Senza categoria

Cercare Dio nelle periferie dell’esistenza

Loading

 

Solo da poco sappiamo che, nel suo intervento alle riunioni preliminari all’ultimo Conclave, l’allora card. Bergoglio aveva sottolineato che l’evangelizzazione richiede, da parte della Chiesa, lo sforzo «di uscire da se stessa» e di recarsi «verso le periferie non solo quelle geografiche ma anche leperiferie esistenziali». Perché, aveva aggiunto, quando la Chiesa non esce da se stessa per evangelizzare «diventa autoreferenzialee allora si ammala». Infatti, «la Chiesa, quando è autoreferenziale, senza rendersene conto, crede di avere luce propria; smette di essere il mysterium lunae», crede di essere essa stessa il sole e i suoi rappresentanti cadono nella terribile deformazione spirituale di «vivere per darsi gloria gli uni con gli altri».

In questo modo, però, essa diventa incapace di manifestare Gesù Cristo, lo tiene in un certo senso prigioniero: «Nell’Apocalisse Gesù dice che sta alla porta e bussa. Evidentemente il testo si riferisce al fatto che bussa da fuori la porta per entrare… Però penso che a volte Gesù bussi da dentro, perché lo lasciamo uscire. La Chiesa autoreferenziale pretende Gesù Cristo dentro di sé e non lo lascia uscire» («Avvenire» del 27 marzo 2013).

Quanto questo tema stia a cuore di papa Francesco lo evidenzia il fatto che poi lo ha ripreso, da pontefice, nella sua prima udienza generale, in piazza S. Pietro. In questa occasione ha ribadito l’urgenza, per i cristiani, di «imparare ad uscire da noi stessi per andare incontro agli altri, per andare verso le periferie dell’esistenza, per primi verso i nostri fratelli e sorelle, soprattutto i più lontani quelli che sono dimenticati, quelli che hanno più bisogno di comprensione e aiuto».

«Dio è apertura e accoglienza, fa pena» – ha aggiunto il Papa – «vedere a volte tante parrocchie chiuse». Poi ha esortato, «nei movimenti, nelle associazioni, ad uscire incontro agli altri, per portare la luce della nostra fede, uscire sempre, – ha detto – con amore e con la tenerezza di Dio, nel rispetto e nella pazienza, sapendo che noi mettiamo mani, piedi e cuore, ma poi è Dio che mette il resto» (www.ilmessaggero.it, 27 marzo 2013).

Siamo davanti a una prospettiva di fondo che, senza essere ancora un progetto, e meno ancora un programma, appare però in grado di rivoluzionare la nostra pastorale. «Uscire da noi stessi», dalle mura rassicuranti delle nostre chiese, dai confini del proprio gruppo ecclesiale, per andare a cercare gli altri nelle «periferie dell’esistenza», per lasciare a Cristo la possibilità di andarli a cercare là attraverso le nostre mani, i nostri piedi, il nostro cuore, sfidando l’estraneità di ambienti secolarizzati, o addirittura degradati dal peccato, dall’ignoranza, dalla miseria anche materiale.

Troppo spesso la Chiesa è ammalata di quella autoreferenzialità di cui parla papa Bergoglio. Parrocchie ridotte a “stazioni di servizio” per la celebrazione e il “consumo” di sacramenti – tante messe, tante prime comunioni, battesimi, matrimoni – , da dove non si esce con la soddisfazione di aver assolto un dovere religioso, e non per portare sul territorio, in famiglia, nell’ambiente di lavoro, la Buona Notizia che si è ricevuta. Anche perché forse non la si vive più come una vera “Buona Notizia”, ma come un insieme di riti a cui si è partecipato per abitudine. E, più in generale, una Chiesa incapace di ascoltare, di rimettersi in discussione, convinta di dover dare risposte su tutto e a tutti senza lasciare prima un adeguato spazio alle domande degli uomini e delle donne che in Chiesa non ci vanno mai.

Sono loro che bisogna andare a cercare, là dove si trovano. In quelle che il papa, felicemente, ha definito «le periferie dell’esistenza». Dio abita là, dove sembra del tutto assente, e ha il volto dei “lontani”.

Ho scritto queste cose in un libro del 2010, Maestri di umanità alla scuola di Cristo (Cittadella Editrice), e molti vescovi, sacerdoti e laici che lo hanno letto mi dicevano di essere d’accordo e di soffrire per questa situazione, ma di non essere in grado di cambiarla. Nella Chiesa, come in qualunque grande istituzione, non basta, infatti, la buona volontà dei singoli, è necessario rimuovere mentalità radicate, stili distorti consolidati, regole non scritte ma tiranniche, e per questo è necessaria un’azione corale. Un pontefice di grande levatura teologica e spirituale come Benedetto XVI ha avuto il coraggio di riconoscere che non aveva le forze per promuovere questa azione.

Il suo successore, oggi, sembra avere idee molto chiare e l’energia necessaria per farle valere. Ma non bisogna illudersi: senza il concorso di tutti neppure un papa bene intenzionato può rinnovare la Chiesa. Bisogna che ogni vescovo, ogni parroco, ogni diacono, ogni religioso e religiosa, ogni laico e laica, dia il proprio contributo per muoversi nella direzione che il sommo pontefice ci addita con coraggio. La posta in gioco è altissima. Perché se la Chiesa non esce “fuori” non riuscirà più a incontrare più gli uomini a cui è stata inviata. E se non incontra loro, non incontrerà neppure Dio.

Giuseppe Savagnone

 

 

{jcomments on}

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *