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Il corpo manipolato

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di Giuseppe Savagnone 

 

 

Avete notato che è sempre maggiore il numero delle persone, uomini e donne, che portano sulla loro pelle dei tatuaggi? Un esempio sotto gli occhi di tutti sono i calciatori, molti dei quali esibiscono, sulle braccia e le gambe, fantasie floreali o altre immagini che le coprono quasi interamente. Ma il fenomeno va molto ad di là dei confini di una singola professione. Ormai è frequente incontrare avvenenti fanciulle o aitanti giovanotti che hanno tatuato sul collo o su una spalla l’immagini di un animale, o di un oggetto (per esempio un’ancora), o una scritta, magari in inglese.

 

Un tempo i tatuaggi era riservati a categorie particolari, la cui caratteristica era di avere molto tempo libero a disposizione: marinai, carcerati, etc. A un ragazzo o a una ragazza della media o medio-alta borghesia l’idea di tatuarsi sarebbe apparsa del tutto peregrina. Oggi invece, stando a una statistica relativamente recente (2013), risulta che in Italia almeno un milione e mezzo di persone hanno almeno un tatuaggio.

 

Farsene fare uno, del resto, è abbastanza facile. Meno facile – quando non si tratta di tatuaggi in partenza definiti “temporanei” – è rimuoverli (anche se comunque è possibile). Ma qui la domanda riguarda il perché di questa moda e della sua diffusione esponenziale, nel nostro Paese come altrove.

 

Se si guarda ai motivi particolari, delle risposte si trovano abbastanza facilmente guardando alle immagini dei singoli tatuaggi. L’aquila o la rondine di solito esprimono la passione per la libertà del soggetto che se le fa tatuare. Un nome, maschile o femminile, è una promessa imperitura di fedeltà (che poi, in realtà, ci si farà rimuovere se il rapporto finisce). In certi casi c’è solo un aspetto decorativo, volto ad abbellire la porzione di pelle che il tatuaggio copre.

 

Ma la spiegazione più profonda della corsa al tatuaggio viene da un allargamento di orizzonte, che consente di guardare fenomeni analoghi di modificazione del corpo, come ad esempio il piercing.

Con questo termine si indica la pratica, sempre più diffusa, di forare alcune parti superficiali del corpo allo scopo di introdurre oggetti in metallo (spesso piccoli anelli), ma anche in osso, in pietra o altro materiale. Le zone del corpo sono le più svariate: i lobi delle e orecchie, le sopracciglia, le narici, il setto nasale, le labbra, la lingua, i capezzoli, l’ombelico, gli organi genitali, sia maschili che femminili.

 

Tatuaggi e piercing – soprattutto se praticati in forme estreme, capaci di conferire all’individuo una nuova fisionomia – hanno in comune l’intento di modificare il corpo “personalizzandolo” e per così dire “ricreandolo” secondo una volontà di trasfigurazione che lo vuole diverso da ciò che esso è “naturalmente”. Da questo punto di vista, essi sono qualcosa di più che una moda. Si collegano ad un altro fenomeno culturale, questo legato direttamente alla pratica medica, che è il sempre più frequente uso della chirurgia estetica non per riparare gravi danni al fisico, ma per rimodellarlo secondo i propri desideri, a volte arbitrari. «Dalla metà degli anni settanta lo statuto della chirurgia plastica si modifica in modo radicale, passando dalla funzione emendativa a quella progettuale» (R. Marchesini).

 

Per non dire che si profila la possibilità concreta di ricorrere all’ingegneria genetica per interventi non curativi, ma “migliorativi”, volti a ottenere la generazione di individui dotati di precise caratteristiche e capaci di determinate prestazioni. Qui non si parla solo di migliorare la salute e le prestazioni dell’organismo umano, ma di “inventarsi” la propria realtà fisica. Così, per una sostenitrice di queste prospettive, Francesca Alfano Miglietti, «bisognerebbe avere la possibilità di modificare il proprio corpo a seconda delle moltitudini di identità che la mente produce». Un autore anglosassone, John Harris, in un librosignificativamente intitolatoWonderwoman e Superman. Manipolazione genetica e futuro dell’uomo, è arrivato ad auspicare la creazione di una «nuova stirpe».

 

Su questa linea, uno dei più famosi e autorevoli bioeticisti viventi, Tristram Engelhardt, delinea uno scenario inquietante, che rimette addirittura in questione l’identità futura della nostra specie: «Quando svilupperemo la capacità di intervenire con l’ingegneria genetica non solo sulle cellule somatiche, ma anche su quelle germinali, saremo in grado di plasmare e creare la nostra natura umana a immagine e somiglianza dei fini scelti dalle persone. Alla fine, ciò potrà significare un mutamento così radicale della nostra natura umana che i nostri discendenti potranno essere considerati da futuri classificatori come una nuova specie. Se non vi è nulla di sacro nella natura umana (e nessun argomento puramente laico potrebbe dimostrare che sia sacra), non vi è alcuna ragione per la quale, per ragioni appropriate e con l’appropriata cautela, essa non debba essere radicalmente cambiata».

 

E, poiché i fini delle persone possono essere molto diversi, a seconda dei contesti ambientali, «ci potrebbero essere tante specie umane quante fossero le ragioni per riplasmare in maniera sostanziale la natura umana, per adattarla a questo o a nuovi ambienti».

 

Seguendo la pista, apparentemente del tutto innocente, delle rondini tatuate sulla spalla di una bella ragazza o dei pirsing alle orecchie o al naso, ci ritroviamo improvvisamente davanti a prospettive che rimettono in discussione non solo l’estetica, ma la struttura stessa del nostro corpo. E non si tratta di una minaccia remota e puramente ipotetica, se due pensatori tra i più importanti del nostro tempo, Jurgen Habermas e Hans Jonas – entrambi lontanissimi da ogni sospetto moralismo o di conservatorismo – hanno ritenuto di gettare un grido d’allarme, in questi ultimi anni, sul rischio concreto che, manipolando senza regola la nostra dimensione fisica, da cui quella spirituale è radicalmente condizionata, lo stesso essere umano venga meno.

 

«Stiamo diventando dèi nella misura in cui facciamo di noi stessi ciò che vogliamo», ha scritto con entusiasmo un sostenitore di queste prospettive. Ma forse c’è da chiedersi se, come Adamo quando volle farsi Dio, non rischiamo di perdere l’accesso all’albero della vita che ci rende uomini.

 


 

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