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Ritorno alle virtù per sconfiggere il coronavirus

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È urgente una maturazione etica

Il coronavirus ci chiede di essere virtuosi. O meglio – in un contesto culturale come il nostro, in cui delle virtù da molto tempo si parla solo per farsene beffe –, di riscoprire l’importanza di esserlo.

Può sembrare strano, ma è il messaggio che emerge dalla drammatica escalation di questa epidemia e, soprattutto, dalle reazioni degli italiani all’emergenza. Perché proprio ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi ci costringe a prendere atto che, senza una maturazione etica, che consenta ad ognuno di distinguere il bene dal male nelle situazioni concrete e lo disponga ad agire di conseguenza, una società non solo non è in grado di vivere in modo veramente umano – questo purtroppo avveniva già prima del virus, anche se veniva nascosto da un’apparente normalità –, ma, nei momenti di prova, com’è quello attuale, non riesce neppure a sopravvivere.

L’attualità delle virtù

Perché questo sono le virtù: non la repressione dei nostri desideri; non la moralistica sottomissione a regole convenzionali – come una loro corrente caricatura vorrebbe far credere –, ma disposizioni interiori che plasmano il modo di essere di una persona e la portano a comportarsi spontaneamente in modo ragionevole, degno della sua umanità, consentendole sia di realizzarsi che di contribuire efficacemente alla vita buona delle comunità a cui appartiene.

Basta leggere i giornali per rendersi conto che la grande minaccia contro cui ormai da molti giorni le autorità e gli esperti sono disperatamente mobilitati non è rappresentata solo dal coronavirus in quanto tale, ma dalla superficialità e dall’irresponsabilità di una parte della popolazione, che non sembra neppure rendersi conto delle conseguenze devastanti di certi suoi comportamenti.

Comportamenti irresponsabili

È stato possibile, così, che tanti, per non rinunziare alle proprie abitudini, abbiano ostinatamente disatteso l’invito pressante a non creare assembramenti e abbiano tranquillamente continuato ad affollarsi nei locali della movida, sulle spiagge e perfino nelle stazioni sciistiche. Che si siano ancora organizzate grandi feste private, in cui in realtà l’invitato principale era il virus, e si sia addirittura deciso di darsi allo jogging – mai praticato prima! –, contravvenendo alle reiterate raccomandazioni di non uscire di casa. Per non parlare delle migliaia di persone che, apprendendo da una imperdonabile fuga di notizie dell’imminenza del decreto che vietava di abbandonare la zona rossa, si sono riversate sui treni per ritornare alle loro regioni di origine, portando in regalo il virus alle proprie famiglia – particolarmente grati sono stati i nonni – e a città e paesi che fino ad allora ne erano stati relativamente immuni.

Si è evidenziato, così, un vuoto di educazione civica che, a sua volta, ha le sue radici in una carenza di senso morale e che ha indotto molti ad anteporre i propri interessi al rispetto per gli altri e alle esigenze del bene comune.

Il vuoto etico c’era già

Il coronavirus ha portato alla luce, in realtà, il frutto di decenni di cultura televisiva improntata alle logiche del successo, del guadagno, dell’immagine, che hanno fatto crescere intere generazioni all’insegna del “prima io”, dilatato poi in forme di privato allargato quando il tornaconto dell’individuo coincideva con quello collettivo, ma sempre a prescindere da ogni sforzo di discernimento tra il bene e il male.

E del resto una certa ideologia “progressista” aveva da tempo provveduto a combattere e in parte a liquidare, come bieca eredità del moralismo cattolico, l’dea che vi siano davvero un bene e un male in sé, sottolineando piuttosto il primato assoluto della coscienza del singolo, sostanzialmente insindacabile e sottratta ad ogni criterio oggettivo di valutazione.

È andata in questo senso una sistematica sottolineatura della irrinunciabilità dei diritti, nel totale silenzio sui doveri. E la conseguente dissoluzione del senso di appartenenza alle comunità strutturalmente irriducibili a società per azioni – perché dotate di propri fini verso cui tutti dovrebbero sentirsi responsabili –, come la famiglia e la nazione.

Essere virtuosi senza etichette

È con questa libertà senza responsabilità, fedele alleata del coronavirus, che oggi si stanno battendo le autorità, i medici, gli infermieri, i quali  in questa situazione dimostrano invece, per fortuna – soprattutto il personale sanitario impegnato nelle zone più duramente colpite –, che le virtù esistono ancora.

Con la precisazione che, per essere virtuosi, nel senso autentico del termine, non si richiede alcuna etichetta, alcuna professione di grandi princìpi, religiosi o laici, ma semplicemente quella maturità umana che spinge una persona a fare fino in fondo quello che è giusto, anche se costa sacrificio e comporta dei seri rischi.

Il virus sta, così, evidenziando l’importanza, al di là della deriva individualistica della nostra cultura, del ritorno ad un’etica della responsabilità, che garantisca l’equilibrio dei singoli e il loro corretto rapporto con la comunità.

L’ombra dell’autoritarismo

Senza un recupero di questo intimo senso di responsabilità, proprio la libertà – quella vera – potrebbe essere messa in pericolo. Non per caso la soluzione che da più parti in questo momento viene proposta, per porre un freno al virus, è il ricorso a misure restrittive e coercitive sempre più rigide e soffocanti, a sanzioni più pesanti, all’intervento dell’esercito. Se la gente non capisce da sola che le sue scelte non riguardano solo chi le fa, più o meno follemente, ma anche gli altri – tutti gli altri – , viene spontaneo ipotizzare che la sola via per impedire il caos sia il ricorso alla forza.

Ma il rischio che così si corre è che, a un modo sbagliato di concepire e di esercitare i diritti, si risponda limitando, e perfino sospendendo, i diritti come tali. Che alla scomposta trasgressione delle direttive dell’autorità si pretenda di rimediare con il ricorso all’autoritarismo. Perciò qualcuno, magari esagerando, evoca già dei pericoli incombenti sulla democrazia e rivendica il valore del dissenso e della protesta, anche nel tempo del coronavirus incombente.

Un modo fazioso di fare opposizione

Rivendicazione ineccepibile, purché chi si fa portatore di questo dissenso sappia andare oltre le logiche di parte di questo o quel partito e cerchi di contribuire, anche attraverso le sue critiche, al miglioramento di ciò che di positivo si sta facendo e non una pura e semplice delegittimazione del governo.

E che qualcosa di buono si stia facendo, sia pur tra mille incertezze ed errori, lo  dimostra l’apprezzamento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e il fatto che tutti gli altri paesi, dopo un’iniziale resistenza, stanno seguendo la stesa strada. Eppure dall’inizio di questa crisi i rappresentanti dell’opposizione e i giornali che fanno capo ad essi non hanno fatto passare giorno senza demonizzare la persona e le scelte di Giuseppe Conte, non solo denunziando i limiti della sua azione (che ci sono davvero), ma attaccandolo prima perché chiudeva le scuole e i ristoranti, poi perché non chiudeva abbastanza, e così via.

Non è un modo virtuoso di intendere la dialettica democratica, che deve sempre fondarsi su un reciproco riconoscimento e sulla leale cooperazione di governo ed opposizione in vista del bene comune. L’unità è un valore decisivo nei momenti di emergenza, ed è molto importante anche a questo livello un maggiore senso di responsabilità da parte di tutti.

Uscire da una perversa alternativa, per essere migliori

Il solo modo di uscire dalla perversa alternativa fra il caos e l’autoritarismo è dunque il recupero di una dimensione etica che il coronavirus ci costringe oggi a riscoprire e a mettere alla base della nostra vita privata e pubblica. Questo potrebbe essere un guadagno anche rispetto al recente passato. Siamo tutti sempre più consapevoli che dopo questa epidemia nulla sarà più come prima. Ci si permetta di sperare che tra tanti cambiamenti indesiderati ce ne sia almeno uno – il ritorno delle virtù – che ci abbia reso migliori.

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