Fra Timothy Radcliffe al clero di Dublino, dicembre 2009
«Quella attuale è una crisi tremenda per la Chiesa… È… molto più che la crisi delle violenze sessuali perpetrate su dei minori da parte di alcuni sacerdoti e religiosi. E’ la crisi di tutta la concezione del sacerdozio e della vita religiosa» nella Chiesa: sono nette le parole che Timothy RadcIiffe, già maestro generale dei domenicani, usa per rileggere i recenti avvenimenti che hanno colpito la Chiesa, quella irlandese in particolare. Lo fa rivolgendosi ai sacerdoti della diocesi di Dublino durante un ritiro spirituale dello scorso dicembre. «E una crisi tremenda per la Chiesa, ma reca con sé una promessa e una benedizione». Infatti, i tanti e complessi fattori in gioco sono riconducibili a un modello di «potere che si trova alla radice della crisi delle violenze sessuali: la violenza del potere esercitata ai danni dei piccoli e dei vulnerabili». Ma questo non è «il potere di Gesù, che era mite e umile di cuore». Pertanto, conclude il domenicano, «non avremo una Chiesa sicura per i giovani finché non… diventeremo di nuovo una Chiesa umile in cui siamo tutti pari, figli dello stesso Padre».
E’ per me un grande privilegio, oltre che un onore, esser qui con voi oggi. Avevo già avuto il piacere, un paio d’anni fa, di guidare un ritiro per il clero dell’arcidiocesi, e sono felice di essere di nuovo con voi. È un periodo estremamente duro per la Chiesa sia in Inghilterra sia in Irlanda, ma per voi in questi giorni lo è ancor di più, ed è questo che vi spinge· a riunirvi in preghiera.
Mi è stato detto che il tema di questi giorni è: «Venite in disparte e riposatevi un po’». (cf. Mc 6,31). Perciò ho pensato che avrei fatto una meditazione su quel brano di Matteo tutto dedicato al tema del riposo: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,28-30). E quindi spero che si tratterà di una chiacchierata riposante; vi chiedo solo il favore, se schiacciate un sonnellino, di non russare!
Buona crisi
Gesù dice ai suoi discepoli: «Venite a me». Si tratta di un invito all’intimità. I discepoli vengono invitati a riposare nella sua amicizia. Ed è questo che vorrei approfondire un poco: come, in un periodo così duro, possiamo riposarci nell’amicizia del Signore.
E una crisi terribile per la Chiesa, non solo in Irlanda ma anche in Gran Bretagna, in America e in Australia. Ma sono fermamente convinto – e lo dissi nel Corso di quel ritiro – che la crisi è una possibilità che ci viene data per avvicinarci a Dio. La peggior crisi mai conosciuta da Israele fu la distruzione del Tempio, la fine della monarchia e l’esilio a Babilonia, nel VI secolo a.C. Israele perdette tutto quello che costituiva la sua identità: il culto, la nazione, il re. Ma scopri così di avere Dio più vicino di quanto non lo fosse mai stato. Dio era presente nella legge, sulle-loro bocche e nei loro cuori, ovunque fossero, per quanto lontani da Gerusalemme.
Mentre stavo preparando queste riflessioni, lunedì scorso, all’ora media abbiamo cantato: «La mia delizia sarà nei tuoi comandi, che io amo. Alzerò le mani verso i tuoi comandi che amo, mediterò i tuoi decreti» (Sal 119,47-48). Perdettero Dio solo per riceverlo più vicino di quanto potessero immaginarsi.
E poi comparve quell’uomo scomodo, Gesù, a infrangere l’amata legge, a mangiare nel giorno di sabato, a toccare gli impuri, ad abitare con le prostitute. Sembrava che cercasse di fare a pezzi tutto quello che essi amavano, il modo stesso della presenza di Dio nelle loro vite. Ma fu solo perché Dio desiderava essere presente in un modo ancor più intimo, come uno di noi, col volto di un uomo. E a ogni eucaristia ci ricordiamo di come fu necessario che lo perdessimo. Ma, di nuovo, solo per riceverlo ancor più da vicino, non come un uomo fra noi ma come la nostra stessa vita.
Questa ultima crisi è un tempo che ci viene dato per scoprire Gesù ancor più vicino a noi di quanto avessimo mai immaginato. E una crisi causata dalle mancanze che noi stessi abbiamo compiuto in quanto Chiesa, ma Dio può farne una benedizione se la viviamo nella fede. E dunque possiamo stare tranquilli. Dopo avervi insistito sopra come faccio di solito, un mio confratello americano mi ha fatto una maglietta con su scritto «Buona crisi». Volevo indossarla per voi, oggi, ma si è inopinatamente ristretta e non riesco più a entrarci dentro!
Quando ero un giovane studente alla Blackfriars, la comunità domenicana di Oxford, il convento fu attaccato da un gruppo di destra, irritato per il nostro impegno su tematiche di sinistra. In due diverse notti piazzarono delle piccole cariche esplosive, che fecero un sacco di rumore e ruppero qualche finestra. Tutta la comunità venne tirata giù dal letto, tranne il priore. Mi divertii parecchio a scoprire l’abbigliamento notturno dei miei confratelli: chi portava il pigiama, chi i boxer, chi niente… Arrivarono la polizia e i vigili del fuoco. Mi decisi infine ad andare a svegliare il priore. «Svegliati, Fergus, il convento è stato attaccato!». «Ci sono dei morti?». «No». «Ci sono dei feriti?». «No». «Bene, allora lasciami dormire e ci penseremo domattina». Fu la mia prima lezione di leadership! Cristo è il vincitore. Possiamo stare tranquilli, qualsiasi cosa accada.
Dunque la domanda che ci dobbiamo porre oggi è: in che modo poter vivere questa crisi come un tempo di benedizione e di vita nuova? Teniamo davanti agli occhi quel che dice Gesù, e vediamo cosa ci suggerisce: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro».
Nelle due scorse settimane, forse molti di voi si sono sentiti piuttosto affaticati e oppressi. Forse avete avvertito sulle spalle il peso dello scandalo delle violenze e il fatto che molti vescovi per decenni hanno mancato di affrontarlo. Forse vi siete sentiti con le spalle al muro per la rabbia della stampa e per quella di alcuni parrocchiani, e – cosa ancor peggiore – per la loro triste e partecipe delusione. Ovunque abbia tenuto delle conferenze in Inghilterra in questi giorni, ne sono ritornato estenuato a motivo della rabbia contro la Chiesa.
«Sei stato tu!»
Come possiamo portare tutto questo al Signore, così che egli possa toglierci un carico così pesante? Bene, egli dice: «Venite a me voi tutti che siete così gravati». Voi tutti. Significa che andiamo a lui insieme a tutti quelli che hanno un peso sulle spalle. Dobbiamo andare a lui insieme a quelli che portano il carico più pesante di tutti: quanti hanno subito le violenze. Se dobbiamo avvicinarci ancor più a Gesù, allora dobbiamo aiutarli a portare il loro carico. Sembrerà per noi un peso ulteriore, ma alla fine ci toglierà dalle spalle anche il nostro carico.
Devo ammettere che questo mi fa paura. Temo la rabbia e le ingiurie di quelli ai quali abbiamo inferto violenza. Quando li sento parlare alla radio o alla televisione, riesco a stento a resistere: voglio spegnere. Ma l’amicizia con il Signore comporta che, in qualche modo, dobbiamo vacillare insieme, portando il loro peso, la loro rabbia e le loro ingiurie; la delusione e la sofferenza del popolo di Dio. E persino il gravoso peso dei nostri confratelli che hanno esercitato violenze su minori. Dobbiamo aiutarli a portare il loro peso. Se ci caricheremo sulle spalle i pesi gli uni degli altri, allora il Signore ci darà ristoro.
Nel Vangelo di Luca, durante l’ultima cena, Gesù dice ai disccpoli: «Perché io vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra gli empi. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo compimento» (Lu 22,37).
Se siamo chiamati a riposare nell’amicizia di Gesù, è segno che probabilmente ci ritroviamo nell’elenco dei trasgressori. Una fantastica suora domenicana irlandese mi ha riferito di essere andata a una grande riunione di famiglia, con centinaia di parenti. E che c’era un grande albero genealogico, e sotto a ciascun nome la lista dei discendenti. E che sotto il suo nome e sotto quello di un cugino prete c’era un punto interrogativo. Come a dire: «Non sappiamo cosa hai combinato… ».
Una volta, a New York, il padre provinciale mi chiese d’incontrare un uomo che dichiarava di aver subito violenza da un domenicano morto da tempo. Ho passato con lui e con sua moglie un’ora d’inferno, poiché in sostanza gridava: «Sei stato tu». Eravamo esattamente coetanei. Ma all’epoca dei fatti non avevo sentito nemmeno parlare dei domenicani. Fui tentato di gridare più forte: «Questo non ha niente a che fare con me». E c’è la tentazione di aggrapparsi a dati più consolanti, come le indagini svolte in Inghilterra e negli Stati Uniti, che mostrano che in effetti gli altri ecclesiastici tendono a trasgredire più spesso dei sacerdoti cattolici, sebbene tutti sparino contro di noi.
Lo scrollarci di dosso il gravoso peso del sentirsi giusti ci consentirà di riposare. E così faticoso dover fingere di essere santi ventiquattro ore al giorno. I santi spesso raccontano quali orribili peccatori sono, e questa mi è sembrata spesso una cosa folle! Che improntitudine! Ma naturalmente, sapevano di essere solidali con la massa dei peccatori comuni.
L’arcivescovo Rembert Weakland, che fu costretto a dimettersi a causa di uno scandalo a base di sesso e di soldi, scrive nella sua autobiografia quale genere di sollievo la crisi gli aveva donato. Osserva che santa Teresa di Lisieux «una volta scrisse che voleva presentarsi davanti a Dio a mani vuote. Per quanto mi riguarda, ora penso di sapere che cosa intendesse con quell’espressione. Ho imparato quanto la mia stessa natura umana è fragile, quanto ho bisogno dell’abbraccio amorevole di Dio» (A Pilgrim in a Pilgrim Church: Memoirs of a Catholic Archbishop, Cambridge 2009, 5).
H.G. Wells scrisse un breve racconto sul giudizio universale. Un formidabile peccatore, il re Acab, antico avversario di Elia, sta seduto sul palmo della mano di Dio per essere sottoposto a giudizio. E strilla e cerca di fuggire mentre l’angelo della giustizia dà lettura di tutti i suoi peccati, finché in conclusione si rifugia nella manica di Dio, dove trova riparo. Poi giunge un santo profeta, forse Elia, e siede anch’egli nel palmo della mano di Dio, e si dispone ad ascoltare compiaciuto la lettura delle sue buone opere. Ed ecco che l’angelo della giustizia tira fuori delle cose disgustose.
«Meno di dieci secondi dopo – prosegue il racconto – anche il Santo stava correndo avanti e indietro sul grande palmo della mano di Dio. Meno di dieci secondi. E alla fine anch’egli gridò, sopraffatto da quell’impietosa e cinica esposizione (dell’angelo della giustizia), e lui pure fuggì, alla stessa maniera del Malvagio, nell’ombra della manica. E i due sedevano fianco a fianco, spogliati dei loro fantasmi, all’ombra della tunica della carità di Dio, come fratelli. E anch’io fuggii là a mia volta». Portiamo dunque i fardelli gli uni degli altri, delle vittime, di chi ha perpetrato le violenze, del popolo di Dio. Abbandoniamo il gravoso peso con cui tentiamo di puntellare la nostra rettitudine e cerchiamo ristoro dentro la manica di Dio, insieme a tutte le altre povere canaglie.
«Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me (…). Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero». Il giogo di cui parla Gesù è la sua Legge. Nell’Antico Testamento (cf. Sir 51,26) e nel giudaismo rabbinico, era la Torah il giogo cui venivamo vincolati. E il contrasto è nei confronti dei farisei, che legano «fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23,4). Diversamente da quello dei farisei, il giogo di Gesù è leggero.
Se pensiamo alla nostra stessa amata Chiesa negli ultimi secoli, sembra che siamo stati più simili ai farisei, perché abbiamo posto dei pesanti fardelli sulle spalle della gente. Spesso questi carichi sono stati associati al comportamento sessuale. Abbiamo detto alle famiglie che hanno molti figli che non è consentito alcun genere di contraccezione, e ai giovani che non possono permettersi di sposarsi che il loro comportamento sessuale dev’essere posto sotto stretto controllo – un bacio non duri più di dieci secondi – e alle persone omosessuali che nulla è permesso e che devono vergognarsi della loro sessualità.
L’insufficienza della morale del gendarme
Ora, a prescindere da quanto di giusto o di sbagliato vi sia nell’insegnamento della Chiesa, ciò è stato percepito dai nostri cristiani come un peso gravoso. Ed ecco che ora scoprono che i preti che li hanno caricati in questo modo hanno peccato in materia sessuale molto più gravemente. Alla stregua dei farisei, abbiamo predicato bene e praticato male. Potete immaginare la rabbia di una donna che ha avuto un bambino dopo l’altro e non ne può più, o di un giovane omosessuale, quando sentono quello che dei preti, per quanto pochi, sono stati capaci eli combinare!
E questa rabbia è ulteriormente esasperata dal fatto che la pedofilia è diventata il peccato sessuale. In una società laica come quella inglese, non ce ne sono davvero più altri. Al programma della BBC The Moral Maze (Il labirinto morale; ndt) la scorsa settimana, si discuteva di una donna nota come Belle de jaur, che aveva gettato alle ortiche la sua laurea per diventare una prostituta part-time. La maggior parte degli intervenuti non riusciva a trovarci niente di sbagliato. Si trattava di un rapporto contrattuale, nient’altro. Col nostro corpo possiamo fare quel che vogliamo. E il sadomasochismo è solo un pezzo della ricca galleria delle esperienze sessuali. Per qualche strana ragione pare che attragga particolarmente gli inglesi delle classi abbienti.
In tal modo qualsiasi inquietudine relativa al comportamento sessuale, il senso diffuso che c’è qualcosa di sbagliato, tutta quest’ansia si focalizza sul pedofilo. E lui (o lei) il grande peccatore sessuale, l’unico peccatore. Non intendo in alcun modo minimizzare la gravità della violenza, che è indubitabilmente orrenda e ingiustificabile, ma aiutare a capire il livello e l’intensità della rabbia. Ho l’impressione che la violenza sessuale nei confronti dei minori sia il parafulmine su cui si scaricano tutte le nostre ansie a proposito della sessualità e di come essa sembra ormai separata da qualsiasi idea morale.
Come possiamo dunque togliere il peso dalle spalle nostre e altrui? In che modo Gesù ci insegna a condividere il suo giogo, che è dolce e leggero? Dobbiamo, naturalmente, andare verso gli altri e verso noi stessi con benevolenza e compassione. Ritengo che sia quanto fa la grande maggioranza dei preti di questa diocesi. Quantunque il mio confratello irlandese, Herbert McCabe) mi abbia detto che una volta è andato a confessarsi a Dublino e ha rimediato una formidabile lavata di capo. Allora è uscito dal confessionale, ha detto la sua penitenza, ha aspettato che il sacerdote uscisse fuori e gli ha rifilato una strigliata ancor più aspra. Se qualcuno dei presenti, dopo la conferenza, vuole venire a confessarsi, sono disponibile!
Ma ci occorre qualcosa di molto più radicale della benevolenza. Ci occorre una rinnovata comprensione di ciò che significa portare il giogo dei comandamenti di Gesù. Dobbiamo fare i conti con l’idea complessiva che la morale è principalmente una questione di proibizioni e di obblighi. L’idea che essere buoni significa sottomettere la propria volontà al grande Gendarme che è nei cieli è vecchia e sbagliata. Alcuni danno la colpa a Ockham, ma lungi da me, domenicano, puntare il dito contro uno dei mie fratelli francescani!
Credo che questa visione della morale abbia certamente preso piede con l’Illuminismo e la sua cultura del controllo. L’Illuminismo vedeva il mondo e la società come un meccanismo da tenere sotto controllo, alla stregua di un orologio. E le leggi morali corrispondevano alla volontà dell’orologiaio. Essere buoni significava sottomettersi alla volontà arbitraria di Dio e dello stato. Significava distinguere quello che ci è permesso e quello che ci è proibito.
Dobbiamo sollevare tutti, compresi noi stessi, da questo gravoso peso del Gendarme celeste. I Dieci comandamenti non vennero originariamente visti, né presso Israele né dalla Chiesa delle origini, come la volontà arbitraria di Dio. Se lo facessimo qualcuno di noi potrebbe solidarizzare con Bertrand Russel, quando disse che andavano considerati come un questionario d’esame: nessun candidato riesce ad arrivare a sei!
Durante la Seconda guerra mondiale era cappellano militare un domenicano polacco. La vigilia della battaglia di Montecassino apri la tenda e vide, allarmato, che migliaia di soldati polacchi volevano confessarsi. Cosa poteva fare? Vi ricordo che l’assoluzione generale non era stata ancora inventata. Così li fece sdraiare tutti a faccia in giù, in modo che nessuno di loro potesse vedere gli altri. E disse: «Passeremo in rassegna uno dopo l’altro i Dieci comandamenti. Se ne avete infranto uno, muovete il piede sinistro e col destro indicate quante volte».
L’estate scorsa ho avuto un interessante colloquio col rabbino capo di Gran Bretagna, Jonathan Sachs. Mi ha detto che la Torah non contiene la parola «obbedire», nel senso di sottomettere la propria volontà a un controllo esterno. Quando è stato fondato lo Stato d’Israele) dopo l’ultima Guerra mondiale, è stato necessario prendere in prestito una parola dall’aramaico per «obbedire» nel senso moderno suddetto.
Invece la parola ebraica che in genere traduciamo con «obbedire» significa «ascoltare». I comandamenti non sono una costrizione dall’esterno. Sono sempre un invito a entrare in una relazione personale con Dio. «lo sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,2-3). I Dieci comandamenti significano condividere l’amicizia e la libertà di Dio. Sono stati dati a Mosè, al quale Dio ha parlato come a un amico.
E la stessa cosa con Gesù. Gesù rivela il suo comandamento nuovo ai discepoli la notte prima di morire, nel preciso momento in cui li chiama amici. «Vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).
Il criterio dell’amicizia
Questo spiega qualcosa di realmente sconcertante a proposito di Gesù. Ha mangiato e ha bevuto con le prostitute e con gli esattori delle tasse; i suoi amici avevano una pessima reputazione. Non ha aspettato il loro pentimento per invitarli a sedere a mensa. Non ha detto a Giovanna, moglie di Cuza: «Guarda, dopo che sarai rimasta lontana dalla strada per una settimana, potrai venire alla mia festa». Li ha accettati così com’erano. E ancora, ha proclamato il Discorso della montagna. Ha comandato ai suoi discepoli di porgere l’altra guancia, di amare i propri nemici, di non adirarsi, di essere perfetti come il nostro Padre celeste è perfetto. E molto esigente.
Come ha potuto fare entrambe le cose, essere incondizionatamente accogliente, apparentemente indulgente, ed estremamente esigente? Il criterio è stato quello dell’amicizia di Dio. E solo in un esplicito contesto di amicizia che si può dare un insegnamento morale.
Tutto ciò ha delle conseguenze radicali sul modo in cui la Chiesa insegna la morale. Quello che abbiamo da dire è capace di senso solo nel contesto dell’amicizia. Se vogliamo parlare di problemi come l’aborto, il divorzio e il secondo matrimonio, o la questione omosessuale, dobbiamo cercare di essere amici di queste persone. Dobbiamo accettare la loro ospitalità e invitarli nelle nostre case.
Quando ero studente a Parigi, il card. Daniélou morì su un pianerottolo, mentre andava a far visita a una prostituta. La stampa si riempì di insinuazioni piccanti. Ma chiunque conoscesse il cardinale sapeva che era un sant’uomo che stava esercitando la sua cura pastorale verso i disprezzati, come aveva sempre fatto. Stava offrendo amicizia a una persona disprezzata.
Ecco che il giogo di Gesù è dolce e il suo peso è leggero perché è l’offerta della sua amicizia, e può essere comunicato solo nell’amicizia. Quel che c’è da dire, senza dubbio, può venire alla luce solo nell’amicizia. Solo passo dopo passo, condividendo la fatica e la ricerca, riusciremo a dire la parola giusta. E tale parola non può mai essere un peso, ma solo un dono.
E qualcosa di estremamente difficile da comunicare ai mass media. Loro vogliono dichiarazioni belle chiare, meglio se esprimono un «non si deve». Ma i giornali sono un tipico prodotto dell’Illuminismo e della sua cultura del controllo. E questo ci porta su un’altra delle strade attraverso le quali Gesù ci insegna come riposare ed essere in pace.
«[perché io] sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita». L’amicizia con Gesù, l’intimità, comporta che s’impari a essere miti e umili di cuore. E’ allora che troveremo ristoro per la nostra vita. Ma non sono così sicuro che, pensando alla Chiesa cattolica, la prima cosa che ci viene in mente sia l’umiltà. Penso anzi che non sia la caratteristica di nessuna delle Chiese che conosco.
Ho partecipato una volta a un incontro ecumenico a Bari e un importantissimo arcivescovo di un’altra Chiesa mi è venuto vicino, sontuosamente vestito. E mi ha chiesto quale titolo portavo: Sua serenità? Sua beatitudine? Sua magnificenza? Mi è scappata un’impertinenza, e gli ho detto che quando i confratelli volevano essere molto formali, potevano chiamarmi «fra». Allora mi ha chiesto quali fossero i segni della mia autorità di maestro dell’Ordine. Avevo un copricapo particolare? Una croce? E quando gli ho risposto che non ne avevo nessuno se ne è andato via, pensando che chiaramente non valeva la pena di star lì a parlare con me.
Questione di potere
Sono persuaso che l’intera crisi della sessualità sia profondamente legata al potere e al modo in cui il potere funziona nella Chiesa a tutti i livelli, dal Vaticano al sacrestano della parrocchia. Non è il potere di Gesù, che era mite e umile eli cuore. Ogni istituzione umana ruota intorno all’uso del potere. Credo fermamente che con la cultura illuminista del controllo la nostra ossessione per il potere si sia aggravata. Charles M. Taylor, nel suo splendido A Seeular Age (Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts 2007, trad. it. L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009), descrive l’evoluzione delle pretese di tutti i maggiori poteri. Vediamo l’ascesa delle monarchie assolute in Inghilterra, Francia e Spagna e lo sviluppo dello stato centralizzato. I poveri non sono più visti come nostri fratelli e sorelle in Cristo e diventano una minaccia. Devono essere rinchiusi, come i malati mentali. Gli eserciti diventano permanenti e si costituiscono le forze di polizia, mentre esplode l’attività legislativa.
La Chiesa, purtroppo, è spesso stata contagiata dalla medesima cultura del controllo. Mi torna in mente un vescovo che mi disse: «Da me in giù, nella diocesi sono tutti uguali». E un altro, nel giorno della sua consacrazione, promise che avrebbe servito la diocesi con scettro di ferro!
Ho il sospetto che tutto questo sia accaduto anche perché la Chiesa per secoli ha dovuto combattere per difendersi dai poteri di questo mondo, che vorrebbero prevalere contro di essa. Dall’Impero romano agli imperi comunisti, passando per l’Impero britannico e per tutti gli altri, la Chiesa ha lottato per la sua stessa sopravvivenza, e spesso si è ritrovata segnata dalla medesima cultura del potere. Quella medesima cultura del potere che si trova alla radice della crisi delle violenze sessuali: la violenza del potere esercitata ai danni dei piccoli e dei vulnerabili.
Non avremo una Chiesa sicura per i giovani finché non impareremo da Cristo e diventeremo di nuovo una Chiesa ,umile in cui siamo tutti pari, figli dello stesso Padre. E allora che Cristo darà ristoro alla nostra vita.
Nell’ufficio delle letture della prima settimana d’Avvento, c’era una splendida pagina d’Isaia. Era il frutto dell’esperienza della crisi e dell’umiliazione attraversate in quel tempo dal suo popolo, che però riceve per tramite d’Isaia la promessa che tornerà a condividere la vita e la pace di Dio: «Poiché il Signore degli eserciti ha un giorno contro ogni superbo e altero, contro chiunque si innalza, per abbatterlo, contro tutti i cedri del Libano ed elevati, contro tutte le querce del Basan, contro tutti gli alti monti, contro tutti i colli elevati, contro ogni torre eccelsa, contro ogni muro fortificato» (Is 2,12-15). «Allora creerà il Signore su ogni punto del monte Sion e su tutti i luoghi delle sue assemblee una nube di fumo durante il giorno e un bagliore di fuoco fiammeggiante durante la notte, perché la gloria del Signore sarà sopra ogni cosa come protezione, come una tenda sarà ombra contro il caldo di giorno e rifugio e riparo contro la bufera e contro la pioggia» (Is 4,5-6).
Quella attuale è una crisi tremenda per la Chiesa, ma reca con ,sé, se l’accettiamo, una promessa e una benedizione. E molto più che la crisi delle violenze sessuali perpetrate, su dei minori da parte di alcuni sacerdoti e religiosi. E la crisi di tutta la concezione del sacerdozio e della vita religiosa. La Rifonna fu una risposta alla crisi del tardo Medioevo. Quel clero era del tutto incapace di rapportarsi al nuovo mondo. Era ampiamente analfabeta, a stento capace di celebrare la messa, spesso aveva delle concubine. Anche i religiosi godevano di dubbia fama. Un detto spagnolo affermava: «Stai attento ai gesuiti se ci tieni al portafogli, e stai attento ai frati se ci tieni alla moglie». Quindi potete star sicuri per vostri portàfogli!
Riposare in Dio
Quella crisi ha portato a un eccezionale rinnovamento del sacerdozio: una nuova spiritualità, nuovi seminari, una formazione teologica più approfondita, una nuova disciplina. Ma spesso ha dato l’impressione che fossimo degli eunuchi sessuali, degli esseri asessuati. I bambini si sono domandati se le suore avessero le gambe, sotto le lunghe sottane, o se invece volteggiassero su rotelle. Una volta in cui stavo predicando all’aperto, in piedi su una cassa di sapone, ho sentito un bambino domandare alla madre, con gran spasso del mio uditorio: «Mamma, perché quell’uomo porta la gonna?»; poi una manina ha sollevato l’orlo del mio abito: «Tutto a posto, mamma. Sotto ha i pantaloni».
Stiamo vivendo la crisi di tutta quella concezione del sacerdozio, con la sua distanza dalla gente, il suo uso del potere, la sua concezione della morale come controllo. Con nostra grande sofferenza, il Signore sta demolendo le nostre alte torri e le nostre aspettative di gloria e di grandezza, così da poter prendere dimora presso di noi.
La grande maggioranza dei preti e dei vescovi che ho incontrato in giro per il mondo sono persone umili e semplicil che vogliono solo servire il popolo di Dio. La maggior parte dei preti che conosco desiderano condividere la vita del proprio popolo e si considerano a sua disposizione. Sin da quando ho cominciato a viaggiare dentro alla Chiesal ne sono rimasto profondamente edificato. E ho avuto la stessa impressione dei tanti preti di questa diocesi che ho incontrato durante il ritiro.
Potete andare orgogliosi della vostra umiltà. Che spesso è ancor più commovente in quanto sfida apertamente strutture e tradizioni che potrebbero innalzarci e insuperbirci, dai titoli magniloquenti alle vesti sontuose. E dunque questa crisi può essere l’inizio di un grandioso rinnovamento della Chiesa, nel quale dovremo certamente imparare da Gesù, perché «io sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita».
L’ultima parola che vi consegno è «riposo>. Gesù ha detto ai suoi discepoli, quando erano sfiniti: «Venite in disparte e riposatevi un po’». Spero che il tempo che trascorrerete qui sia riposante, e che riuscirete a resistere alla tentazione di controllare ogni dieci secondi la vostra posta elettronica e di girare avanti e indietro attaccati ai telefonini.
Possiamo offrire alla gente la promessa del riposo di Cristo solo se ci vedono come persone che talvolta riescono a goderne. Spesso i preti sono comunque iperattivi, ma questa crisi potrebbe esasperare la tendenza. Potremmo sentire l’esigenza di mostrare che siamo preti eccezionalmente bravi, continuamente a servizio della gente e senza un secondo per noi stessi. Questa è la salvezza per mezzo delle opere, non della grazia.
Thomas Merton riteneva che l’iperattività rappresentasse una collusione con la violenza della nostra società: «La fretta e la pressione delia vita moderna sono una forma, forse la più comune, della sua costitutiva violenza. Lasciarsi prendere da una molteplicità di impegni concorrenti, cedere a troppe richieste, impegnarsi in troppi progetti, voler aiutare tutti a fare tutto significa soccombere alla violenza. Di più, significa collaborare alla violenza. La frenesia dell’attivista neutralizza la sua profonda tensione verso la pace. Distrugge la fecondità del suo stesso lavoro, perché dissecca le radici di quella profonda sapienza che rende il lavoro fecondo».
Se un tale attivismo fa violenza a noi stessi, la farà anche al di fuori di noi. Può capitarci di dire parole violente alle altre persone. Può capitarci di fare violenza a noi stessi con gli alcolici o le droghe. Possiamo persino diventare sessualmente violenti, specie con chi è più vulnerabile.
Perciò abbiamo bisogno, senza alcuna vergogna, di riposare in Dio. E le parole del Vangelo di Matteo indicano alcuni dei modi in cui possiamo farlo.
Possiamo riposare perché questa crisi possa portare frutto. Forse sarà un tempo di nuove benedizioni e di rinnovamento della Chiesa. Dobbiamo affrontarla con tranquillità perché la vittoria è già nostra. Cristo è morto; Cristo è risorto; Cristo ritornerà. Come disse Dietrich Bonhoeffer al vescovo di Chicester, suo amico, prima di essere assassinato dai nazisti: «La vittoria è sicura».
Possiamo riposare perché non dobbiamo pretendere, diversamente da quei preti impossibili, di essere terribilmente bravi. Togliamoci il pesante fardello della maschera pia e rifugiamoci nella manica di Dio. Possiamo riposarci perché il giogo di Gesù è leggero. I suoi comandamenti sono un invito all’amicizia. L’amicizia può essere esigente: ma non è mai un peso.
E possiamo lasciar perdere tutto il gravoso peso di un’identità forte e importante.
Fonte:
http://www.statusecclesiae.net/it/common-ground/venite-me-voi-che-siete-oppressi-di-t-radcliffe/
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