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“Durante la pandemia non abbiamo ben compreso cosa sia accaduto” – Intervista a Luca De Santis

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La guerra in Ucraina – insieme all’emergenza umanitaria, politica, economia e sociale che ne è derivata – ha letteralmente cancellato dall’opinione pubblica il tema della pandemia da Covid-19. Tuttavia, il virus è ancora in circolo e gli effetti nefasti dei ripetuti lockdown non sono stati superati del tutto. Sicuramente, il periodo acuto della lotta al Covid resterà nella storia umana come un tempo di crisi e di discernimento. Di questo tema discutiamo con Luca De Santis. Assistente pastorale e docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore e presso la Pontificia Università Lateranense a Roma, De Santis ha da poco pubblicato per i tipi della Marcianum press il volume Nella nuova epoca. Riflessioni post pandemiche su politica, famiglia e Chiesa.

– Professore De Santis, la pandemia ha colpito uomini e donne abituati, in genere, all’assenza di restrizioni e a logiche di rischio calcolato. Con la diffusione del virus, tutte le nostre certezze sono crollate. A suo parere, cosa ha appreso l’umanità da questo periodo?

Nella sua domanda sono contenuti due punti che a mio parere richiedono un’attenta riflessione. Il primo riguarda le restrizioni. Durante il periodo pandemico è stato legiferato per la prima volta nella nostra contemporaneità, sulle libertà della persona: siamo rimasti chiusi in casa, ci è stato detto come e quando uscire, quanti metri ci era permesso percorrere, non poter vedere nessuno. È comprensibile che bisognava affrontare una pandemia e alcune norme erano d’obbligo, tuttavia è pur vero che una situazione del genere ha messo in evidenza, un vuoto normativo che va necessariamente colmato, perché in futuro visto il precedente, non si arrivi a legiferare nel medesimo modo, per un altro qualsiasi motivo. In secondo luogo il mio auspicio è che la condizione pandemica abbia aiutato le persone a comprendere maggiormente le problematiche che da lunghi anni sono presenti nella nostra società.

La pandemia non ha fatto altro che svelare problematiche antiche e continue, ingigantendole ancor di più a causa di quanto accadeva. Per un verso questa situazione ha aumentato la sfiducia nei confronti delle istituzioni, poiché incapaci nel manifestarsi come una sicura guida (lo abbiamo visto nelle ultime elezioni governative), parlano di un ritorno alla normalità, senza effettuare una profonda riflessione intorno a quanto la gente ha subito in questo tempo, non solo dal punto di vista pratico, ma soprattutto psicologico e spirituale.

La politica è chiamata a occuparsi della persona in se stessa, in tutte le sue dimensioni, il suo ruolo non può dirsi compiuto nel momento in cui è stata in grado di fornire il vaccino e farci uscire da casa. In due anni a causa dell’evento pandemico sono accadute delle cose che hanno inciso sull’animo umano, la politica ha l’obbligo di intercettarle ed elaborare delle risposte per garantire la salute sociale. Un aiuto concreto può derivare dai corpi intermedi, i quali essendo presenti sul territorio possono fornire un aiuto nell’inquadrare le varie problematiche e nello stesso tempo avanzare delle possibili soluzioni. 

– Come sostiene nel suo volume Nella nuova epoca. Riflessioni post pandemiche su politica, famiglia e Chiesa, la pandemia ci ha indotti ad una riflessione sul potere e sull’influenza delle tecnologie circa ogni aspetto della nostra vita. Quali sono le caratteristiche, e i limiti, dell’uomo “tecnologico”?

Le problematiche che sono state sollevate dalla pandemia, ci conducono a prendere consapevolezza del tempo storico che stiamo vivendo, nell’imparare a conoscere la nostra epoca. Attualmente, per la prima volta nella storia, siamo incapaci di definire l’epoca in cui viviamo, in modo generico si parla di postmoderno, durante il periodo pandemico qualcuno sosteneva l’avvio di una nuova epoca parlando di post del post moderno.

Il libro evidenzia tramite profonde motivazioni che ci troviamo all’interno dell’epoca della tecnica, che non è la tecnologia, ma un pensiero che affermatosi alla fine del 1800, ha caratterizzato l’uomo del nostro tempo. L’uomo tecnologico vive esclusivamente il presente, non ha memoria e per questo motivo è privo d’identità, il risultato è che le persone a causa di questo, divengono facilmente manovrabili, possono essere condotte ovunque un pensiero forte le voglia indirizzare. Un altro aspetto riguarda la mancanza di futuro, non riferito al sogno o al desiderio, ma come fine (télos): dove mi sto dirigendo, verso cosa sto camminando. Non ponendosi tale domanda, il rischio è quello del vivere giorno per giorno in attesa solo di brevi speranze, dall’uscita del nuovo modello tecnologico all’assunzione lavorativa, senza comprendere l’essenza della propria esistenza o il valore della vita.

Il pensiero tecnico sta conducendo sempre di più l’uomo verso l’individualismo, con la parvenza di fornirgli i mezzi di una più proficua comunicazione, sta cambiando sempre di più il linguaggio sia dal punto di vista etimologico, che di significato valoriale: uno scambio di comunicazioni on line si definisce posta e un contatto su un social, amicizia. Il linguaggio, invece di unire la società, la sta dividendo ulteriormente in quanto sta divenendo sempre più tecnico, forbito di termini stranieri e sigle, che si rifanno a lingue tecniche di una materia, tutto ciò rende misterioso un ambito della vita sociale come l’economia, la medicina e altro ancora, e l’uomo è condannato a vivere in una babele sociale, affidandosi senza essere pienamente consapevole ai tecnici di un settore.

– Fra gli ambiti sociali più colpiti dalle restrizioni vi è stata indubbiamente la scuola. Con il rientro alla “normalità” pare che siamo tornati a dare per scontata la socialità come parte decisiva per la crescita delle future generazioni. Una certezza, come ha dimostrato il virus, dai piedi d’argilla e come tale da tutelare e ampliare in ogni modo. È così?

Un elemento di grande sconforto proviene da una frase ripetuta come un mantra: ritorno alla normalità. Diviene necessario chiedersi che cosa sia questa normalità. A me sembra che in generale, anche dal punto di vista politico, il ritorno alla normalità abbia indicato il fatto che durante la pandemia le scuole erano in DAD e che ora sono tornate a riempirsi, che in precedenza il COVID-19 era una malattia temuta e che ora grazie al vaccino è stata declassata a un’influenza.

Siamo proprio sicuri che la normalità sia questa? Se così è, significa che durante la pandemia non abbiamo ben compreso cosa sia accaduto. Per due anni i nostri ragazzi sono stati privati di aspetti fondamentali riguardanti la loro crescita: non si sono potuti abbracciare, uscire insieme, organizzare una festa, giocare… Non poche persone sono state costrette ad affrontare in piena solitudine una malattia, a non ricevere il conforto e l’ausilio di parenti e amici dopo un’operazione o un qualsiasi impedimento di salute, poiché in ospedale non era consentito l’ingresso a nessuno.

Gli anziani non hanno potuto abbracciare i propri figli e nipoti costretti nelle RSA. Molta gente non ha potuto piangere un proprio caro, curare il suo feretro, vederlo per l’ultima volta e organizzargli un degno funerale, in non poche zone territoriali si è potuto assicurare la tumulazione dopo alcuni mesi. Non poche persone hanno chiuso le loro attività, altri hanno perso il lavoro. Si parla di ritorno alla normalità, ma dopo quanto accaduto cosa è la normalità? In primo luogo si rischia di porre una risoluzione tecnica, ciò che prima della pandemia era chiuso, ora deve ritornare in funzione, ma non tutto si risolve con un’applicazione, la persona va ricostruita dopo questo tempo terribile e accompagnata sia dal punto di vista psicologico che spirituale, dandogli delle forti motivazioni sociali.  

In secondo luogo è grande responsabilità della politica, in particolar modo della scuola e della parrocchia, lavorare in favore del ripopolamento dei luoghi sociali, dagli oratori alle piazze. La famiglia di uno studente universitario che per due anni ha seguito le lezioni in DAD ha avuto un risparmio notevole che si commisura in biglietti per il viaggio, l’affitto dell’appartamento, il vivere fuori casa… Qualcuno potrebbe avanzare la richiesta di continuare in questo modo, bisogna saper dare le motivazioni riguardo alla necessità dell’essere in classe e dello studio in presenza e in gruppo. Non va dimenticato che per due anni lo slogan scellerato che ci è stato propinato è distanziamento sociale due anni non sono pochi dal punto di vista educativo, sono capaci di incidere profondamente nel processo di crescita dei ragazzi e scalfire i punti fermi delle altre generazioni.

– Il virus ha accelerato una serie di dinamiche, già esistenti in epoca pre-Covid, le quali hanno fatto affiorare ampi tratti di diseguaglianza all’interno delle nostre società occidentali. Disparità alle quali occorre rispondere subito. Condivide?

Un problema non si risolve rimandandolo, in quanto successivamente, si ripresenterà più ingigantito di prima. Da circa quarant’anni dal punto di vista politico non abbiamo avuto una programmazione lunga, dai chiari obiettivi, al contrario abbiamo subito la mancanza di investimenti, il continuo fallimento dei progetti proposti e soprattutto una mortificazione della ricerca scientifica. Come lei dice, questi problemi erano già presenti, pensiamo a esempio alla medicina di base, i tempi però, per la maggior parte di noi, sono stati propizi e abbiamo saputo destreggiarci, cosa che poi è divenuta impossibile con l’evento pandemico. Un elemento che mi ha molto colpito riguarda gli ospedali lombardi che più e prima di tutti sono entrati in crisi, eppure si ritenevano essere il fiore all’occhiello della sanità italiana.

L’auspicio è quello di una politica che ci aiuti a leggere questa nostra epoca e diventi l’artefice di riforme che ormai da molto tempo si attendono. Purtroppo non sono molto fiducioso da questo punto di vista, le ultime elezioni hanno per certi versi confermato questi miei timori: dopo anni che si invocavano le elezioni governative, ci siamo trovati dinanzi a una proposta partitica inconcludente, priva di programmi seri, capaci solo di dare risposte tecniche e non di senso, rispetto a quello che la popolazione sta vivendo. Non si sta prendendo sul serio il fatto che gli italiani, così come gli europei, non stano più andando a votare, che sia in corso un continuo disaffezionamento alle istituzioni, che la gente non si sente per nulla rappresentata, soprattutto le classi più povere e maggiormente in crisi.

Una politica incapace di programmare seriamente è lontana dal popolo che dovrebbe servire, per questo cerca di recuperare scadendo nel populismo, un fenomeno non solo italiano. Questo medesimo discorso vale per la stampa, ma anche per il mondo della scuola, la quale con i suoi programmi omologati, non aiuta i nostri ragazzi a saper leggere il proprio territorio, a comprenderne le istanze vocazionali che in esso sono presenti e che possono essere occasione di sviluppo e per arginare il fenomeno dello spopolamento. Una scuola che soprattutto in quest’ultimi anni si è indirizzata a preparare tecnici anziché cittadini pensatori, in grado di conoscere il funzionamento delle principali istituzioni sociali, dandogli l’opportunità di formarsi un pensiero critico capace di riformarle.

– Anche le recenti elezioni politiche hanno riportato una sorta di “rappresentanza svuotata” dei cattolici in politica. Nel suo libro sul post pandemia, lei propone l’idea di un Osservatorio pastorale e politico. Di che si tratta?

Come ho avuto modo di dire più volte, la politica, soprattutto in Italia, vive in una crisi profonda da circa quarant’anni. I fattori di tale crisi sono tanti e sono ben descritti all’interno del libro, uno su tutti riguarda la mancanza dell’educazione alla politica. A scuola, come dicevo precedentemente, è sparita come materia l’Educazione Civica, voluta negli anni ’50 del secolo scorso da Aldo Moro, per dare l’opportunità di conoscere le istituzioni della Repubblica e il loro funzionamento. Oggi ci ritroviamo dei giovani che pur essendo candidati non conoscono il funzionamento della macchina comunale, incapaci di saper scrivere o leggere una delibera.

Anche la Chiesa ritirandosi in un fantomatico campo spirituale, ha smesso di fare educazione alla politica e alla cittadinanza attiva, sempre in questi ultimi anni, si è avuta una fioritura di movimenti e associazioni, capaci di radunare tanta gente in vista dei loro meeting annuali, ma poi non avvertire la loro presenza dal punto di vista sociale. In politica troviamo anche delle associazioni cattoliche, capaci di affrontare esclusivamente solo un tema sociale, come quello della famiglia o della vita, senza una programmazione sociale completa.

Con la caduta della Democrazia Cristiana, si è consumata la morte dei cattolici in politica, convinti che averli sia a destra che a sinistra, avrebbe portato buoni frutti, dimenticando in tutto questo una semplice legge che vige in democrazia: ogni testa vale un voto, così il mondo cattolico è divenuto sempre più inconsistente e nell’obbedire alle logiche del partito, si è diviso ulteriormente. Gli spunti di riflessione intorno alle problematiche concrete sia dai vescovi che dal Papa non sono mancati, il problema riguarda la programmazione nelle diocesi.

Se a esempio, il tema è quello della famiglia o dei giovani, non ci si può limitare a chiamare un esperto che m presenti dal punto di vista pastorale la problematica, senza conoscere come quel tema viene vissuto all’interno del territorio diocesano, è necessario comprendere tramite un’indagine, quale sia il grado del problema in quel determinato territorio. Poche diocesi si sono dotate di un organismo come l’osservatorio pastorale, per questo si rischia di parlare non all’uomo concreto, ma immaginario. L’osservatorio poi permetterà dopo un anno di riflessioni e iniziative di attuare una verifica di quanto si è fatto, se la programmazione è stata incisiva oppure no, la cosa strana è che le verifiche nei piani pastorali non sono mai contemplate. L’osservatorio politico in sintesi, segue la medesima idea di quello pastorale, un organismo che sarebbe utilissimo ai comuni o alle zone territoriali, in modo da dare una buona lettura del territorio e sviluppare ottimi piani di investimento, essendo così in grado di saper leggere le problematiche che la gente in quel territorio sta affrontando.

 

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