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Il declino dell’Italia

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di Giuseppe Savagnone

 

Non vorrei essere scambiato per una Cassandra. Se non altro, perché non voglio predire  il futuro, ma denunciare il presente. Per rendermi più facile il compito,  comincio dalla sfera pubblica per eccellenza, quella politica. Non mi riferisco alla riforma elettorale e ai suoi meccanismi formali. In termini di ingegneria costituzionale può darsi abbia ragione chi guarda con soddisfazione all’avvento di un sistema bipolare, già presente in tanti altri Paesi democratici. Ma le strutture giuridiche sono dei contenitori. È quello che c’è dentro a lasciarmi perplesso.

È, per quanto riguarda la destra, la qualità umana e politica delle forze che oggi la rappresentano, in primo luogo Forza Italia. Era, come il Milan, proprietà privata di Berlusconi e, come il Milan, ha seguito fedelmente le tappe del suo declino personale, in attesa di trovare un nuovo padrone. Quanto ai valori, solo la prorompente personalità del suo leader ha permesso di gabellare per anni come “Casa delle libertà” un soggetto politico ostinatamente ancorato a logiche monopoliste (si pensi alla legge Mammì  sulle comunicazioni radiotelevisive) e verticiste (si ricordi il “porcellum”, che ha tolto agli elettori il diritto di scegliere liberamente i loro candidati preferiti).

Non sembra stare molto meglio la sinistra, orfana del marxismo e ormai totalmente consegnata all’ideologia opposta alla sua originaria, quella liberale.  Sono decenni, ormai che, non potendo più parlare di rivoluzione e di giustizia sociale, i partiti ex comunisti si sono dati anima e corpo a propugnare il primato dei diritti individuali, identificati con le preferenze soggettive e dichiarati assolutamente insindacabili, mettendo del tutto in secondo piano il problema della responsabilità verso la comunità. Col risultato di concorrere vigorosamente a quella desertificazione morale, da essi rimproverata (peraltro con ragione) a Berlusconi, ma di cui essi stessi, in realtà,  erano fautori a livello culturale. Per il resto, nessuna idea. Renzi non è che  il legittimo erede di questo vuoto, che cerca di riempire con la sua aggressiva prosopopea.

Ma non è solo la classe politica ad affondare. In questi anni l’economia italiana ha sofferto più di quella di tutti gli altri Paesi del mondo industrializzato. Non sono state soltanto delle squadre di calcio ad essere  passate a proprietari stranieri: sono anche alcune del più grandi e prestigiose aziende che avevano portato il marchio “Italia” in tutto il mondo. E da noi la percentuale dei “neet” – i ragazzi che non studiano, non lavorano e non cercano lavoro – è la più alta in Europa: quasi uno su quattro. Ed  anche quelli che studiano non stanno meglio. Mentre parliamo molto del problema drammatico dell’immigrazione, dovremmo preoccuparci di più, forse, di quello dell’emigrazione, con la differenza che a venire da noi sono i disperati, ad andarsene non sono (com’era all’inizio del Novecento) i poveracci con la valigia di cartone, ma i “cervelli” sulla cui formazione abbiamo investito tante risorse e a cui, poi, non riusciamo a dare una seria prospettiva di lavoro.

Ma, più grave della crisi della classe politica, più allarmante del declino dell’economia, c’è uno smarrimento che colpisce l’etica, non solo e non tanto  come obbedienza a sistema di regole assolute, ma più semplicemente come capacità di perseguire dei fini significativi che non si riducano all’appagamento di pulsioni immediate. Una vita morale degna di questo nome ha bisogno di nutrirsi di grandi desideri, di passione per la prospettiva di un futuro diverso, di senso di responsabilità verso la comunità. Oggi, con rare eccezioni, tutto ciò sembra venuto meno.

Nel 44° Rapporto Censis, del 2010, troviamo, da questo punto di vista, una diagnosi spietata della situazione del nostro Paese: «Sembra avvenire ogni giorno di più che il desiderio diventi esangue, senza forza, indebolito da una realtà socioeconomica che da un lato ha appagato la maggior parte delle psicologie individuali attraverso una lunga cavalcata di soddisfazione dei desideri  (…) e che dall’altro è basata sul primato dell’offerta che garantisce il godimento di oggetti e di relazioni mai desiderati, o almeno non abbastanza desiderati» (n.13). Invece di lasciare campo alle passioni, la crisi dei valori tradizionali  sembra portare al loro svuotamento: «Una legge sempre meno forte si combina con un desiderio sempre meno vigoroso» (ivi, n.14).

Il vero problema siamo noi, gli italiani. Il declino dell’Italia non dipende da un destino scritto negli astri, ma dalla crisi della nostra consapevolezza, dalla nostra abdicazione all’esercizio della libertà. Una responsabilità particolare credo ricada su chi, come me, si ritiene credente. Dove sono finiti i cattolici italiani? Non hanno nulla da proporre di nuovo e di alternativo, di fronte allo sfacelo delle altre identità politico-culturali? Eppure la loro visione della società, fondata sul primato del bene comune, sulla solidarietà e la sussidiarietà,  non è stata sconfessata, come il marxismo, dalla storia, e potrebbe costituire oggi un polo di aggregazione per tanti che avvertono il malessere di una società malata di  individualismo e utilitarismo selvaggi.

Non si tratta di mettere avanti un’etichetta per ricostituire il “partito cattolico”, ma di riscoprire un patrimonio culturale che oggi è più attuale che mai e intorno a cui possono aggregarsi, insieme a tanti credenti, tanti seri non credenti. Ma per fare questo bisogna riattivare dinamiche culturali che sono oggi latitanti nelle nostre parrocchie e condividerle con chi ne sta fuori. Non basta applaudire papa Francesco, bisogna tradurre in progetti politici e sociali concreti il suo altissimo magistero. Bisogna rimettersi a pensare, a confrontarsi, a costruire alternative.

Non sono una Cassandra. Critico il presente perché lo confronto con un possibile futuro che credo fermamente sia possibile. Dipende da noi. I veri pessimisti – non dimentichiamolo – sono quelli secondo cui meglio di così le cose non potrebbero andare.

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