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Dante parla ancora – Piccarda testimone della comunione paradisiaca (Paradiso III)

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Piccarda Donati nel cielo della Luna

Questo è il canto in cui Dante incontra la prima anima del Paradiso: una donna. Come una donna, Francesca da Rimini, era la prima anima incontrata nell’Inferno. Donne di desiderio entrambe. Ma di statuto diverso. Dopo aver ascoltato le spiegazioni dottrinali di Beatrice, nei primi due canti, Dante accede al cielo della Luna, che ospita le anime di coloro che non portarono a compimento, ma non per loro colpa, i voti religiosi. Dante le scambia per immagini riflesse e cerca di capire dove possano essere gli “originali”. Ma quelle immagini sono autentiche, nella loro dolce e ingannevole trasparenza. La prima è Piccarda Donati, suora strappata a forza dal convento, come narrano le cronache del tempo. Dante non la riconosce, perché la sua immagine è trasfigurata. Adesso è “più bella”. La sua collocazione, “in la spera più tarda”, cioè nel cielo meno lontano dalla terra, fa venire a Dante il sospetto che ci possa essere una differenza di beatitudine tra le anime del Paradiso. E che quindi nella loro vita ultraterrena possa esserci qualcosa che manca.

Il testo: canto III, vv. 64-90

Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?».

Con quelle altr’ ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch’arder parea d’amor nel primo foco:

«Frate, la nostra volontà quïeta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.

Se disïassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne;

che vedrai non capere in questi giri,
s’essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri.

Anzi è formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
per ch’una fansi nostre voglie stesse;

sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
com’ a lo re che ‘n suo voler ne ‘nvoglia.

E ‘n la sua volontade è nostra pace:
ell’ è quel mare al qual tutto si move
ciò ch’ella crïa o che natura face».

Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
del sommo ben d’un modo non vi piove.

di Cristobal Rojas

La comunione dei desideri

La domanda è chiara: voi che qui siete felici desiderate trovarvi in un luogo in cui potete essere più vicini a Dio? Non è da sottovalutare che la risposta venga data col sorriso e con la gioia che discendono dall’amore di cui sono rivestite queste anime. Lo stesso amore, chiamato da Piccarda “virtù di carità” che rende quieta la volontà e fa desiderare ciò che c’è, senza mirare ad altro. E questo avviene perché è impossibile che i loro desideri non siano in comunione col desiderio di Dio. È questa infatti la natura dell’amore: aderire perfettamente al desiderio di chi ci ama e che riamiamo. Questa adesione, spiega Piccarda, rappresenta “la nostra pace”. La pace interiore consiste, come sperimenterà Dante stesso alla fine della cantica e di tutto il poema, nel non provare disarmonia tra il proprio desiderare e l’armonia del Divino o dell’Essere che dir si voglia. E alla fine del ragionamento di Piccarda, Dante commenta che in quel momento gli fu chiaro come il Paradiso sia il luogo dell’unità nella differenza: ogni luogo è Paradiso, benché la grazia pervenga a ciascuno in modo diverso.

Cosa avrebbe da dire alla sensibilità del nostro tempo un discorso di questo genere, che sembra sfuggire totalmente ad ogni possibilità di ancoraggio all’oggi?

Il Paradiso non nega l’umanità e la storia

Come al solito, occorre ricercare la portata antropologica del testo, che ne garantisce la permanenza al di là dei tempi e, direi qui, anche delle connotazioni confessionali del lettore. Il Paradiso dantesco non è una dimensione atemporale e indifferenziata dell’umano. Ciascuno continua a restare se stesso, con la propria storia e con le caratteristiche della propria personalità. L’umano per definizione si coglie nella differenza, e le anime del Paradiso, come testimonia Piccarda, stanno in luoghi diversi non perché siano più o meno felici, ma semplicemente perché la differenza del modo in cui hanno vissuto determina anche la differenza del modo in cui godranno dell’armonia celeste.

Godere dei doni ricevuti

Desiderare di essere “più in alto” è una dinamica che conosciamo bene perché è la base della competizione e dell’individualismo, due tratti tipici del nostro Occidente. La logica del Paradiso contesta alla radice questa base antropologica, perché le anime vivono in comunione e soprattutto godono di quel che è loro dato dall’Essere che le ospita. Da questo punto di vista è interessante la dinamica che intercorre tra “virtù di carità” e “nostra volontà”. Il desiderare umano appare qui segnato da inquietudine, se diamo credito a quel “quieta” che costituisce davvero il verbo della pace interiore. I percorsi di meditazione orientale enfatizzano proprio il dato della pace interiore come quiete della volontà individuale e adesione all’Essere, che poi finisce per connotarsi anche come adesione agli altri, a quel che cristianamente viene definita prossimità.

Il tempo dell’Armonia

L’espressione “a tutto il regno piace” individua proprio questa coralità e comunione paradisiaca che contesta la tensione individuale al prevalere sugli altri.
Piccarda in altri termini sta definendo una logica paradossale, che, lungi dal configurarsi come sudditanza acritica ed acquiescenza all’esistente (il disprezzo dantesco per gli ignavi contraddirebbe questa lettura), si pone come possibilità, per ciascuno di noi, di rivisitare la nostra esistenza quando perde di vista la comunione con l’Essere, con gli altri e con se stessi.

Tutto il viaggio di Dante è una ricerca dell’armonia, intesa come ritorno a casa.
La prima anima del Paradiso che parla al poeta è proprio testimone dell’armonia delle volontà, che determina la comunione degli spiriti beati.
Non è noioso il Paradiso dantesco, come qualcuno pensa. Non è entusiasmante soltanto l’Inferno, come si sostiene. O insignificante il Purgatorio. Occorre rimodulare alcuni stereotipi. La vita non è bella solo per la danza delle passioni, dei conflitti e delle sofferenze umane. Con le passioni, i conflitti e le sofferenze ci si può anche, alla lunga, annoiare.
C’è un tempo per ogni cosa, recita il Qohélet, e forse occorre sapere aderire anche a quel tempo in cui ci si comincia ad annoiare a possedere, consumare, prevalere e si comincia ad imparare ad aderire, armonizzare, contemplare.

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