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Sturzo come la luce delle stelle morte

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Domani, giovedì 23 febbraio, alle 18.30, presso il Camplus College di Palermo, si terrà un incontro di studio sull’attualità del progetto socio-politico di don Luigi Sturzo. Anticipiamo qui la conclusione della riflessione che sarà proposta dal relatore, don Massimo Naro, direttore del “Centro Studi Cammarata” per la ricerca sul movimento cattolico in Sicilia.

Per chi conosce gli scritti di Luigi Sturzo non è difficile ammettere la loro attualità. Basterebbe a tal proposito citare la dichiarazione che Sturzo firmò, assieme ad altri cinque intellettuali cattolici europei, nel 1928: «Oggi che la guerra è diventata un sistema di distruzione anonima e di massacro generalizzato, senza nessuna finalità di giustizia distributiva, con mezzi atroci che si oppongono del tutto ai fini che si pretendono di perseguire, non c’è più distinzione morale tra aggressione e difesa; del resto, quando quest’ultima entra in azione, si identifica in modo criminale con l’attacco. In altre parole, una guerra giusta è oggi impossibile. E anche se fosse possibile, non la si potrebbe ammettere, a causa del suo carattere apocalittico».

In quello stesso anno Sturzo ultimava la stesura di uno dei suoi saggi più noti: “La comunità internazionale e il diritto di guerra”, in cui – ormai esule, lontano dall’Italia fascista – confutava le varie teorie che avallavano la legittimità delle guerre: esse non risolvono i problemi insiti nella convivenza umana, non sono mai necessarie e inevitabili, in nessun caso possono essere giuste. L’eco di questa lucida lezione non fu recepita nel successivo dibattito culturale, in nessun ambito disciplinare (da quello politologico a quello teologico).

In verità, se questa e altre lezioni sturziane rimangono attuali è per il fatto che da decenni restano purtroppo inattuate e – semmai – scivolano sempre più profondamente nell’oblio. Che dire, per esempio, degli avvertimenti che Sturzo, nei primi decenni del secolo scorso, non si stancava di lanciare ai cattolici italiani al fine di stimolarli a trovare il modo più efficace e opportuno per diventare (ma pure – potremmo ora aggiungere – per tornare a essere) rilevanti in seno alla società?

Per lui la rilevanza dei cattolici nella società – nella politica locale e perciò nell’amministrazione delle città e delle regioni, nella politica nazionale e pertanto dentro il Parlamento, nell’economia non meno che nella finanza e quindi nelle imprese cooperative e nel sistema creditizio, nella formazione e nell’animazione culturale e dunque nella scuola e nell’associazionismo – non era certo guarnita di mostrine identitarie. E non consisteva – direbbe papa Francesco – nell’occupare spazi di potere ma nell’avviare processi capaci di generare una democrazia solidale, com’egli la chiamava.

Rilevanza aconfessionale dei cattolici – espressione che ad alcuni potrà sembrare un ossimoro – significava per Sturzo disponibilità a illuminare senza abbagliare, come la lampada posta sul tavolo e non sotto il letto. Significava riuscire a dare sapore e spessore alla società spendendosi senza riserve o parzialità in suo favore, come il lievito e il sale che si sciolgono nella pasta destinata a diventare buon pane. Sono immagini che ricavo da quel «Vangelo nascosto in petto», cioè seminato nella propria coscienza, di cui Sturzo parlò nel dicembre 1918, alla vigilia della fondazione del Partito Popolare.

In questa prospettiva, nel caso della Sicilia, terra di cui Sturzo era originario, tornerebbe utile rileggere l’«appello ai siciliani» che egli pubblicò sul “Giornale d’Italia” in vista della tornata elettorale del 1959 per il rinnovo dell’Assemblea regionale: molte delle cose su cui il prete nativo di Caltagirone invitava allora i suoi lettori a riflettere seriamente nel momento di dare il voto potrebbero essere ai nostri giorni il rimedio a tanti disagi che affliggono l’economia dell’Isola, a cominciare dalla (in)capacità di sviluppare una produzione agricola adeguatamente modernizzata, consona alle sue congenialità e potenzialità.

E quanto attuale suona anche il rimprovero alla moltiplicazione degli impiegati regionali, sovrannumero già all’epoca: Sturzo proponeva di ridurli drasticamente, puntando sulle competenze professionali più che sulle assunzioni superflue dovute al clientelismo partitico.

Ha detto bene Roberto Benigni, intervenendo alla prima serata del festival di Sanremo il 7 febbraio scorso e commentando la costituzione italiana sul palco infiorato dell’Ariston: «L’unica possibilità per il futuro è avere il passato sempre presente». Tuttavia sarebbe inutile indugiare a rimpiangere Sturzo e la sua lezione socio-politica.

Ciò che di Sturzo ci interessa ancor oggi e che vale la pena ricordare si può rappresentare con la metafora della luce delle stelle morte. Questo paradossale fenomeno astrofisico consiste nel fatto che la luce delle stelle – che vediamo di notte accendersi nel cielo e che da sempre aiuta chi sa leggere la mappa celeste ad orientarsi nel proprio cammino – ci raggiunge da un luogo così lontano da equivalere pure a un passato temporale distante da noi miliardi di anni: le stelle che la emanano (meglio: che la emanarono) non esistono più, sono implose, sono morte appunto. Ma la loro luce ci raggiunge qui e ora. E ci illumina.

Massimo Recalcati ha usato questa metafora per spiegare che, dopo che è morto qualcuno per noi importante, spesso viviamo nel suo nostalgico ricordo. Ci sono, però, due tipi di nostalgia: la nostalgia-rimpianto e la nostalgia-gratitudine.

La nostalgia-rimpianto si dispiace per il fatto che la “stella” di riferimento non c’è più e guarda al passato idealizzandolo, tentando di conservarne delle reliquie, venerandolo al limite come qualcosa di ammirabile ma non imitabile (così si leggeva negli atti dei processi canonici per la beatificazione dei santi dal Settecento al primo Novecento).

La nostalgia-gratitudine, invece, conserva una memoria della persona scomparsa che sa valorizzare il «resto della stella morta», appunto la sua luce che ancora ci raggiunge e che diventa «presenza viva di un’assenza». La nostalgia-gratitudine non si illude in un ritorno della persona scomparsa: sa bene che è morta. Per questo, a differenza di chi rimpiange il passato rimanendo disarmato davanti al futuro, la nostalgia-gratitudine coltiva una memoria rivolta al futuro, perciò una memoria creativa.

Non si tratta di una memoria-archivio, semplicemente storica. E nemmeno di una memoria-spettrale – come la chiama Recalcati –, cioè di una memoria che avvista ovunque il fantasma di chi non c’è più, che vede l’ombra di un passato che continuamente rigurgita nel presente anche se resta irreale, velleitario, utopico. La «memoria del futuro» non si riduce a essere il culto passivo del passato, ma incoraggia un inedito avvenire.

È una memoria che non si limita a conservare il ricordo del passato, né lo vede riproporsi spettralmente tale e quale esso fu un tempo. Piuttosto si tratta di una memoria che ha nostalgia non di ciò che è stato e abbiamo vissuto, bensì di ciò che non abbiamo ancora visto e sperimentato, ma che spetta a noi realizzare, viaggiando – avrebbero detto certi pensatori medievali – come nani appollaiati sulle spalle dei giganti vissuti prima di noi: incapaci di eguagliare la loro immensa statura, ma in condizione comunque di vedere almeno un palmo più lontano di loro, dato che alla nostra bassa statura assommiamo la loro altezza.

Da qui il motivo della gratitudine per chi ci ha preceduti: nel nostro caso, per Sturzo. E il ricordo che conserviamo della sua lezione non è più semplicemente e soltanto uno sterile culto del passato, bensì promessa e premessa di una storia nuova.

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