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Urge insistere «sulla valenza “politica” del sapere della fede» – Intervista a Giuseppe Lorizio

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Da tempo si discute, anche in Italia, di rinnovamento della teologia. La Veritatis gaudium di papa Francesco ha offerto ai teologi delle importanti indicazioni sul tema. Per il pontefice, infatti, la ricerca teologica – oltre ad assumere l’atteggiamento dell’umiltà – deve essere in grado di dialogare con il mondo contemporaneo e, quindi, con le scienze umane e le svariate espressioni artistiche prodotte dall’uomo. Di questo tema discutiamo con Giuseppe Lorizio. Professore ordinario di Teologia fondamentale nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense, Lorizio è editorialista di Avvenire e interviene spesso sui media (Famiglia cristiana, Radiovaticana, Raiuno, TV2000 ecc.) e per un decennio è stato membro del Comitato nazionale per gli studi superiori di Teologia e di Scienze Religiose della Conferenza Episcopale Italiana. Di recente ha pubblicato, per i tipi della San Paolo, nella collana “Abside”, un importante volume di teologia fondamentale dal titolo Semi del Verbo, segni dei tempi (2021).

– Professore Lorizio, nel suo recente volume Semi del Verbo, segni dei tempi, sostiene l’esigenza di una “teologia in contesto”. Quali sono le peculiarità di una teologia contestuale?

Si tratta della “compagnia del testo”. La Parola di Dio attestata nelle Scritture Sante non cade dal cielo, ma si genera in un grembo-contesto di cui parla la lingua e condivide le istanze culturali. Nel riproporla oggi non possiamo isolarla, bensì dobbiamo tentare di innestarla nel nostro con-testo culturale, sociale, filosofico, politico, economico, umano. Questo è il compito della teologia, chiamata non solo a correttamente interpretare il messaggio, ma anche a riproporlo, fornendo alla evangelizzazione strumenti onde rendere il più possibile efficace l’annuncio dell’Evangelo per le donne e gli uomini del nostro tempo. Per svolgere al meglio tale impegnativa missione il teologo deve confrontarsi con le altre forme del sapere (dalla filosofia alle scienze umane) nella misura in cui esse offrono letture-interpretazioni della realtà, consentendogli di individuare quei “segni dei tempi” e quelle aperture ospitali nei confronti del cristianesimo e del suo messaggio.

– In un recente discorso ai membri della Commissione Teologica Internazionale, papa Francesco ha affermato che «la tradizione è la garanzia del futuro e non un pezzo di museo». Quali ricadute ha per la ricerca teologica la consapevolezza di intendere la tradizione come apertura al futuro?

Non sempre la teologia ha appreso e compreso il carattere dinamico della “tradizione”, tuttavia vi sono esempi nei maestri del pensiero credente che non possiamo ignorare. Penso in particolare alla lezione di John Henry Newman e di Maurice Blondel e, nel nostro Ottocento, Antonio Rosmini. Autori spesso avversati dal magistero che solo col tempo sono stati recuperati nella loro fecondità per la teologia cattolica. Una delle metafore che possiamo assumere per dire la “tradizione” è quella della staffetta, nella quale il “testimone” passa di mano in mano e quindi ha a che fare con colui che precede e colui che segue l’attuale portatore, chiamato non a fermarsi per contemplare ciò che gli è stato consegnato, ma a camminare correndo verso il futuro, perché la gara venga vinta. Istituzioni come le accademie pontificie e la stessa commissione teologica, con la preoccupazione della salvaguardia dell’ortodossia, spesso in passato hanno frenato la ricerca teologica, piuttosto che stimolarla e garantirla come servizio autenticamente ecclesiale. Per questo papa Francesco non manca occasione di ricordare a tutti l’apertura al futuro, citando come in anche in questa occasione, il grande musicista Gustav Mahler, cui si deve l’espressione sul carattere dinamico della tradizione. La fedeltà del teologo dovrà quindi essere una fedeltà dinamica, non statica, per questo quella che auspica papa Francesco è una “chiesa inquieta”, cui dovrà corrispondere un teologare inquieto. Troppo spesso ci imbattiamo in testi, lezioni, conferenze di teologi che provocano una noia mortale, perché ripetitivi e compilativi. Se non si ha nulla di nuovo da proporre, meglio tacere. La fedeltà è comunque assicurata al teologo, nella misura in cui il suo pensiero è alimentato dalla contemplazione e dall’orazione, altrimenti rischia di inseguire le mode, allontanandosi dal messaggio.

 – La società fluida e complessa che abitiamo spesso ci induce a perdere il senso della persona umana. Nel libro Semi del Verbo, segni dei tempi, lei sostiene che la spersonalizzazione dell’umano è connessa alla spersonalizzazione di Dio. Quali sono le motivazioni che la spingono a sostenere ciò?

La motivazione di fondo da cui è nata questa considerazione viene dalla constatazione per cui le donne e gli uomini del nostro tempo sono più propensi a credere in un assoluto impersonale (energia cosmica) che a un Dio persona al quale rivolgersi. Di tale situazione è in parte responsabile anche la riflessione teologico-filosofica di stampo neoscolastico, di fronte a un’idea di Dio come causa di sé o motore immobile il pensatore Martin Heidegger scriveva: «a un dio simile l’uomo non può rivolgere preghiere, né può offrire sacrifici. Dinanzi alla causa sui l’uomo non può cadere devotamente in ginocchio, né può suonare e danzare. Di conseguenza il pensiero senza-dio (das gott-lose Denken), che deve rinunciare al dio della filosofia – cioè al dio come causa sui – è forse più vicino al dio divino. Il che, in questo caso, significa soltanto: questo pensiero è libero per tale dio più di quanto l’onto-teologica non sia disposta ad ammettere». In fondo le donne e gli uomini scoprono il loro essere “persone” in rapporto a un Tu, che li interpella, mentre di fronte a un’entità non ben identificata si spersonalizzano. Connesso al tema del Dio personale e dell’uomo persona è il richiamo al “nome”, impronunziabile nel tetragramma dell’Antico Testamento, ma rivelato da Gesù di Nazareth, come amore agapico-erotico del Dio che è venuto ad annunziare.

– La pandemia da Covid-19 e la guerra in Ucraina ci hanno ricordato, qualora fosse necessario, che la storia umana è abitata dalla tragedia del male. Come fare teologia dinanzi alla morte degli innocenti, alla sconfitta, alla sofferenza?

Recuperando l’antica “teodicea” e ripensandola. Il passato ci ha consegnato due forme di teodicea, ossia di modi di pensare la giustizia di Dio dinanzi al dolore innocente. La forma amartiocentrica, che rimanda al peccato dell’uomo, onde assolvere Dio e sposare l’idea secondo cui ogni dolore viene dal peccato. Gesù stesso, di fronte al cieco nato, ha smentito questa teoria, molto diffusa non solo nell’Israele del suo tempo, ma spesso anche ogni in certa predicazione che si nutre di terrorismo teologico. La forma apofatica, che si può far risalire a Giobbe, per cui la questione del senso del male resta circondata da un fitto mistero impenetrabile, così ha scritto anche I. Kant in un suo opuscolo, riportando proprio la vicenda di Giobbe. Ma – come scrive Antonio Rosmini nel suo testo del 1845, intitolato proprio Teodicea, il senso del dolore si scopre solo nell’orizzonte cristologico e staurologico di un Dio che non risolve con la bacchetta magica le situazioni tragiche della nostra esistenza, ma le prende su di sé ponendosi accanto a noi e indicandoci una vita oltre la morte, senza la quale sarebbe assurdo sia nascere che morire.

– In occasione del 250esimo Dies Academicus della Pontificia Università Lateranense, una giovane studentessa – Raffaella Figueredo – ha consentito di apprendere e sottolineare che la teologia del presente e futuro sarà chiamata a valorizzare sempre più l’apporto dei laici e delle donne. Il futuro della teologia è laico e donna?

In primo luogo, sono profondamente convinto non tanto della necessità di una teologia per i laici, o fatta solo da laici, ma della laicità del sapere teologico, per cui il luogo in cui siamo chiamati a mettere in atto processi di ricerca e di didattica non è solo l’università, e neppure solo la chiesa, ma innanzitutto la città (polis). Per questo spesso insisto sulla valenza “politica” del sapere della fede. In secondo luogo, il carattere “femminile” del sapere teologico, che può essere vissuto anche dai maschi chiamati a questo servizio (qualcuno parla di ministero del teologo) può essere vissuto ed espresso nel ricorso all’intuizione intellettuale e alla tenerezza proprie del genio femminile. Ricevere questo messaggio da una giovane donna, iscritta al percorso di teologia fondamentale della nostra Università, non solo mi ha commosso profondamente, ma mi ha fatto pensare in termini positivi al futuro di questo splendido lavoro proprio in prossimità del mio pensionamento.

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