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Squarci Letterari – “La pioggia nel pineto” di D’Annunzio: godere l’eccedenza dell’essere

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Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.

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pineto

All’inizio del secolo scorso – la raccolta dannunziana di poesie “Alcyone” risale al decennio 1902-1912 – c’era ancora la natura e c’erano ancora le pinete. Oggi è possibile che i nostri ragazzi gravitino soltanto tra palazzi, cortili e pub. Chi legge sarebbe indotto quindi a pensare che la portata formativa di un testo come questo risieda in un improbabile “ritorno alla natura”. Sarà deluso. La ragione per cui leggiamo ancora e sempre questo miracolo poetico risiede in un possibile ritorno a se stessi, formula che cercherò qui di sviluppare sia pur a grandi linee.

Più di una volta il testo fa riferimento a “freschi pensieri”. Riandando al fanciullino pascoliano trattato la volta scorsa, utilizzo il tema dello stupore come chiave di lettura di questo componimento. Lo scrittore invita la sua Ermione (passeremo inutile tempo in classe a rimestare eruditamente su questa figura?) allo stupore. Tutta la natura intorno ai due protagonisti è un grande concerto animato dalla pioggia. Il testo insiste con gli inviti all’ascolto. E ai nostri ragazzi può fare bene ascoltare. Essere invitati ad ascoltare ciò che non meraviglia più perché appare scontato. Il testo invita all’ascolto delle piante e degli animali. Invita i due protagonisti ad entrare in simbiosi con il cosmo. È un inno alla leggerezza.

Quando si porta La pioggia nel pineto in classe bisogna creare le condizioni perché i ragazzi cessino di essere cartesiani e facciano cessare i rumori della mente. La pioggia nel pineto non è un brano da spiegare. È un brano da sentire. Chi lo spiega deve fare come fa la pioggia, e se lo spiegasse mentre piove forse sarebbe anche meglio. A me è capitato di farlo. Ritornare a se stessi davanti a un testo significa comprendere che la vita è anche musica. Che la musica della vita si gusta riaccendendo i sensi, che curiosamente sembrerebbero i protagonisti della scena contemporanea e invece sono i grandi assenti. Saper ri-vedere, ri-ascoltare, ri-gustare, ri-annusare, ri-toccare, saper correre saltando, saper andare di fratta in fratta, chi sa dove chi sa dove.

C’è bisogno di questo. Direi di sì. È l’epoca dello sballo, non l’epoca dei sensi. Lo sballo è l’obnubilamento dei sensi. Occorre far balenare ai ragazzi l’idea che l’uomo non è nella natura, ma è egli stesso natura. Di fronte alla meccanizzazione e alla routinarizzazione della società, l’obiezione dei poeti cosiddetti decadenti (altro che decadere questo!) è la seguente: spegnere un attimo la mente, please, saper tornare nei territori della meraviglia e dell’incanto: la favola bella che oggi t’illude.

Chi lo scambiasse per mero edonismo farebbe errore. D’Annunzio sarà pure edonista (poi occorre mettersi d’accordo su cosa significa edonismo e quanta tristezza c’è tra i suoi denigratori), ma in tempi di cinismo emotivo, questo testo appare una fresca boccata d’aria pura, una full immersion nell’autentico umano. Nulla in questo componimento è men che sano, primordiale, fresco e autentico. Una contestazione radicale ad ogni apatia, ad ogni tedio, ad ogni istinto autodistruttivo. Godimento allo stato puro. Non sembri paradossale se finisce per aprire una via al senso religioso: su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove…. Il “religioso” nei ragazzi non può (e forse non deve) passare subito per le vie istituzionali. Il religioso è un senso profondo dell’Essere, è un senso dell’Invisibile, è uno stupore… Sicuramente non è una cosa triste e dolorosa. Ci sarà tempo per intrattenersi con altri discorsi. C’è un tempo per Manzoni e c’è un tempo per D’Annunzio. Qui è l’eccedenza dell’Essere che viene accolta come un dono.

I due non controllano, non gestiscono, non progettano. Essi abitano l’Essere. La pioggia li bagna e loro si fanno bagnare. In tempi di discorsi sull’ambiente, ecco un modo per godere del cosmo, senza se e senza ma. Tutta la vita è in noi fresca aulente: basterebbe solo questo verso ad occupare un’intera lezione. La vita emana il suo profumo in noi. Ma in “quali” noi? Quali adulti possono far sentire questa magia? Adulti che spiegano? Che poi magari interrogano? Chi sarà bravo e avrà un voto alto? Chi risponde bene cosa sono le “tamerici salmastre ed arse”? Oppure chi sa dire da dove viene il termine “auliscono”? La sfida di questo testo è a tutto e tutti: agli alunni, che devono uscire dalle loro gabbie routinarie e spesso compulsivamente connesse; agli insegnanti, che devono imparare che alle volte (o sempre?) un testo non è per l’interrogazione ma per entrare nella vita; a tutti i cultori delle valutazioni oggettive, abbattuti come birilli dalla potenza immaginifica di una parola letteraria capace di eccedere ogni pedanteria.

 

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