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Rischiamo di rendere le nostre relazioni solo virtuali

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Photo by Chris Montgomery on Unsplash

Un paradosso

In questi due anni di pandemia stiamo assistendo a un curioso paradosso. Da un lato il Covid ci ha insegnato che «nessun uomo è un’isola», perché nessuno può dirsi esclusivo proprietario del proprio corpo e padrone di farne quello che vuole, senza risponderne agli altri, come l’enfasi sui diritti individuali ci aveva per lungo tempo portati a credere e come si ostinano oggi a sostenere i no-vax.

Dall’altro, però, ci fa percepire questa evidente interdipendenza più nei suoi aspetti negativi – come una minaccia reciproca di contagio – che in quelli gioiosi e costruttivi. Dalla coscienza che la libertà è sempre anche responsabilità sono emerse soprattutto la percezione della nostra reciproca vulnerabilità e la paura del male che possiamo farci involontariamente a vicenda trasmettendo il virus. Da qui la tendenza a rinunziare ai nostri rapporti umani, o almeno a rarefarli e diluirli drasticamente, secondo la formula del “distanziamento sociale”.

Il nuovo ruolo del virtuale nei rapporti umani

Così, l’effetto più immediatamente percepibile della pandemia sulla nostra vita è l’indebolimento delle relazioni, temporaneamente sospese o trasferite su Internet. Persone legate da comuni interessi di affari preferiscono vedersi e negoziare on line. Convegni culturali, originariamente programmati “in presenza”, vengono trasformati in webinar. Perfino gruppi e comunità spirituali trasferiscono i loro incontri su Zoom o altre piattaforme dove vedersi senza pericolo. Emblematico il caso della trasmissione online dell’eucaristia su Tv2000 o a cura delle singole parrocchie. Non si è trattato solo delle assemblee liturgiche. Smartworking, DaD, sono diventati termini di uso comune.

E sicuramente, nella misura in cui il virtuale, sotto l’impulso della pandemia, tende a sostituire le relazioni umane “in presenza”, si hanno dei guadagni. Ma vale la pena di interrogarsi anche sui rischi. Nella consapevolezza che le modalità tecniche della comunicazione tra gli esseri umani – come del resto tutti mezzi della tecnologia – non sono mai puramente strumentali e non lasciano immutati i soggetti che se ne servono.

Noi siamo animali culturali e, a differenza di tutti gli altri, siamo in grado, in una certa misura, di trasformare la nostra natura con i prodotti della nostra creatività. In un tempo che ha visto una impressionante accelerazione di questa produzione, la trasformazione degli esseri umani diventa sempre più evidente.

«La domanda», perciò, come osserva acutamente Umberto Galimberti, «non è più: “Che cosa possiamo fare noi con la tecnica?”, ma: “Che cosa la tecnica può fare di noi?”». Riferita al virtuale e ai suoi effetti sulle relazioni umane, questa domanda è particolarmente inquietante. Sappiamo quali effetti decisivi per la nostra identità abbia avuto, nel remoto passato, il passaggio dalla comunicazione orale a quella scritta.

L’avvento della scrittura come rivoluzione antropologica

Per millenni l’oralità aveva determinato un approccio alla realtà che è profondamente cambiato quando è subentrata la nuova tecnica della scrittura. «Apprendimento e conoscenza in una cultura orale significano identificazione stretta, empatica, con il conosciuto. La scrittura separa chi conosce da ciò che viene conosciuto, stabilendo così le condizioni per l’oggettività, il distacco personale» (W. Ong).

Chi vuol raccontare una storia, oppure semplicemente una barzelletta, tende a identificarsi nei personaggi della narrazione, imitarne i toni di voce, i gesti. Soggetto e oggetto non sono nettamente distinguibili. La scrittura, invece, pone una chiara distanza tra chi comunica e ciò che sta comunicando. Nascono così, allo stesso tempo, l’oggettività e la soggettività. Nel momento in cui si distingue da ciò di cui scrive, il soggetto lo coglie come diverso da sé e dotato di una propria specifica struttura.

Reciprocamente, nel fare questo, egli percepisce la propria soggettività, sviluppando così un atteggiamento di introspezione che nelle culture orali era assente. Secondo molti studiosi senza la scrittura non sarebbe mai nata la scienza moderna, e neppure quel tipo di interiorità, complessa e problematica, che ha caratterizzato tutto lo sviluppo della civiltà occidentale.

Ma l’avvento della scrittura ha avuto un profondo influsso anche sulle relazioni umane. Chi vuole raccontare qualcosa raduna intorno a sé un piccolo crocchio di ascoltatori. Così era nel clan quando, la sera, gli anziani, seduti vicino ai fuochi, ripetevano le antiche narrazioni che avevano a loro volta ricevuto dai loro padri. Chi invece vuole scrivere – una lettera, una relazione – o desidera leggerle, chiede che per favore lo si lasci solo.

Qualcuno si è spinto fino ad affermare che l’individuo è nato con la scrittura. Certo è che il diffondersi del mezzo scritto, con l’invenzione della stampa, nel XV secolo, fornì uno strumento decisivo all’affermarsi della dottrina luterana del libero esame e dell’individualismo protestante, impensabile se non vi fosse stato una Bibbia disponibile per ogni credente.

La problematicità del virtuale

Per fortuna, la scrittura non ha mai soppiantato la comunicazione orale. Ma, ai nostri giorni, l’avvento del virtuale si presenta più problematico. Lo è già per il fatto che, mentre sia la comunicazione orale che quella scritta non nascondono il loro essere degli intermediari, e dunque dei semplici mezzi, per accostarsi al mondo e agli altri, quella virtuale si presenta come autoreferenziale, pretendendo di sostituire, e non di rappresentare, ciò che comunica. Non per nulla si parla di “realtà” virtuale.

Ad essere minacciata direttamente non è tanto la corporeità, che viene comunque rappresentata sugli schermi, ma la sua fisicità. Su Skype o su Zoom vediamo il volto dell’altro, anche se è lontanissimo fisicamente, così come in televisione possiamo seguire eventi che si svolgono in altri continenti. Il guadagno innegabile è l’abbattimento di tutte le barriere spazio-temporali che, nel mondo fisico, impediscono o almeno ostacolano la comunicazione tra gli esseri umani.

Al tempo stesso, però, questa apertura potenzialmente illimitata a persone e a situazioni, che un tempo la lontananza spaziale rendeva irraggiungibili, determina un eccesso insostenibile di stimoli. Partecipare in diretta alle vicende di tutto il pianeta ci potrebbe fare impazzire. Per questo il virtuale si avvale della mediazione dello schermo. Con questo termine si può intendere sia la superficie su cui si delineano delle immagini, consentendo la comunicazione, sia un filtro, un riparo che si frappone fra i nostri organi sensoriali e qualcosa che potrebbe ferirli (come quando si dice: “farsi schermo con la mani”).

Lo schermo della tv, del tablet, del computer o dello smartphone ci fanno cogliere in modo immensamente più ampio la realtà. Ma, proprio per questo, essi devono difenderci da essa, consentendoci di convivere con la sua complessità e la sua violenza grazie al fatto che, dietro lo schermo, ne siamo soltanto spettatori.

Il pericolo, però, è una specie di anestesia che alla lunga può condizionare le persone nel loro atteggiamento di fondo verso la realtà, spingendole ad affrontare tutta la vita come uno spettacolo o un gioco. Questo è particolarmente vero quando sono in gioco i rapporti umani. Non bisogna certo dimenticare i vantaggi che, specialmente in questo tempo di pandemia, sono derivati ad essi dall’uso di Internet. Ma, così come sui social si è “amici”, senza conoscersi se non per il volto che si è deciso di assumere agli occhi degli altri, su Zoom si può evitare di essere visti nascondendosi dietro una icona.

La “persona” ritorna ad avere il significato latino originario di “maschera”. Il risultato può essere la banalizzazione del mistero delle persone. Esposte in vetrina, esse diventano, paradossalmente, invisibili. Come ha scritto Philippe Breton, oggi «si mostra tutto ciò che è visibile, ma al tempo stesso non si vede mai nulla, o perlomeno nulla di ciò che è essenziale»

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