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Dalla padella nella brace (ovvero: dall’omofobia all’eterofobia)

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 di Giuseppe Savagnone 

 

Che l’omofobia sia una mostruosità siamo in molti ad esserne convinti. Abbiamo tutti in mente gli appellativi, le beffe, gli scherzi crudeli di cui, da sempre, sono stati oggetto gli omosessuali. Un vero e proprio linciaggio – e non soltanto morale –  , che ha spinto per secoli la maggior parte di loro a nascondere la loro “diversità” ad una società spietata, e a volte addirittura a se stessi, mascherandosi, sdoppiandosi, mimetizzandosi. Non si può non provare un’immensa tristezza e un’altrettanto immensa indignazione al pensiero che migliaia di persone  hanno dovuto vivere il proprio orientamento sessuale in condizioni di indicibile squallore, nel terrore di essere scoperti o nell’umiliazione di una emarginazione che ha spinto alcuni di loro togliersi la vita.

E non parlo qui solo di un problema del passato. Le cronache ci dicono ogni giorno che, nonostante alcuni passi avanti che si sono fatti, resta ancora diffusa  in molti ambienti  l’idea che il gay e la lesbica (ma lo stesso vale per il transessuale)  siano dei poveri mostri da deridere o dei viziosi da condannare e isolare.

 

Il rispetto per  le persone che l’omofobia ha perseguitato e ancora, in molti casi, perseguita, calpestandone la dignità, non può tuttavia far chiudere gli occhi sulla campagna culturale che, con un crescendo impressionante, sta cercando di legittimare come unica alternativa a questo orrore quello, opposto e simmetrico, dell’eterofobia. Un’ondata di iniziative che in tutti campi, da quello della pubblicità a quello della politica, da quello dello spettacolo a quello dell’economia, sembra avere come obiettivo il perseguimento di un’uguaglianza che cancella la differenza tra i sessi. L’idea di fondo è che maschi e femmine si nasce, ma questo non conta nulla. Ognuno deve essere libero di scegliere il proprio  “orientamento sessuale”.

Per rendere massima questa libertà, bisogna  il più possibile neutralizzare la diversità insita nel punto di partenza genetico, smontando, con un’apposita educazione e con una prassi sociale corrispondente, tutto l’insieme di caratteristiche psicologiche e culturali legate a questa diversità. È quello che si sta varando in Francia sotto l’accattivante dicitura di «Abc della parità» («Repubblica», 30 gennaio 2014). Si proclama di volere solo «l’educazione alla parità e all’uguaglianza». E chi potrebbe essere contrario a questo? Solo che, quando si va a vedere come si intende questa educazione, si scopre che essa mira a «“decostruire”  sin dalla più tenera età cliché e stereotipi sessisti» (ivi). Perciò, «non solo rosa e bambole per le bambine, e azzurro e soldatini per i bambini». «Bisogna lavorare, spiega il governo, sul loro immaginario» (ivi).

Ma si può destrutturare la dimensione culturale – «l’immaginario» – dell’essere umano senza intaccare la sua identità? Provate a non educare un bambino a parlare o a camminare: diventerà uno di quei baby lupo, incapaci di postura eretta e di parola, che di umano mantengono solo le potenzialità inattuate (e ormai per sempre inattuabili). Provate a educare un bambino a identificarsi nei colori e nei giochi (e perché non negli abiti?) delle bambine, e avrete non certo una bambina, ma un soggetto confuso, insicuro. La scienza insegna che dentro ogni individuo gli elementi sessuali predominanti coesistono, normalmente, con quelli dell’altro sesso. L’identità sessuale, come la capacità di parlare e di camminare, ha bisogno di una adeguata formazione per attuarsi pienamente.  La persona è natura e cultura inscindibilmente connesse. Se la cultura rompe la sua alleanza con la natura e pretende di sostituirla, con un lavoro capillare svolto fin dalla più tenera età, non riesce mai del tutto a distruggerla, ma può creare un situazione di smarrimento e di paralisi, come succederebbe se a un bambino, per non condizionarlo a parlare una sola lingua,  si pretendesse di insegnargliele tutte, in attesa che scelga.

La semplice verità è che, dietro un simile programma educativo, stanno due miti ideologici. Il primo è che ogni differenza è disuguaglianza e ogni disuguaglianza è un’ingiustizia, a cui porre rimedio a tutti i costi. In questa visione, la sola uguaglianza possibile è quella omologante e la sola giustizia possibile è quella che impone tale omologazione, sforzandosi di cancellare tutte le diversità e ponendo tute le opzioni sullo stesso piano.

Il secondo è che non bisogna condizionare in alcun modo i bambini, che tutto deve essere demandato alla loro futura libera scelta, senza distinguere tra i condizionamenti che sviluppano le loro attitudini naturali e quelli che le soffocano. Ad essere coerenti con questo dogma indimostrato, non si dovrebbe neppure insegnare a camminare, o a parlare una lingua invece che un’altra.  E anche questo, peraltro, sarebbe un condizionamento, forse il più pesante di tutti!

A completare il progetto dell’eterofobia manca ancora un tassello importante: l’eliminazione della figura paterna e di quella materna, esperienza  vissuta, in famiglia, di una ineliminabile differenza. A questo stiamo provvedendo noi, in Italia. Quest’anno, «nel modulo d’iscrizione alle scuole d’infanzia statali non c’è traccia  né di “padre” né di “madre”: si parla di genitore, punto e stop» (ivi). E a Milano quelle comunali stanno seguendo esattamente la stessa linea. E «dalli all’omofobo», se qualcuno ancora si arrischiasse a sussurrare che un uomo e una donna, uguali per dignità, sono però (per fortuna!) diversi… 

 

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