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“Il futuro è sociale”. Intervista a Stefano Tassinari

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Oltre che sanitaria ed economica, la crisi in atto è, anzitutto, sociale. L’effetto di tale situazione potrà essere decifrato soltanto fra qualche tempo ma sin d’ora è necessario cercare di comprendere la portata dell’emergenza al fine di avviare una progettazione volta alla ricostruzione. In quest’opera, il mondo del terzo settore è sicuramente uno dei protagonisti più importanti.

Discutiamo di questi temi con Stefano Tassinari. Vicepresidente nazionale delle ACLI con delega al terzo settore, Tassinari è membro del coordinamento nazionale del Forum Terzo Settore.


– Oltre all’emergenza sanitaria, la pandemia da Coronavirus ha innescato una serie di processi che condurranno, molto probabilmente, ad una crisi sociale. Possiamo delineare le caratteristiche principali e, quindi, l’entità di tale situazione?

Per brevità potremmo evidenziare tre dimensioni critiche di questo impatto sociale che si dipanano ad effetto domino sulla scia dell’emergenza sanitaria.

Una riguarda l’infrastruttura più complessiva del welfare dove quelli che prima erano bisogni ora diventano emergenze e quelle che prima erano emergenze ora diventano situazioni drammatiche. Il virus e l’assetto da coprifuoco dovuto alla necessità di fermare il contagio colpiscono due volte: da un lato esaltano i bisogni e dall’altro appesantiscono e rendono più problematico fornire servizi e assistenza.

Una seconda riguarda il lavoro. E anche qui come nel caso precedente – nonché come in quello della bistrattata sanità pubblica – potremmo dire che l’impatto dirompente entra come una lama nel burro perché la crisi del 2007 è stata in parte affrontata con uno spontaneo processo che si può definire del “lavorare meno e peggio per lavorare in tanti come prima”. Questa fragilità, che ha permesso di fare economia giocando sull’abbassare i costi, ora rivela il suo lato più debole.

L’ultima dimensione di crisi è quella della socialità che non è un aspetto ma il sistema circolatorio attraverso il quale si veicola tutto, economia e democrazia incluse. Senza relazioni non vive nulla e come nel corpo umano il corpo sociale può andare in necrosi.

– Nelle prossime settimane quasi certamente occorrerà pensare e attuare un piano straordinario per il sociale. Quali priorità?

Intanto rendersi conto una buona volta, e lo abbiamo affermato già anni fa come ACLI, che il futuro è sociale ovvero che possiamo recuperare il senso della storia solo rifacendo del sociale, inteso in senso ampio, la nostra capacità di vivere appieno le relazioni incluse quelle con la natura e l’ambiente. Questo è il principio e il fine di qualsiasi prospettiva di sviluppo che abbia reale valore.

Invece, adesso si continua a ragionare come se questa dimensione fosse da tenere in considerazione solo dopo aver raggiunto la crescita. Mi sembra che quanto stia accadendo possa già essere una lezione sufficiente: aver considerato welfare e salute secondarie al punto da non prevedere alcun piano di emergenza e allerta almeno simile al pericolo terrorismo di questi ultimi anni. Tutto questo perché prima venivano i conti e le ragioni dell’economia. Ciò non ha fatto molto bene alla nostra economia e a quella mondiale.

Insomma, la situazione attuale pare una versione moderna della favola di Re Mida che voleva trasformare tutto in oro salvo poi scoprirsi nudo come Adamo, totalmente privo delle cose essenziali. Siamo dinanzi al rivelarsi di una tragica realtà.

– Nei giorni scorsi, l’economista Stefano Zamagni ha più volte affermato che il mondo del terzo settore è stato dimenticato dai decreti approvati dal governo. È così? Perché?

È vero anche se non ci diamo per vinti. Ma non mi limiterei ad un’esclusiva difesa del terzo settore. Il rischio, specie in una società come la nostra e nella struttura socio-economica italiana, è che si dimentichi la capillarità delle relazioni economiche e solidaristiche che sono il tessuto connettivo e il terreno di qualsiasi iniziativa. Pensiamo ai piccoli negozi di quartiere, alla situazione marginale delle colf – le quali non riguardano il terzo settore – e che a mio parere restano un caso emblematico della superficialità contemporanea: senza il loro servizio salta la gran parte dell’assistenza agli anziani.

In merito al terzo Settore, certe dimenticanze sono anche figlie di una visione bucolica, romantica e troppo venata di buonismo. Tale interpretazione non ha mai saputo guardare da vicino la realtà spesso fragile proprio perché fatta di tante piccole variabili. Così si lasciano in penombra le dimensioni e le esigenze organizzative.

Molte realtà, anche laddove siano animate prevalentemente di solo volontariato, hanno necessità pari e, per alcuni aspetti, superiori a tante organizzazione economiche classiche perché una logica errata di definizione di che cosa significhi “senza fine di lucro” ha inibito l’attenzione a mettere fieno in cascina per i periodi di difficoltà. Mentre è un dovere morale farlo per qualsiasi organizzazione non solo per le imprese private o per quelle sociali, pena la solidità e la credibilità del proprio progetto.

– Nonostante la mancanza di garanzie e di tutele, il terzo settore in Italia continua la sua attività. Molti affermano che si tratta di un’opera insostituibile per il Paese. Per quali motivi?

Lo è per almeno due motivi. Perché anzitutto le relazioni e la solidarietà hanno bisogno di autorganizzazione sociale pena la perdita della sussidiarietà e con essa anche della stessa solidarietà che ricordo è un dovere costituzionale. In secondo luogo, perché nei decenni scorsi si sono scaricate sul terzo settore lacune e responsabilità più ampie e collettive ed ora senza di questo in molte parti del Paese diversi servizi e attività essenziali – anche sul piano culturale, educativo e del tempo libero – rischiano di scomparire.

Il terzo settore andrà avanti così come dimostrano tanti volontari – che spesso sono privi dei necessari dispositivi di protezione al pari di tanti operatori sanitari – i quali tengono in piedi attività essenziali di supporto e soccorso al contrasto della pandemia.

Ma senza un corpo di interventi a largo raggio, il rischio è che tanti chiudano e che si possa assistere ad una metamorfosi per via della quale potrebbe affermarsi un certo tipo di terzo settore fatto più di grandi soggetti internazionali e meno figlio del territorio, della sua biodiversità e quindi di una partecipazione democratica diffusa. Il rischio è anche legato all’aumento dei fenomeni di infiltrazione tramite l’economia grigia o criminale.

Il mondo del Terzo settore è ricco di umanità e grandi valori, ma in alcuni casi fragile e, dall’altra parte, i mondi del sommerso, nonché quello della criminalità, sanno ben mimetizzarsi nelle vesti del benefattore e delle facce pulite.

– Diverse associazioni, cooperative e istituzioni locali affrontano l’emergenza in atto in ordine sparso e dunque privi di una regia finalizzata ad un comune obiettivo. La pandemia è l’occasione per ripensare la sinergia fra il mondo del terzo settore e le istituzioni?

Questo è il punto essenziale. Bisogna fare rete e valorizzare le realtà create in questi anni, come il Forum del Terzo settore, la Fondazione Con il sud, l’Alleanza contro la povertà, il Progetto Policoro perché non ci sia una metamorfosi in negativo, ma si esalti il primato del sociale nel modo giusto.

È essenziale saper fare reti che valorizzino e rispettino la biodiversità di questo mondo e della società tutta, ma al contempo sappiano creare una regia anche politica di rappresentanza non solo delle proprie organizzazioni, ma delle persone e delle situazioni sociali più deboli che sono il paradigma delle priorità e dalle quali possiamo ripartire insieme facendo di questa drammatica situazione l’alba di una società inedita.

Ma questa rete deve rimettere al centro la capacità di collaborare con le istituzioni per una programmazione – e relativi investimenti trainati possibilmente da un’azione europea – di politiche pubbliche diversa dal passato. E non solo nel nostro campo. Si pensi alla grande necessità di infrastrutture materiali e non, che già da tempo ha creato una secessione sempre più ampia non solo tra Nord e Sud, ma all’interno di metropoli, tra aree interne e grandi centri.

Anche qui la drammatica lezione di questi mesi ci insegna che serve una forte azione pubblica di programmazione strategica che sia radicalmente diversa dal passato. La storia della deriva dell’uso dei soldi pubblici – spesso sfociata in clientelismi, corruzione e mafie – impone una capacità di creare una politica che sia sociale ovvero ad alto di livello di coinvolgimento dei cittadini attraverso i corpi intermedi. Non solo perché la corruzione e le solite speculazioni si sconfiggono con processi partecipati e trasparenti, ma perché solo costruendo insieme si valorizzano dimensioni umane, ambientali e culturali proprie di qualsiasi politica o attività economia che non voglia essere solo freddo calcolo e quindi di scarso respiro.

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