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Dante parla ancora – Cercare Dio e trovare un Uomo (Paradiso XXXIII)

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L’ultima visione

Al di là dell’Empireo, il cielo che accoglie senza differenze tutte le anime dei beati, vi è solo Dio. Beatrice ha già lasciato Dante a Bernardo, e sarà Bernardo ad invocare Maria affinché interceda a favore dell’ultima visione: la visione dell’Eterno.

Maria acconsente, e Dante, ormai solo, affronta l’ultima esperienza, la più ardita. Ma il compito è arduo anche per il poeta-Alighieri che deve tentare l’azzardo di adeguare le parole a quanto vissuto. E qui invoca la stessa luce affinché gliene dia la capacità:

O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,

e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;

ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria.

O somma luce che sei al di là delle possibilità della mente umana, concedimi di ricordare anche solo un po’ di come mi sei apparsa, e rendi la mia lingua capace di restituire anche una sola scintilla della tua gloria ai lettori che verranno.

Perché se riuscirò a ricordare tutto questo anche un po’ e a ridirlo in questi versi, il tuo trionfo sarà più grande.

La doppia sfida: avere visto e raccontarlo

Dante da ora in poi deve vincere la doppia sfida di reggere con lo sguardo la potenza della Luce – ed è la sfida che fu – ma anche di riuscire a restituire con le parole l’ineffabile – ed è la sfida di adesso.

Il poeta è sfidato non meno del personaggio. Dante riconosce che per grazia divina riesce a vedere attraverso la luce il mistero dell’universo, che però non è spiegabile con argomenti umani. Ma non può concludersi qui il cammino del poeta. L’ultima estrema sfida lo aspetta: vedere Dio. Ecco i versi decisivi:

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;

e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ‘l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.

Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer ‘poco’.

O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!

Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:

per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.

Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

All’interno della grande luce ricordo di aver visto tre cerchi di tre colori diversi che però avevano la stessa dimensione, come in un arcobaleno.

Ciascuno sembrava prendere luce dall’altro, ma il terzo sembrava fuoco generato dall’uno e dall’altro. Davvero è difficilissimo ridire queste cose, e quel che riesco a dire nemmeno può dirsi “poco”.

O luce eterna, che abiti in te stessa, che soltanto puoi comprendere te stessa e che da questo comprenderti generi sorriso e amore al tuo interno! Quello dei tre cerchi che in te figurava come riflesso e che io guardavo con particolare attenzione, mi parve avere, sia pur mantenendo lo stesso colore, fattezze umane, e per questo lo fissai con estrema attenzione.

Come il geometra, per quanto possa impegnarsi, non riesce in alcun modo a trovare la formula della quadratura del cerchio, così ero io davanti a quell’immagine che si inseriva armonicamente nel cerchio: non ero per nulla in grado di comprendere questo mistero.

Eppure, all’improvviso, la mia mente fu percossa da un bagliore intuitivo che premiò il mio sforzo. Qui però mi venne a mancare la capacità di guardare ancora. Ma già l’amore che muove il sole e le altre stelle muoveva anche il mio desiderio e la mia volontà, come il moto armonioso di una ruota.

Ineffabilità dell’esperienza

Questa rubrica potrebbe concludersi qui. Ma il suo titolo – Dante parla ancora – obbliga alla sfida, la mia sfida di fronte alla sublimità della poesia.

Come parla ancora, un testo del genere? C’è qualcuno che possa affermare di avere visto l’Eterno? Nessuno. Infatti questo canto “vede” ben poco. Semmai “sente” molto. E tenta di esprimere l’emozione indicibile di ricordare ciò che ha scosso le fondamenta esistenziali del poeta.

Come percepisce Dio, Dante? Cosa se ne può ricavare, per chi oggi legge queste pagine, quale che sia la sua prospettiva religiosa? Probabilmente due cose, complementari.

La prima è che ogni pretesa di parlare di Dio è sospetta. Molte volte la religione – o le religioni – pretendono troppo dalle proprie possibilità intellettive.

Anche il cattolicesimo può cadere in questa pretesa. L’approccio di Dante, un uomo che dell’esercizio dell’intelletto ha fatto una bandiera per tutta la sua vita, qui appare davvero consapevole della propria inadeguatezza. Come dire che dinanzi al divino la parola deve fare un passo indietro.

Un uomo e un altro Uomo

La seconda è che ad un certo punto quel che più gli permette di balbettare qualche parola è la percezione di un volto umano.

Nel trionfo della luce e del cromatismo suggerito dall’arcobaleno trinitario, ciò a cui riesce ad aggrapparsi è il viso del Figlio, di cui coglie l’assoluta continuità di esistenza e di amore con le altre due persone della Trinità di Dio.

Il Figlio è un uomo. Come la Commedia, in fondo, è la vicenda di un uomo. Alla fine del percorso, scomparsi Virgilio, Beatrice, Bernardo e Maria, sono rimasti due uomini. Uno di fronte all’altro. Ed uno dei due ad arrovellarsi per cercare ancora di giocarsi la carta dell’intelletto per capire come possa essere Dio quell’altro uomo.

L’intuizione dell’Incomprensibile

Non eran da ciò le proprie penne. Sì, qui l’intelletto dantesco, che fino all’ultimo ha lottato per capire ogni minimo aspetto della vita dell’uomo, dall’ingresso nell’Inferno fino a questo momento supremo, deve mollare gli ormeggi.

L’essenziale è invisibile ma anche inafferrabile. La ragione non è tutto, perché viene il momento in cui ciò che conta non è conquistato ma rivelato: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne.

Il fulgore. Un bagliore che non fa capire, ma intuire dov’è il vero delle cose. Il cosiddetto laico forse vorrebbe fermarsi qui. E lasciare al credente l’ultima terzina più un ultimissimo verso, che è il ritratto dantesco di Dio: l’amor che move il sole e l’altre stelle.

L’amore del mondo, che muove ogni cosa, aveva preso possesso anche di me, ed anche io mi muovevo in armonia col cosmo. Ma è più probabile che anche queste parole accomunino tutti i lettori possibili.

Buona estate ai pazienti lettori di questa rubrica.

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