi parliamo di lei, dopo duemila anni. Parliamo di una cosiddetta impura, “peccatrice di quella città” (Lc 7,37). Di lei Gesù dirà: “Ha amato molto” (Lc 7,47). Ma pensate alle obiezioni dei nostri moralisti, se non sapessero che a dire queste parole è stato Gesù. “Ma come?” direbbero “ha molto amato? Ha amato male”. Gesù sconfina da questa purezza legale, intesa come separatezza, quella degli inquisitori. E la rimprovera a Simone nella sua casa, lui così osservante. E così freddo, così gelido! “Vedi questa donna ? Sono entrato nella tua casa e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi, lei invece mi ha bagnato i piedi con le sue lacrime e li ha asciugati con i suoi  capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di profumo, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi” (Lc 7,44-46).

Pensate alla rivoluzione operata da Gesù. Pensate, la purezza, non come distacco, non come separatezza, ma come passione!

 

Ma perché tutto questo? Perchè mangiare con peccatori che non hanno ancora fatto un atto che è uno di pentimento? Perché lasciarsi ungere da donne di dubbia, anzi meno che dubbia fama, senza esigere che facciano almeno preventivamente una dichiarazione pubblica di conversione? Perché così, solo così, poteva raccontare la dismisura, l’eccesso, lo sconfinamento dell’amore di Dio che non sta nelle nostre condizioni: ti amo se tu mi ami, tanto quanto tu mi ami. Il cui Spirito è come vento, sconfina, non sai di dove viene e dove va, e non è certo nei tuoi recinti.

Enzo parlando di Francesco, il papa del cambiamento, ricordava queste sue parole: “Uscire da se stessi è uscire dal recinto dell’orto dei convincimenti considerati inamovibili, quando questi rischiano di diventare un ostacolo, quando chiudono l’orizzonte che è di Dio”.

Sconfina lo Spirito, dice, Gesù, ma sconfinano anche i credenti in lui. Anzi questo paradossalmente sembra essere il loro segno: “Così è” dice “di chi è nato dallo Spirito”. Sembra il loro segno. Non l’inquadramento – forse che lo inquadri o lo catturi il vento? – ma lo sconfinamento. Gesù dice a Nicodemo che i nati dallo Spirito sono come il vento, che non sai di dove viene e dove va. Mi è capitato di pensare che se siamo troppo prevedibili, se tutti intorno a noi indovinano da dove veniamo e dove andiamo con i nostri pensieri, con le nostre scelte, con i nostri progetti, se tutti sanno, c’è da mettere più di un dubbio sulla nostra testimonianza cristiana. Il vento non sai di dove viene e dove va, così è di chi è condotto dallo Spirito.

Mi rimane a volte nel cuore un’immagine, quella delle imbarcazioni in rada. Niente regata, non soffia il vento, vele afflosciate. Se siamo fermi, sempre allo stesso punto, sempre attorcigliati alla stessa riva, non sarà perché non fiutiamo il vento, da dove spira e dove va, e non gli facciamo spazio nelle vele, perché si gonfino e possiamo uscire finalmente al largo?

Vorrei ricordare un passo di una lettera pastorale del Card. Carlo Maria Martini,  “I tre racconti dello Spirito”, lettera per gli anni 1997-1998,  dove l’arcivescovo parla di questo sconfinare dello Spirito. Una convinzione  profonda, la sua,  maturata, dice, in lui presto, ma verificata attraverso l’intero percorso della sua vita, questa: “la convinzione che lo Spirito c’è” scrive “anche oggi, come al tempo di Gesù e degli apostoli; c’è e sta operando, arriva prima di noi, lavora più di noi e meglio di noi; a noi non tocca né seminarlo né svegliarlo, ma anzitutto accoglierlo, assecondarlo, fargli strada, andargli dietro. C’è e non si è mai perso d’animo rispetto al nostro tempo, al contrario sorride, danza, penetra, investe, accoglie, arriva anche là dove mai avremmo immaginato”. Così lo Spirito: sconfina. Così di conseguenza coloro che sono condotti dallo Spirito: sconfinano.

 

per leggere la seconda parte dell’articolo: clicca qui

 

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