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I Chiaroscuri – Per il ritorno della politica

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Nella immensa galassia di commenti che hanno fatto seguito all’esito del referendum sulla riforma costituzionale, mi ha colpito quello di Ezio Mauro, che vede nella sconfitta del “sì” la nemesi inevitabile di «un inedito populismo del potere che Renzi ha provato a impersonare nel tentativo — o nella tentazione — di disegnarsi un doppio profilo di lotta e di governo, usando le armi dell’antipolitica per combatterla». Secondo questa analisi, il premier ha cercato di far leva sull’insofferenza degli italiani per la complessità degli apparati istituzionali – di cui era simbolo il bicameralismo, con le sue lentezze e l’esagerato numero di parlamentari – , proponendosi «come l’unico attore del rinnovamento, denunciando come conservatori o parrucconi tutti coloro che avanzavano riserve e obiezioni», senza curarsi di far maturare negli italiani e nel suo stesso partito quel confronto di idee e quella progressiva presa di coscienza che avrebbero dovuto essere le indispensabili premesse del rinnovamento.

«Quasi che Renzi» – scrive l’ex direttore di «Repubblica» – «avesse rinunciato al tentativo più ambizioso e necessario, l’egemonia culturale. Ma senza una base culturale la politica non vive di vita propria, bensì di rappresentazione». E, ridotta a spettacolo, «consente e autorizza un immiserimento della contro-politica, che abbassa il livello del discorso» a un gioco di fuoco di slogan.

E così, dalla semplificazione populista della proposta, sradicata da una reale prospettiva culturale, è derivata, secondo Mauro, «una semplificazione simmetrica nelle opposizioni», Ridotto alla scelta tra un “sì” e un “no”, il referendum si è trasformato in un plebiscito sulla persona dello stesso Renzi e in un’occasione per l’esplosione – altrettanto populista e “di pancia” – di tutti i malcontenti che covano nel nostro Paese.

«Al fondo» – conclude l’articolo – «c’è il grande errore della post-politica, la convinzione che destra e sinistra siano categorie superate che non servono più per leggere il mondo e per rappresentarlo». E lo scivolare della politica in un grande brodo primordiale dove, invece delle idee, a emergere sono personaggi che, di volta in volta, attirano su di sé la luce dei riflettori, per poi essere travolti dal mancato adempimento delle loro promesse e sostituiti da altri.

Condivido in larga misura questa diagnosi di un intellettuale per tanti versi molto lontano dalle mie idee, e vorrei partire da essa, non tanto per continuare a parlare di ciò che è accaduto, quanto per sforzarmi di delineare una prospettiva per il futuro.

La prima cosa che emerge dal quadro sopra tracciato è che il vuoto più grande, nel nostro Paese, è dato dalla latitanza, ormai cronica, di una cultura politica degna di questo nome. Renzi, peraltro, non è il primo e l’unico responsabile di questo vuoto. L’ha ereditato dai suoi predecessori e ha creduto di poterlo gestire a proprio vantaggio, riuscendoci, fino al 4 dicembre, per esserne poi inghiottito. Da molto, troppo tempo le facce dei leader – prima sui manifesti elettorali, oggi soprattutto nei salotti televisivi – hanno sostituito i programmi. Da troppo tempo i loro estemporanei gesti ad effetto – i “contratti con gli Italiani”, le dichiarazioni di “metterci la faccia” – hanno sostituito le idee e, per chi non si vergogna di questa parola, gli ideali che un tempo davano senso e dignità alla politica. Da troppo tempo gli scontri e i “patti” personali – ultimo, quello del “Nazareno” – sono diventati i protagonisti della scena pubblica, a prescindere dalle visioni di fondo della società e del suo possibile sviluppo.

È come se non ci fossero più differenze. Bisogna rivedere qualche vecchio film su don Camillo e Peppone per ricordarsi che un tempo ce n’erano, molto forti, e che da esse scaturiva un sano dibattito, determinando accesi contrasti, ma anche rendendo possibili serie convergenze in vista del bene del Paese. Dove, come nella situazione attuale, le identità profonde svaniscono, non c’è più niente da discutere se non i vantaggi o gli svantaggi di un’alleanza di potere.

Così, i vecchi partiti hanno perduto la loro anima. E anche le forze nuove che si affacciano sulla scena sembrano non riuscire a promettere altro che una maggiore correttezza personale (peraltro, salvo rare eccezioni, ancora da dimostrare), riproducendo il vecchio modello del “partito degli onesti”. Un modello chiaramente inadeguato, perché la validità di una linea politica si misura dal suo contenuto programmatico, più che dal disinteresse – certamente apprezzabile, ma non certo sufficiente – dei suoi sostenitori. Non risulta che il partito nazionalsocialista fosse corrotto, anzi molti suoi membri vibravano di sincero e disinteressato entusiasmo. Erano le sue idee e i suoi programmi che ne hanno fatto una delle più mostruose creazioni della storia.

In questo deserto culturale l’efficacia è tutta affidata alle spinte pulsionali che muovono la massa. Quando il cervello non pensa, la pancia determina le scelte. Potremmo dire: quando la politica non è più politica, ma gioco di ambizioni personali e di compromessi, il populismo dilaga. Magari su fronti opposti, come nel caso del recente referendum, ma seguendo una stessa logica.

E’ urgente che si ricominci a pensare e a discutere dei problemi di fondo, delle grandi prospettive. Non in termini ideologici – se per ideologia si intende una concezione totalizzante e fanatica – ma ridando cittadinanza alle diverse visioni possibili della società e dello Stato. Smettiamola di occuparci solo del Pil. A questo sforzo di pensiero, in una democrazia, sono invitati tutti i cittadini, secondo il loro diverso ruolo. Ma una responsabilità particolare grava sugli intellettuali. Da troppo tempo la maggior parte di essi sono ridotti a consulenti del potente di turno o a giullari del circo mediatico. La cultura non è solo gioco, è anche compito e missione. È venuto il momento, forse, di ricordarcene.

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