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La famiglia dei diritti

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di Giuseppe Savagnone

 

Si discute molto sulla legittimità dell’adozione di figli da parte delle coppie omosessuali. In genere il dibattito si polarizza sulla questione dell’uguaglianza dei diritti delle persone gay rispetto a quelle eterosessuali. Forse può essere un contributo alla ragionevolezza del dibattito mettere in luce che anche queste ultime in realtà non hanno solo diritti, ma anche doveri. E, soprattutto, che gli uni e gli altri si fondano non sull’individuo e sulla sua aspirazione a realizzarsi, ma sul senso di ciò che comunemente chiamiamo “famiglia”.

I primi a dimenticare oggi questa premessa – indispensabile a ogni ulteriore considerazione – sono gli eterosessuali. Oggi il vero problema della famiglia non sono i matrimoni gay (che ancora, comunque li si giudichi, non ci sono), ma quelli etero. Perché la cultura che sta dietro la grande maggioranza delle unioni, religiose o civili, che si celebrano nel nostro paese (e non solo in esso) è incompatibile con il significato della famiglia come comunità.

Alla base di questa cultura c’è quello che uno studioso del pensiero del liberalismo ha chiamato «individualismo possessivo». Il singolo ritiene di avere una identità autonoma, indipendente dagli altri, e di dover decidere volta per volta se, quando e come entrare in relazione con loro. La libertà è concepita, in questa logica, come il potere di fare ciò che si vuole, purché non si invada la sfera dell’autonomia altrui. Il modello è il diritto di proprietà, che in questa visione è così fondamentale da costituire la chiave di lettura della propria stessa identità: ognuno – diceva uno dei padri di questa concezione, John Locke – è se stesso in quanto è proprietario del proprio corpo, delle proprie facoltà mentali e, in conseguenza di ciò, anche del proprio lavoro e dei frutti di questo lavoro, su cui nessuno ha il diritto di mettere le mani (da qui l’antipatia per le tasse).

Ma questo vale anche nei confronti dei figli, derivazione diretta del nostro corpo. «Gli embrioni e i feti prodotti privatamente sono proprietà privata», scrive a questo proposito, nel suo diffuso Manuale di bioetica, un notissimo studioso, Tristram Engelhard. Lo sono anche i neonati e questo rende del tutto lecito l’infanticidio nei primi mesi di vita del bambino. Sono i genitori a dover decidere. «In mancanza di contratti particolari (…), gli altri possono deplorare ciò che faccio con quel che è mio. Tuttavia, dato che è mio, tocca a me prendere la decisione finale riguardo alla sua destinazione, anche se si stratta di zigoti, embrioni e feti».

Non sono solo astratte teorie. Ricordiamo gli anni in cui nei cortei a favore della legalizzazione dell’aborto si sfilava scandendo lo slogan «l’utero è mio e ne faccio quello che voglio».

Secondo questa visione, nessuno può invadere la mia proprietà. La libertà/proprietà di ciascuno finisce dove comincia quella dell’altro. E poiché questo diritto è assoluto, quando due soggetti decidono di sposarsi quella che si costituisce è solo una società per azioni, in cui ognuno resta proprietario di se stesso e perciò libero di recedere quando le sue insindacabili scelte lo porteranno a preferire investimenti più vantaggiosi della sua persona e della sua vita.

In quest’ottica, anzi, la soluzione migliore è ormai, agli occhi di molti, non sposarsi neppure, ma convivere. All’insegna del motto: «Stiamo insieme finché stiamo bene insieme». Che è la logica del mercato subentrata a quella, molto più impegnativa, del dono. Quest’ultimo, infatti, è irreversibile. Invece in un contratto mercantile si possono porre delle clausole e rescindere l’accordo.

In questo contesto, in primo piano  sono i diritti che, sulla scia di quello di proprietà, sono in funzione dell’individuo e delle sue insindacabili esigenze. Nessun legame originario con gli altri. I soli doveri che si hanno sono quelli che si decide di assumersi liberamente. Per questo la nostra è una società senza responsabilità reciproca e senza gratitudine. Si mettono tra parentesi  gli obblighi e il debito verso i genitori e verso la comunità di appartenenza, cercando di convincersi che “ci si è fatti da sé”. Reciprocamente, i genitori guardano ai possibili figli come a una estensione della loro proprietà in vista dell’appagamento del proprio bisogno di genitorialità. E’ così che nasce l’idea del “diritto ad avere figli”. Dove in primo piano non sono i diritti dei figli, ma quelli dei genitori.

Tutto questo è a monte del problema delle coppie e delle adozioni gay: riguarda tutta la nostra società e la cultura a cui essa si ispira. In questo contesto la battaglia per combattere la logica dell’utero in affitto, o forme più moderate di strumentalizzazione dei figli alle preferenze soggettive dei genitori, è inevitabilmente perdente. Perché questi problemi sono solo l’estremo frutto di una mentalità che non riguarda solo la famiglia arcobaleno, ma il modo di intendere la famiglia e, più in generale, i rapporti umani. Finché non si rimetterà in discussione il modello individualismo possessivo, dominante nel neocapitalismo globalizzato, la logica unilaterale dei diritti farà considerare oscurantista ogni opposizione e prima o poi la supererà.

Non si tratta, però, di tornare a una altrettanto unilaterale esaltazione dei doveri, che in passato ha spesso portato a misconoscere i diritti. È necessaria, piuttosto, una rivoluzione culturale che ripensi l’identità personale come implicante la relazione all’altro, la libertà come inscindibile dalla responsabilità, la proprietà come finalizzata all’uso comune. E questo va al di là del problema della famiglia, perché coinvolge tutta la dimensione comunitaria, a livello economico, sociale e politico, non solo nell’ambito nazionale ma anche in quello planetario. Così come va al di là delle divisioni tra credenti e non credenti. I problemi derivanti dalla crisi della dimensione comunitaria – di cui quella della famiglia è un’espressione sintomatica – sono sotto gli occhi di tutti. E forse sarebbe il momento di affrontarli andando alla loro radice, portando ognuno il proprio contributo.

 

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