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I doni dimenticati dei nostri morti

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di Giuseppe Savagnone

 

Ancora accade – anche se sempre più di rado – di incontrare, nei quartieri popolari di Palermo, bambini che scorrazzano, all’indomani del 2 novembre, esibendo pistole o bambole “portate” dai morti. In realtà, questa antica festa della cristianità è ormai al tramonto, nella coscienza collettiva, come lo è l’intera cornice religiosa entro cui si inseriva, fino a pochi decenni fa, la vita sociale. C’è chi lo rimpiange e chi se ne rallegra. In ogni caso, è così.

 

 

Quello su cui ora mi interessa riflettere non è però il significato trascendente di questa trasformazione, ma il problema umano che essa pone e a cui l’usanza di attribuire ai defunti il ruolo di “portatori di doni”, per i più piccoli, può costituire un primo approccio.

 

 

Perché è un dato di fatto che a noi, dei morti, interessa sempre di meno. In tempi ormai abbastanza remoti, li si ritrovava nel cuore dei centri abitati, nelle chiese o nei piccoli cimiteri circostanti. Basta guardare alle pareti di tante chiese antiche per leggere ancora i loro epitaffi sulle urne marmoree in cui riposano. La morte e la vita restavano strettamente collegati da una prossimità fisica che rendeva possibile, anzi inevitabile, il contatto. (È ancora così in molti paesini di montagna dell’Alto Adige dove, alla fine della messa domenicale, i fedeli indugiano nel cimiterino circostante la chiesa per deporre mazzi di fiori sulle tombe dei loro cari).

 

 

Ma con l’editto di Saint-Cloud, del 1804, Napoleone, per validissimi motivi sanitari, stabilì che i defunti fossero sepolti in cimiteri situati fuori della città. Per meno valide motivazioni ideologiche la nuova legge prevedeva che, tranne casi eccezionali, le tombe fossero tutte uguali. Estremo omaggio a una Rivoluzione che, avendo fallito nel programma di assicurare l’eguaglianza tra i vivi, si poteva almeno attribuire, così, il merito di realizzarla tra i morti. Abbiamo tutti studiato a scuola quella splendida opera poetica che sono I sepolcri, frutto della indignata reazione di Foscolo a queste nuove regole.

 

 

Oggi i monumenti funebri possono essere e sono diversi l’uno dall’altro, ma i cimiteri sono rimasti spazialmente lontani dalla vita quotidiana delle persone, meta di pellegrinaggio, per chi ci va, quell’unico giorno dell’anno in cui ci ricordiamo dei morti. Si va sempre più diffondendo, inoltre – anche qui per comprensibili esigenze (tra cui anche il sovraffollamento degli stessi cimiteri) –l’uso della cremazione, che elimina del tutto anche il riferimento a un luogo fisico presso cui “ritrovare” i propri defunti.

 

 

Ma non è certo l’aspetto materiale quello più significativo. Viviamo in una società dove diventa sempre più remoto il riferimento a chi ci ha preceduto e ha reso possibile la nostra vita e il nostro sviluppo umano: nonni, padre, madre, “maestri”… Molti cognomi italiani testimoniano di un tempo in cui si era identificati come
“figlio di” qualcuno: Di Giovanni, Di Carlo, Di Pietro, etc. lo stesso riferimento sopravvive nel “von” tedesco, nel “van” fiammingo, nel “ben” arabo e nel “sohn” (figlio) che entra a costituire alcuni cognomi anglosassoni. Erano i morti a legittimare i vivi.

 

 

Questo comportava anche, come contropartita, delle evidenti ingiustizie a favore di persone indegne che però avevano dietro le spalle una grande tradizione familiare o a sfavore di altre, valide, prive di questa tradizione o addirittura “figli di nessuno”. È dunque positivo che il riferimento alla paternità sia stato abolito nei documenti di riconoscimento. Meno positivo è che, a questa giusta valorizzazione del singolo, al di là della sua storia, si sia accompagnata l’illusoria convinzione che ognuno “si fa da sé” e non debba in definitiva nulla a nessuno. La nostra è una società senza gratitudine.

 

 

Così, quelli che ci hanno preceduto, da cui abbiamo ricevuto la vita e i primi affetti – nonni, genitori -, oppure dei contributi decisivi alla nostra crescita intellettuale e spirituale – i “maestri” -, rischiano di essere dimenticati, dopo morti (ma anche mentre sono ancora in vita, quando li abbandoniamo negli ospizi), insieme ai doni che ci hanno dato.

 

 

O, addirittura, restano come figure negative, di cui ricordiamo solo i difetti e gli errori, forse le colpe, che ci hanno segnato e che non riusciamo a perdonare loro. I morti, allora, continuano a perseguitarci. Non sono tra coloro che vedono nella diffusione di Halloween, in sostituzione della festa cristiana dei morti, qualcosa di più che una moda consumistica. Anche le mode, però, per quanto superficiali (come questa, almeno in Italia), portano con sé un messaggio. E quello di Halloween, al di là della varietà delle versioni dell’antico mito celtico da cui trae origine, è che i vivi devono avere paura dei defunti, che nella notte di Halloween, appunto, si ripresentano sulla terra, assumendo forme più o meno orride, di cui è emblema la maschera terrificante di una zucca vuota, e devono essere esorcizzati.

 

 

E nell’industria cinematografica non è del resto sempre fiorente, ormai da alcuni decenni, il filone dei film horror incentrati sul ritorno dei “morti viventi” – triste parodia della resurrezione di cui parla la tradizione cristiana – che vengono ad assalire e divorare i vivi? È questa l’immagine dei defunti che tanti innocenti hanno assimilato nelle lunghe ore in cui sono rimasti posteggiati davanti al televisore, e che non dimenticheranno più.

 

 

Davanti a questi scenari, lo spettacolo dei bambini che credono ancora che i morti vengano a visitarli per portare loro umili regali diventa il simbolo di una prospettiva diversa, che forse andrebbe recuperata anche da un punto di vista semplicemente umano. Una prospettiva in cui ritrovi la sua importanza il ricordo di chi, pur con difetti ed errori, generandoci ed educandoci ci ha consentito di diventare quello che siamo – non per tornare al culto degli antenati, come in certe civiltà del passato, ma per recuperare la dolcezza della memoria e l’onestà della riconoscenza.

 


 

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