Senza categoria

Al di là della “buona scuola”

Loading

 

 

di Giuseppe Savagnone

 

Non possono non rallegrare l’unanimità e la passione che da settimane pervadono il corpo docente e quello studentesco nella protesta contro il disegno di legge sulla “buona scuola” proposto dal governo Renzi. Ed è facile prevedere che lo sciopero generale organizzato concordemente dai sindacati per il 5 maggio avrà un indice di adesione ben superiore a quelli del passato.

Rallegra di meno scoprire che le motivazioni di questo slancio collettivo si riducono, in molti, a un  grande “no” non solo a questo (e sarebbe giustificato), ma ad ogni cambiamento. Di riforme sbagliate la scuola in questi ultimi anni ne ha viste più di una e la sollevazione in corso per evitare che se ne faccia un’altra sarebbe di per sé  più che giustificata. Diventa sospetta, però, se, invece di additare vie migliori per realizzare un serio rinnovamento, viene motivata con slogan che riecheggiano acriticamente il vecchio.

Si rifiuta, giustamente, il modello aziendalistico a cui il disegno di legge si ispira, soprattutto là dove rafforza in modo inaccettabile i poteri del dirigente, trasformandolo in una specie di super manager, da cui gli insegnanti dipenderebbero in modo totale. Ma non si propone nulla per realizzare,  in modo diverso, l’obiettivo a cui la nuova normativa mira, che è il rilancio e l’effettiva attuazione del principio dell’autonomia dei singoli istituti, in vigore da anni, ma finora attuato in modo estremamente riduttivo.

Un principio (sancito da un governo di centrosinistra, quando questo termine aveva ancora un senso) secondo cui, invece di rientrare in un unico, immenso apparato burocratico, ogni scuola deve potersi dare una propria identità e mobilitare le proprie risorse in riferimento  alle esigenze del rispettivo territorio. In quest’ottica è la capacità di rispondere ai bisogni reali della collettività, e non l’essere gestito dallo Stato, a conferire il carattere di “pubblico”. Anche se allo Stato dovrebbe competere un’attenta vigilanza sul rispetto di questo criterio.

Sappiamo tutti che finora l’autonomia si è tristemente ridotta all’elaborazione di un eterogeneo pacchetto di iniziative, sotto l’etichetta del “pof”, del tutto eterogenee e incapaci di conferire a un istituto una sua precisa fisionomia culturale e didattica. L’idea di consentire al dirigente di costruirsi il proprio corpo docente è nata  in vista del rafforzamento di questa  fisonomia. L’errore è che si pensa di poterlo fare solo dall’alto. Ma per contestare questo mezzo sbagliato oggi, invece di indicare  percorsi alternativi democratici (e più impegnativi), vengono sventolati  slogan che inneggiano, inconsapevolmente, al vecchio statalismo centralistico.

Basta osservare, per rendersene conto, la sistematica confusione tra scuola “pubblica” e scuola “statale”, che aleggia negli infuocati proclami di questi giorni. Una confusione che ha le sue ragioni storiche: l’Italia come Stato unitario è nata in una condizione di tale debolezza del suo tessuto civile che il solo modo di tenerla insieme fu, fin dall’inizio, puntare sull’elefantiasi dell’apparato ministeriale e burocratico. Da qui un centralismo spesso soffocante, a cui la sola alternativa appariva (e all’inizio forse era davvero) il caos. In altri Paesi lo spirito pubblico non ha avuto bisogno di questo puntello e si è realizzato nella società civile. Là pubblico è ogni servizio finalizzato al bene comune e, come tale, riconosciuto e appoggiato finanziariamente dallo Stato, anche se non gestito dai suoi organi ministeriali. E là – parliamo di Paesi con un forte senso dello Stato, come ad esempio la Francia! –  viene considerata pubblica anche la scuola paritaria, che spesso funziona meglio, come scuola pubblica, di quella statale.

Continuare ad appellarsi allo Stato quale unico garante della serietà dell’istruzione significa di fatto non ammettere l’autonomia. E questo può essere anche più facile, perché essa comporterebbe l’effettiva partecipazione di tutti – in primo luogo dei docenti – alla vita dell’istituto e la loro responsabilità nel determinare, attraverso un permanente confronto,  le linee culturali ed educative, oltre che le scelte economiche, di ogni singolo istituto.

E questo riporta al tema della qualità del corpo insegnante. Nel disegno di legge è scomparso uno dei punti qualificanti della proposta inziale del governo, quello relativo alla progressione di stipendio per merito. Già allora c’era stata una levata di scudi generale, e non solo per le modalità (effettivamente del tutto vaghe e inconsistenti) con cui questo merito doveva essere determinato,  ma contro l’idea stessa che alcuni venissero considerati più “bravi” di altri.  Ed anche nei confronti di ciò che resta della valutazione del merito nel disegno di legge, il rifiuto non colpisce solo l’attribuzione esclusiva della valutazione al dirigente (che è sbagliata), ma la valutazione in quanto tale. Prevale, ancora una volta, la rivendicazione di una falsa uguaglianza, che elude il problema della responsabilità personale del docente e lascia la scuola in balìa dei puri meccanismi burocratici di anzianità. Una logica che può solo favorire il ristagno e la mediocrità culturale, scoraggiando chi vuole spendere le sue capacità e il suo impegno per dare di più ai suoi studenti.

Che si faccia, dunque, questo sciopero del 5 maggio, perché davvero il progetto del governo è inadeguato. Ma che si faccia proponendo una scuola capace di offrire di più perché  chiede di più a tutti. Una scuola  che non sia, come l’hegeliana “notte in cui tutte le vacche sono nere”, nemica delle differenze. Una scuola policentrica e responsabile, nelle diverse situazioni, delle proprie scelte. Per andare al di là, e non fermarsi al di qua, del progetto renziano della “buona scuola”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *