Il caso del Veneto e il conflitto tra le due anime del PD

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Foto di Antonio Pinna

Un voto che ha sconvolto tutto

Il caso della consigliera regionale dem Anna Maria Bigon, il cui voto ha contribuito alla bocciatura, in Veneto, della legge sul fine vita, merita una riflessione che vada al di là delle polemiche strumentali dei giornali della destra e delle indignate reazioni della segreteria del PD.

Riassumiamo brevemente i fatti. Il Consiglio regionale del Veneto si accingeva a varare, per la prima volta in Italia, una legge sul fine vita. La normativa prevedeva l’assistenza sanitaria gratuita al suicidio medicalmente assistito – mediante l’auto-somministrazione di un farmaco letale –  riprendendo alla lettera le condizioni stabilite nella sentenza della Corte costituzionale del 2019.

Le ricordiamo: il proposito di suicidio dev’essere maturato «autonomamente e liberamente», in un soggetto «pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli», «tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili». Entro questi limiti, secondo la Suprema Corte, l’assistenza a una persona che intende togliersi la vita non è più da considerare un reato.

Di fatto, però, dopo quella sentenza, non c’era stato nessun provvedimento legislativo che la traducesse in concreta pratica sanitaria. Il Veneto, con l’appoggio del suo presidente, il leghista Luca Zaia – in polemica con la linea del proprio partito e del suo segretario Salvini – , si apprestava ad essere la prima regione italiana a fare questo passo.

I fronti della destra e della sinistra rappresentati nel Consiglio regionale si presentavano a questa votazione spaccati, dando luogo a paradossali alleanze: la Lega si è trovata a votare a favore insieme al M5stelle e a buona parte del PD, mentre contrari erano FI e FdI. Ma la conta dei prevedibili “sì” indicava come  molto probabile l’approvazione della legge.

A scompigliare le carte è stata la decisione della consigliera e vice-segretaria provinciale del PD di Verona, Anna Maria Bigon, di astenersi. Con effetti dirompenti: la legge non ha superato il 50% dei “sì”, com’era necessario alla sua approvazione, per un solo voto, il suo.

I suoi compagni di gruppo le avevano chiesto di ripensarci, o almeno di uscire dall’aula al momento della votazione, abbassando così il quorum richiesto e consentendo l’approvazione della legge, ma lei si è rifiutata.

La tempesta

Bufera nel partito. La segretaria nazionale, Elly Schlein si è amaramente rammaricata per l’accaduto: «E’ un’occasione persa, quella del Veneto, che voleva solo dare dei percorsi attuando quanto previsto dalla Corte. Che la destra abbia sconfessato Zaia non stupisce, ma è una ferita che ci sia stato un voto del PD».    

E ha sollevato un problema di correttezza da parte della consigliera: «Se il gruppo del PD vota a favore e ti chiede di uscire dall’aula, è giusto uscire dall’aula, perché l’esito di quella scelta cade su tutti».

«Anche per me, come per la nostra segretaria» – ha scritto l’on. Alessandro Zan, attivista per i diritti LGBTQ+, deputato e membro della segreteria del Pd con la delega ai diritti – rappresenta una ferita la decisione della consigliera regionale veneta Anna Maria Bigon di partecipare al voto sulla legge regionale sul fine vita lo scorso 16 gennaio, invece di uscire dall’aula».

Questa disapprovazione ha avuto una immediata ripercussione a livello regionale con la decisione del segretario provinciale del PD di Verona di destituire la Bigon dalla carica di vice-segretaria.

Una decisione che, come il segretario regionale del Veneto si è affrettato a precisare, è stata presa in autonomia e a livello locale, ma che corrisponde alle prese di posizione della segreteria nazionale.

A contestarla sono intervenute le voci di alcuni  autorevoli rappresentanti del PD, come il cattolico Graziano Delrio, che ha definito il provvedimento «un brutto segnale». «Resta inammissibile», ha detto – «che si voglia processare una persona per le sue idee e non può essere accettato».

Pur non condividendone la decisione, si è schierata con Bigon anche Debora Serracchiani, già vice-segretaria del partito, sottolineando che «l’esercizio della libertà di coscienza non può essere punito» e chiedendo al segretario del PD veronese «di ripensarci».

Da parte sua, l’incriminata ha reagito con fermezza: «Con il mio voto sono stata all’interno di quelli che sono i principi del PD. Non vedo di cosa dovrei pentirmi. Non potevo far altro che esercitare la mia scelta. Se poi mi butteranno fuori, ne prenderò atto».

E, più tardi, dopo aver appreso della destituzione: «Continuerò a lavorare nel Partito Democratico continuerò a lavorare nel Partito Democratico, il luogo dove deve essere garantito il pluralismo delle diverse sensibilità ».

Due anime

In realtà, quello che risulta chiaramente da questa vicenda è che nel PD ci sono due anime, quella “laica”, che reincarna la posizione del partito radicale di Pannella e vede nella continuazione delle sue battaglie la propria vocazione, e quella di un cattolicesimo sociale che guarda con diffidenza l’esasperata insistenza sul tema dei diritti individuali e che vede nel PD innanzi tutto il difensore dei diritti sociali, quelli dei più poveri e dei più deboli.

Per i sostenitori della prima anima la libertà è quella dell’individuo che deve poter disporre del suo corpo  e della sua vita senza doverne rispondere a nessuno, purché non travalichi il confine della sua sfera privata.

Si pensi alla logica che sta dietro la rivendicazione del diritto di aborto – «L’utero è mio e ne faccio quello che voglio» – e che è alla base anche delle rivendicazione della istituzionalizzazione del suicidio assistito o, nella forma più piena a cui aspirano i suoi sostenitori, dell’eutanasia.  

È ciò che suggerisce il detto secondo cui «la libertà di ciascuno finisce dove comincia quella dell’altro».  Che però non è affatto “di sinistra”, ma nasce nel clima dell’individualismo liberale settecentesco e non a caso ha ispirato il partito radicale, appassionato alle libertà dei singoli, ma tutt’altro che sensibile ai problemi della giustizia sociale.

Questa metamorfosi dell’anima socialista del PD ha spiazzato l’altra, quella cattolica, che invece punta, in linea con l’insegnamento sociale della Chiesa, sul primato del bene comune e ha della libertà un’idea molto diversa, fondata, piuttosto che sulle esigenze soggettive dell’individuo, sulla sua responsabilità verso gli altri.

Giustamente la Bigon si è rifiutata di uscire dall’aula perché, riducendo la questione a una semplice tutela della propria coscienza, avrebbe tradito questa prospettiva, che è politica, contribuendo all’approvazione di una legge che, certo, rispetta le condizioni poste dalla Corte  costituzionale, ma lascia da parte le sue raccomandazioni a garantire quelle cure palliative che possono offrire al malato un’alternativa al suicidio. Come del resto è avvenuto nell’applicazione pratica della legge sull’aborto, che in teoria prevederebbe – contestualmente al diritto di ricorrere, in caso estremo, all’aborto – un impegno concreto della comunità per consentire  alle madri per permettere loro di non abortire.  

Il punto è che nella prima prospettiva, “sacro” è il diritto del singolo a disporre di sé (come dimostra, nel caso dell’aborto, la levata di scudi e l’indignazione “morale” contro ogni voce che ne sottolinea la drammaticità e cerca di riportarlo al suo senso originario di “ultimo rimedio”).

Nella seconda i diritti devono sempre rapportarsi ai doveri – verso se stesi, verso le altre persone, verso la comunità – e a questi ultimi il singolo deve subordinare le proprie preferenze e i propri interessi privati.

Di fatto ormai da molto tempo il PD ha visto il prevalere della prima anima sulla seconda. La segreteria Schelen ha solo confermato e rafforzato questa tendenza. Ne è una conferma la totale incomprensione nei confronti della scelta della Bigon di non limitarsi a pensare alla salvezza della propria anima, uscendo dall’aula, come se in gioco non ci fosse piuttosto un modo di vedere la libertà e la società che lei, proprio perché fedele alle motivazioni della sua militanza, non poteva condividere.

Ma un partito che adotta una filosofia liberale, senza neppure accettare di rimetterla in discussione, non è più “di sinistra”, anche se per abitudine continua a dire di esserlo. E infatti le sue battaglie, più che sul terreno della giustizia sociale, si sono incentrate prevalentemente sulla tematica dei diritti.

E probabilmente nell’aumento esponenziale del fenomeno dell’astensionismo, nelle penultime e nelle ultime elezioni, ha avuto un ruolo importante anche lo sgomento di chi ormai si trova a dover scegliere tra i partiti di destra del governo e  una opposizione metà populista e metà post-liberale. Senza parlare di coloro che ormai, quando votano PD, lo fanno vedendo in questa sigla l’acronimo di “per disperazione”.

Dopo tanto silenzio, anche i vertici cattolici dei dem cominciano finalmente a mostrare di avere coscienza della situazione. «Chiariamoci,», ha detto Delrio, «se il mio partito, nato per essere custode dell’incontro tra i valori dell’umanesimo cristiano e di quello socialista, diventa una copia del Partito radicale, che pure molto rispetto, allora non mi sentirei più a casa mia». Sì, forse è venuto il momento per i (veri) socialisti e per i (veri) cattolici del PD di far sentire la loro voce.

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