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Dante parla ancora – Un popolo in stato di abbandono (Purgatorio VI)

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Il contesto: Purgatorio VI.

Ancora nell’Antipurgatorio, tra i morti per violenza. Il canto inizia con una rassegna di anime che pregano Dante di creare le condizioni, tornando sulla terra, perché si preghi per loro, per accelerarne la santificazione.

Ma il suffragio dei vivi per i morti è efficace? È il quesito che Dante pone a Virgilio. Certamente sì, risponde il maestro. Il Dio cristiano – a differenza di quanto pensasse e scrivesse il Virgilio storico – ascolta le preghiere ispirate da sollecitudine e amore per i trapassati.

Con questa consapevolezza il poeta prosegue il cammino, finché i due si imbattono in un’anima “sola soletta”. Costui è Sordello da Goito, poeta di una generazione precedente a quella di Dante. È compaesano di Virgilio. E quando riconosce il suo conterraneo se lo abbraccia con vero affetto. La stessa terra li unisce. Dante allora non può più tacere e sbotta in questa invettiva:

Il testo: vv. 76 – 126

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!Quell’ anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.

Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.

Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz’ esso fora la vergogna meno.

Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,

guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.

O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ‘l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ‘l tuo successor temenza n’aggia![…]

Vieni a veder la gente quanto s’ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.

E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?

O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?

Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.

Il caos politico dell’Italia medievale

Cosa contiene la nostra pericope? E come può ancora parlare al lettore moderno?

Una premessa è doverosa. Il tempo di Dante non prevede lo Stato italiano. La penisola è un aggregato di realtà municipali piccole, ma accomunate da un sentimento di appartenenza ad una storia comune.

Il concetto di “Italia” pertanto non è abusivo. Dante lo usa, con questi feroci appellativi: “serva”, “albergo di dolore”, “nave senza timoniere sbattuta dalla tempesta”, non “signora dei territori ma bordello”. Non c’è sconto in queste parole. Cosa osserva Dante? Quale sguardo sul suo tempo egli getta?

L’autorità assente

Sordello abbraccia Virgilio con spirito di comune appartenenza: entrambi mantovani. E invece, rileva il poeta, l’Italia è attraversata da divisioni e conflitti laceranti. Nessun territorio ne è risparmiato.

È a questo punto che Dante pone il grande tema dell’autorità, della sua necessità, della sua assenza, e delle ragioni di questa assenza, che determina lo stato di abbandono dell’Italia.

Nell’immaginario di Dante l’autorità medievale non esiste, perché egli non sa cosa sia la parola Medioevo. Per Dante continua l’autorità romana (divenuta cristiana dopo Costantino) – da qui il riferimento alle leggi di Giustiniano –, e pertanto non può sorprendere l’apostrofe sdegnata all’Alberto tedesco, cioè ad Alberto di Asburgo, che in quell’epoca era a capo del Sacro Romano Impero ed è contemporaneo del Dante esule.

Il giudizio sulle cause della situazione di abbandono dell’Italia

Egli è individuato come la causa dell’abbandono dell’Italia, ed è per questo che il poeta invoca su di lui l’ira divina: dal cielo giusto giudizio ricada sul tuo sangue, e sia un giudizio straordinario e manifesto, cosicché il tuo successore ne abbia paura.

Nella parte omessa, Dante incalza l’imperatore invitandolo a venire a vedere il caos politico italiano: vieni a vedere quanto la gente si ama! E infine l’invocazione a Dio, che appare distratto e assente: i tuoi giusti occhi sono rivolti altrove?

Come si può vedere c’è un ritorno importante del tema della giustizia, dalle leggi di Giustiniano, al giudizio di Dio su Alberto, al paradossale “giudizio” di Dante su Dio stesso, quando – novello Giobbe – il poeta chiede al Padreterno se c’è una ragione, sconosciuta agli uomini, per l’apparente stato di abbandono in cui pare aver lasciato l’Italia.

Conflittualità di ieri e di oggi

È facile collocare un simile brano in un tempo remoto, distante e differente dal nostro, se non altro per la diversa situazione politica dell’Italia medievale.

Però viene in mente ugualmente questo nostro tempo attraversato da una forma nuova di abbandono, ovvero dall’incapacità del nostro popolo, e delle forze politiche che lo rappresentano, a ritrovare un sentire comune, non dico un patriottismo che suonerebbe obsoleto, ma almeno un humus di cittadinanza capace di far convergere tutti gli italiani su valori fondanti e non divisivi.

Sarebbe il compito di quelle élites che oggi il popolo ripudia?

Il testo presenta spie linguistiche capaci di costruire ponti con questa nostra contemporaneità. Pensiamo a quel “l’un l’altro si rode”, che evoca proprio la conflittualità esasperata cui assistiamo quotidianamente, oppure a quei “tiranni” di cui sarebbero piene le città e che spesso sono il frutto di un’evoluzione che porta “ogne villan” a far politica.

Ogni villano che si mette a parteggiare diviene un tiranno, e tutte le città ne sono piene. Può rimanere indifferente l’autorità civile, e con essa la somma autorità, che, badiamo bene, non è qui il papa bensì Dio stesso, forse il vero grande protagonista della scena?

Una scena di cui fa parte un popolo in stato di abbandono, con un’autorità politica distratta che fa i propri interessi.

Una domanda di senso tra religione e politica

Davvero lo sguardo di Dante appare senza speranza, come lo sguardo del salmista o del profeta biblico quando vedono attorno a sé il caos e invocano l’intervento divino.

La domanda è davvero disperata, e la ripropongo qui come emblema della domanda di senso – qui il politico e il religioso sono inscindibili – che ogni uomo ha il diritto e il dovere di porre: o grande Giove (Dio? La Giustizia?) che fosti crocifisso in terra per noi (il desiderio di ogni uomo di essere amato e custodito?), i tuoi giusti occhi sono rivolti altrove?

Chi si prende cura di coloro che pagano le pesanti conseguenze del caos? Chi risponderà alla domanda di senso che abita ogni uomo?

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