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Il buon pastore – Gv 10, 11-18

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Introduzione alla lectio divina su Gv 10, 11-18

26 aprile 2015 – IV domenica del tempo di Pasqua (Anno B)

11 Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12 Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13 perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. 14 Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15 così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16 E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17 Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18 Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio”.

                

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Gesù buon pastore

     

Fa bene al cuore e allo spirito sentirsi oggi custoditi dalla Parola di Gesù che si rivela come il Buon Pastore che conosce le sue pecore e se ne prende cura.

Nell’attuale smarrimento in cui ci ritrova spesso, persi dietro le parole ingannevoli di chi promette false salvezze a poco costo, risulta importante il richiamo di Cristo ad alcune fondamentali verità: Egli soltanto è il Pastore Buono.

 Nell’Antico testamento il titolo di Pastore spetta a Dio, guida di Israele. Basti pensare al bellissimo salmo 23 «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce». L’immagine Dio-Pastore è sempre stata, nell’Antico Testamento (Nm 27,15-17; Ger 23,3-4; Ez 34), una metafora buona per narrare la relazione amorosa tra il Signore e Israele ad un popolo nomade e di pastori appunto, che ben poteva apprezzare le dinamiche di appartenenza di un gregge e la cura e dedizione che il pastore vi dedica per allontanare da esso ogni pericolo, perché ciascuna pecora possa vivere sicura.

 A noi abitanti di città tentacolari e assordanti, ben lontane da pascoli bucolici, l’immagine pastorale scelta da Gesù potrebbe risultare forse distante come quella dell’icona del Gesù pastore presente in tante immaginette votive. Eppure, quell’aggettivo ‘Buono’ (kalòs in greco) non ha tanto a che fare con i tratti di bellezza e dolcezza restituite idealisticamente da queste immaginette, quanto con il senso più profondo che va cercato nell’azione del Pastore, il quale, dice Gesù, ‘depone’ la sua vita per le pecore. Il “deporre la vita” è  un tema importante ripetuto nel testo ed è anche la condizione che rende possibile che altre pecore che non sono dello stesso ovile possano essere condotte al Pastore e quindi appartenergli fino a divenire, in una dimensione universale che abbatte singoli e privati recinti, «un solo ovile e un solo pastore».

La custodia del Buon Pastore è poi esplicitamente fondata sul rapporto di ‘conoscenza’ e, dunque, di amore’ (due concetti sovrapposti nella cultura ebraica) che lega pecore e pastore. Un amore che va al di là di qualsiasi tipo di sequela e che è paragonabile solo alla relazione di amore tra il padre e i suoi figli al punto che Gesù stesso sente il bisogno di richiamarsi, per confronto, al medesimo rapporto di ‘conoscenza e amore’  che intercorre tra lui e il Padre («come il padre conosce me e io conosco il Padre» v.15). Come un padre, il Pastore darà la vita per le sue pecore e andrà a cercarle anche se dovessero smarrirsi. Anzi, proprio in questo caso, maggiore sarà la cura del pastore, pronto a lasciare le restanti novantanove per andare in cerca dell’unica perduta e sarà grande la sua gioia se riuscirà a ritrovarla (Mt 18,12-14) perché la volontà del Padre è che nessuno si perda..

 E’ proprio l’amore e la cura a fare la differenza tra il Pastore Buono e il Mercenario che non esita a lasciare le pecore in pasto ai lupi perché non ha a cuore la loro sorte. Il Mercenario non ha infatti alcuna relazione personale con le pecore a differenza del Pastore Buono che le conosce in profondità al punto da chiamarle ‘una per una ’ (Gv 10,3). Tutto il cap. 10, in cui  il brano di oggi è inserito, è proprio centrato su questa autorivelazione di Gesù circa la sua identità e il senso della sua missione, al punto da irritare fortemente i Giudei che, inevitabilmente chiamati in causa dalle parole di Gesù che li svela quali guide non fidate d’Israele, lo additano come ‘indemoniato’ (v.19) e ‘bestemmiatore’ (v.33) fino a portare con sé le pietre per lapidarlo a motivo delle sue affermazioni.

Forse la proposta di ‘essere pecore’ dietro a un Gesù Pastore non è un’immagine vincente rispetto alla voracità furbesca del lupo che ha la meglio sul gregge, ma rimane il fatto che la chiamata del discepolo di Cristo è ad essere espressamente ‘agnello’ e non certo lupo, anzi ancora meglio «agnelli inviati in mezzo ai lupi» (Lc 10,3).

Se dunque ‘in mezzo’ al male e alla morte occorrerà trovarsi, il cristiano ha la certezza che dietro a Gesù potrà attraversare tutto restando indenne fino al ‘pascolo erboso’ della vita senza fine, di cui gli viene già data oggi la possibilità di pregustare la bellezza. Nulla potrà danneggiarlo, nulla potrà rapirlo dalla mano del Buon Pastore cui appartiene intimamente e da cui «né morte né vita, né angeli né principati, né alcun’altra creatura potrà mai separarci» (Rm 9,39).

 

Isabella Tondo

(www.tuttavia.eu)

 

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