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Il declino dell’Università e quello dell’Italia

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di Giuseppe Savagnone

 

 

Mentre gli italiani si accaniscono fino al sangue sul problema delle unioni gay, sulla scia di un’offensiva ideologica che fa di questo problema  la cartina di tornasole del nostro grado di civiltà,  il nostro paese declina inesorabilmente. E non solo a livello economico. Perché questo, a sua volta, è solo la punta dell’iceberg che rivela altre, più profonde carenze, di cui però si parla pochissimo o niente affatto.

 

Un caso emblematico è ciò che sta accadendo alla nostra Università. Uno studioso specialista dei problemi del Meridione, Gianfranco Vietti, ha recentemente presentato i risultati di una ricerca condotta dalla Fondazione RES sull’andamento dell’istituzione universitaria in Italia, con particolare riferimento al rapporto tra Nord e Sud. I dati che emergono sono agghiaccianti.

 

Negli ultimi sette-otto anni, mentre in Francia gli investimenti in questo settore sono stati potenziati del 3,5% e in Germania addirittura del 23,0%, in base alla fondata convinzione che il progresso complessivo, anche economico, di una nazione dipenda dal suo sviluppo culturale, in Italia questi investimenti complessivi sono scesi del 21%! In questo arco di tempo anche il numero degli immatricolati è diminuito del 20% e quello dei docenti del 17%. E ciò in un contesto in cui il nostro paese è al ventesimo posto, su 28, nel numero dei laureati, collocandosi allo stesso livello della Bulgaria!

 

Quanto alla distribuzione di queste già magre risorse, è significativo che dall’indagine risulti che, se si guarda anche soltanto ai finanziamenti dati direttamente dallo Stato alle singole Università,  dal 2008 al 2015 la diminuzione di queste somme è stata del 4,3% per quelle del Nord, dell’11,6% per quelle del Centro, dell’11,6% per quelle del Sud, del 20,8% per quelle delle Isole!

 

Conseguentemente, dal 2005 al 2015 il maggiore aumento delle tasse universitarie si è registrato nelle Università meridionali, costrette a chiedere maggiori sacrifici ai loro iscritti per compensare la diminuzione di aiuti statali. Tanto più che nel loro territorio, a differenza che al Nord,  è assai raro trovare altre forme di sostegno economico esterno da parte di privati. Cosicché gli studenti meridionali, e quelli siciliani e sardi in particolare, devono sostenere costi molto maggiori dei loro colleghi settentrionali, per avere un servizio decisamente inferiore!

 

Il lettore perdonerà l’abuso di punti esclamativi, ma non posso fare a meno di sottolineare in qualche modo l’indignazione per le troppe menzogne che da tanti anni circolano sui pretesi sforzi volti al riscatto del Mezzogiorno. Sono fin troppo consapevole delle gravi responsabilità che la classe dirigente meridionale ha avuto e ha  nel sottosviluppo del suo territorio. So anche che da queste responsabilità non sono esenti i docenti universitari, troppo spesso invischiati in logiche nepotiste e clientelari. Ma qui siamo davanti a una politica culturale che, invece di cercare di porre dei seri rimedi,  sta perseguendo lucidamente l’obiettivo di ridurre gli atenei meridionali a carrozzoni sgangherati dove non ci sono più fondi né posti per la ricerca e da cui fuggono inevitabilmente tutti coloro – professori e studenti – che vogliono avere delle prospettive.

 

Non è un caso che in questi ultimi anni sia cresciuta in modo esponenziale la percentuale di iscrizioni in Università del Centro-Nord da parte di studenti nati e vissuti, fino a quel momento, al Sud, con un progressivo impoverimento di risorse umane per le regioni meridionali. E sono i migliori, naturalmente, a non potersi accontentare del livello culturale offerto dalle Università del Sud, per cui l’impoverimento in questione non è solo quantitativo, ma soprattutto qualitativo.

 

Ché se poi si portasse come giustificazione  di questa linea l’idea che è bene concentrare le risorse per la ricerca là dove esse possono dare il massimo frutto, lasciando agli altri atenei un compito soprattutto didattico, si dimenticherebbe che senza ricerca anche la didattica si appiattisce e si svaluta. Senza dire che, in mancanza di posti di ricercatore e di docente,  gli studenti si vedono chiuse tutte le possibilità di carriera universitaria.

 

In un documento del 1989 i vescovi italiani affermarono: «Il paese non crescerà, se non insieme» (Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno). Lo hanno ripetuto nel 2010 (Per un paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno). Quello che sta accadendo nel nostro sistema universitario è la prova di questa affermazione. L’Italia non cresce insieme e quindi non cresce. Non per un tragico destino, ma per scelte sbagliate, che le grandi battaglie ideologiche di queste settimane non riescono a nascondere. Il vero problema del nostro paese non sono le unioni civili, è la solidarietà nazionale, in un orizzonte che dia spazio alle cose essenziali per la crescita di un popolo. E tra queste c’è l’Università. I diritti delle persone gay sono sacrosanti, ma vanno situati in un contesto in cui ne sono gravemente violati altri di eguale importanza – come sono quelli allo studio, al lavoro, a una realizzazione di sé dignitosa – e che coinvolgono metà della popolazione italiana. Parlare solo dei primi può servire ad animare le serate di Sanremo, ma lascia fuori campo, agli occhi dell’opinione pubblica, i problemi di fondo di una società che non cresce. E questo non ci renderà sicuramente più civili.

 

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