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Dante parla ancora – Il “de profundis” dell’etica pubblica (Purgatorio XVI)

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Il canto: Purgatorio XVI

Monument of Dante Alighieri on the Piazza della Signoria in Verona Italy

Dei 100 canti questo è il cinquantesimo. Metà esatta. E anche nelle altre due cantiche i canti centrali parlavano di etica pubblica. Brunetto Latini nel XV dell’Inferno e Cacciaguida nel XV del Paradiso affrontano questo tema. Siamo nella terza cornice, che ospita gli iracondi. Come nell’anima degli iracondi, tutto è nebbia e fumo, e vedere è quasi impossibile. Dante ancor di più ha bisogno di appoggiarsi a Virgilio, lume della ragione, per procedere. A un certo punto compare un personaggio, alquanto sconosciuto storicamente, che dovette essere un uomo di corte contemporaneo a Dante: si chiama Marco Lombardo. A lui Dante affiderà una sorta di testamento etico-politico, che provo a far risuonare ancor oggi.

Il testo: vv. 58-105

«[…]Lo mondo è ben così tutto diserto
d’ogne virtute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coverto;

ma priego che m’addite la cagione,
sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui;
ché nel cielo uno, e un qua giù la pone».

Alto sospir, che duolo strinse in «uhi!»,
mise fuor prima; e poi cominciò: «Frate,
lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.

Voi che vivete ogne cagion recate
pur suso al cielo, pur come se tutto
movesse seco di necessitate.

Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto.

Lo cielo i vostri movimenti inizia;
non dico tutti, ma, posto ch’i’ ‘l dica,
lume v’è dato a bene e a malizia,

e libero voler; che, se fatica
ne le prime battaglie col ciel dura,
poi vince tutto, se ben si notrica.

A maggior forza e a miglior natura
liberi soggiacete; e quella cria
la mente in voi, che ‘l ciel non ha in sua cura.

Però, se ‘l mondo presente disvia,
in voi è la cagione, in voi si cheggia;
e io te ne sarò or vera spia.

Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,

l’anima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a ciò che la trastulla.

Di picciol bene in pria sente sapore;
quivi s’inganna, e dietro ad esso corre,
se guida o fren non torce suo amore.

Onde convenne legge per fren porre;
convenne rege aver, che discernesse
de la vera cittade almen la torre.

Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
Nullo, però che ‘l pastor che procede,
rugumar può, ma non ha l’unghie fesse;

per che la gente, che sua guida vede
pur a quel ben fedire ond’ ella è ghiotta,
di quel si pasce, e più oltre non chiede.

Ben puoi veder che la mala condotta
è la cagion che ‘l mondo ha fatto reo,
e non natura che ‘n voi sia corrotta.[…]

Il male non proviene dal cielo

È Dante a parlare. Perché nel mondo il male impera dovunque? Da dove proviene il male? Dal cielo o dagli uomini? Questa è la domanda che rivolge a Marco, investendolo del compito, nella finzione letteraria, di fargli da portavoce.

Marco risponde che se il male provenisse dal cielo non esisterebbe il libero arbitrio. E senza libero arbitrio non ci sarebbe il senso del bene e del male. Mancherebbe la responsabilità umana. L’etica.

Per dimostrare quest’affermazione il nostro personaggio usa un argomento di evidenza pedagogica: l’uomo nasce con delle inclinazioni naturali, ma viene dotato della ragione che gli permette di fare le sue scelte.

Ed il risultato di queste scelte è proprio l’autoprivazione della libertà naturale: “a maggior forza e miglior natura liberi soggiacete”. La vera libertà è la scelta di un’obbedienza ad una forza maggiore.

L’autorità assente

Marco insiste nel delineare la costruzione del senso etico negli umani. L’anima umana, attratta dai desideri e dai piaceri, da questi verrebbe fagocitata “se guida o fren non torce suo amore”. Notevole: è chiamato amore anche l’impulso verso l’inganno.

Per evitare l’inganno esiste la legge e chi la fa rispettare.

Possiamo vedere come il il diritto e l’etica nel discorso dantesco si intersechino e approdino – ovviamente per quell’epoca – alla religione: nessuno mette mano alle leggi non solo perché latita l’autorità civile, ma anche perché la guida spirituale non è in grado di dare il buon esempio: “la gente, che sua guida vede pur a quel ben fedire ond’ella è ghiotta, di quel si pasce, e più oltre non chiede”.

La gente, che vede la sua guida desiderare le stesse cose di cui è ghiotta, di queste cose si nutre e altro non chiede.

L’autorità civile è inesistente e quella spirituale anch’essa non è all’altezza. Oggi: la politica e l’educazione. La gente è abbandonata a se stessa e ne è ben lieta: “di quel si pasce, e più oltre non chiede”.

Cos’è questo “più oltre” che invece dovrebbe chiedere, diremmo oggi, alle élites? Torniamoci dopo. E restiamo a Marco: adesso puoi ben capire che la degenerazione dell’ etica (la “mala condotta”) è il motivo che ha reso il mondo malvagio. E non la natura malvagia dell’uomo.

La necessità delle élites

L’uomo non è dunque malvagio per sua natura. Lo si creda fatto da Dio o meno, l’uomo è un cantiere aperto.

L’educazione – in famiglia e a scuola – e la politica hanno il compito di guidarlo alla capacità di individuare un’etica e dei percorsi di vita umanizzanti.

Dante percepiva la deriva etica del suo tempo, di cui fece le spese egli stesso. Il Purgatorio è il luogo della consapevolezza, per lui, per i suoi contemporanei, per tutti noi.

Se l’uomo è un cantiere aperto può essere abbandonato a se stesso? Sedotto a livello dei suoi istinti primordiali? Occorreranno le tanto deplorate élites per farsene carico, per sostenerlo nel faticoso cammino verso la capacità di scelta? Genitori, insegnanti, educatori, classi dirigenti.

Oggi questi sono i soggetti che prendono il posto dell’imperatore e del papa, cui Dante attribuiva il ruolo di guide dell’umanità.

Fare il cittadino

C’è un’idea chiara e forte di uomo, in questo discorso. Non un suddito: un cittadino. Ma un cittadino non si fa da solo, lo si vede bene.

Il percorso delineato dal poeta che parla per bocca del suo personaggio è un percorso di paradossale presa di distanza dalla libertà: in quell’ossimoro “liberi soggiacete” c’è l’approdo del lavoro educativo, che l’autorità politica non può e non deve disconfermare: la capacità di desiderare “più oltre”, di andare al di là della soddisfazione procurata da quello che detta la pancia, in tutte le sue accezioni.

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