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Recensione a “Le chiavi di Benedetto XVI per interpretare il Vaticano II”

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Recensione a “Le chiavi di Benedetto XVI per interpretare il Vaticano II”, Ed. Cantagalli 2022

Photo by Briana Tozour on Unsplash

Un corso d’acqua che, ora in vorticose rapide, ora in un silente gorgoglio,ora in un tragitto sinuoso tra anse e insenature ,ora in un’immaginaria linea retta, accompagna la vicenda umana nella perenne dialettica con mondo tra stimolo e assimilazione, confronto aperto e assoluta riaffermazione del proprio esclusivismo. La storia della Chiesa conosce tutte queste sfumature senza che una sola di loro riesca mai a riempire l’intero spettro, nutrendosi di una coesistenza che è in se libertà.

Vi sono però dei momenti che sia nella loro genesi, sia- forse più ancora- nella loro problematica ricezione, rappresentano altrettante svolte ermeneutiche in grado non solo di condizionare, ma anche di determinare gli sviluppi futuri. Crinali decisivi, anche nell’Occidente latino, sono le assemblee dei vescovi in comunione gerarchica con il Successore di Pietro. Per questo essendo ormai passati oltre 50 anni dalla sua apertura ci sembra prezioso il volume dell’ editrice Cantagalli “le chiavi di Benedetto XVI per interpretare il Vaticano II”.

Uscito al termine dell’anno della fede il testo si propone come una riflessione sull’esperienza credente, individuando certo alcuni momenti di continuità nella tradizione cattolica, senza però tacere le frizioni tra insegnamento magisteriale e prassi pastorale e, più profondamente, tra gli stessi testi conciliari, di cui spesso si ignora l’indole gerarchica e la loro ermeneutica non raramente resa sterile da slogan unilaterali. E’  questo, solo per fare qualche esempio il caso del termine profezia, spesso impoverito fino a ridurlo al concetto di progresso, o della stessa idea, per altri rispetti assai feconda, di Chiesa come comunione, omettendo l’aggettivo gerarchica che inscrive, non senza tensioni, ogni carisma particolare nell’alveo dell’istituzione visibile.

Per tutti questi motivi appare necessaria una ripresentazione dell’assise ecumenica come rinnovamento nella tradizione, in un’evangelica coesistenza di “cose nuove” e “cose antiche” scoprendo con sorpresa che spesso le prime, non solo non si oppongono alle seconde, ma ne recuperano il loro senso più profondo, smarritosi nel tempo. Questa necessità è sottolineata da Agostino Marchetto che inscrive il Concilio Vaticano II nell’anno della fede indetto da Benedetto XVI nel 2012.Il recupero  della tradizione ,è particolarmente evidente dal punto di vista liturgico, ma può essere rintracciato  anche in altri campi. Da prospettive diverse 4 autori, primo fra tutti Benedetto XVI di cui si riporta il celebre discorso tenuto alla curia romana il 22 dicembre 2005 , si soffermano quindi non tanto sul Concilio quanto sulla sua ricezione.

Essendo alcuni contributi molto tecnici ometteremo un puntuale ripercorrimento dell’ intero volume, limitandoci a quelle parti che meglio possono essere apprezzate anche da un lettore non specialista con particolare attenzione all’ intervento papale capace di inquadrare l’assise in un più generale dialogo con l’età moderna. Ancora una volta ad affrontarsi sono le due fondamentali visioni interpretative: quella che scorge nell’assise una rottura rispetto ai paradigmi del passato ed, evocando lo spirito del Concilio pare disposta- nei suoi più accesi sostenitori – a spingersi oltre gli stessi documenti; e quella della continuità nel rinnovamento, capace di innestare l’evento nella feconda tradizione ecclesiale che l’assise rilegge e valorizza in un contesto mutato. Questa seconda lettura non tace le peculiarità del Vaticano II, indicando un dialogo non tanto con il mondo genericamente inteso, quanto con l’età moderna. Un dialogo storico, certo, ma anche filosofico che, oltre condanne unilaterali, si pensi solo al sillabo, recuperi in modo nuovo materie scottanti come la libertà di religione o il rapporto con l’antico Israele.

Il concilio sostanzialmente rappresentò una proposta antropologica cristiana, capace di enucleare l’immutabile deposito della fede in dialogo con il relativismo, l’umanesimo agnostico e ateo e più genericamente la ricerca umana che emergeva, per vie nuove e spesso insospettabili, tanto nelle scienze della natura quanto in quelle dello spirito. Nel suo discorso Benedetto XVI trae dal sempre splendente tesoro dei padri d’oriente un immagine suggestiva: quella di una battaglia navale in cui, diversamente da quanto descritto da San Basilio per il Concilio di Nicea 325 d.C.

L’oggetto del contendere non erano i rapporti tra il Padre e il Figlio, ma la permanente tensione tra il magistero che riaffermava l’ermeneutica del rinnovamento nella continuità e la prassi pastorale sostenitrice di quella della frattura. Cesura profonda capace di traversare i decenni e i pontificati tanto da coinvolgere gli stessi schemi preparatori del concilio in cui i fautori della discontinuità vedono uno spirito innovatore, che l’indole compromissoria dei padri avrebbe attenuato. Occorre partire dal discorso papale per inquadrare l’Assemblea non solo nei suoi antecedenti prossimi, ma anche nella sua scaturigine remota, volendola Chiesa annunciare in modo nuovo la dottrina Cattolica. Nessuno può negare-afferma Benedetto XVI- che la assimilazione del Concilio si è svolta in modo difficile: per questo ancora prima del problema ricettivo occorre porre quello interpretativo.

L’ermeneutica della rottura, sostenuta dalla fragorosa simpatia dei media, ha causato spesso confusione; quella della continuità, prevalente  nel magistero dei pontefici del post Vaticano II, ha portato silenziosamente frutto. Nella continuità dell’unico soggetto Chiesa la fede cresce nel tempo mentre si approfondisce la ricerca teologica nelle questioni ancora non definite dogmaticamente. Una crescita e un approfondimento che gli ermeneuti della rottura, interponendo arbitrarie cesure non vedono. Per alcuni di loro esisterebbe una Chiesa preconciliare simile a una zavorra, solo sbarazzandosi della quale sarebbe possibile costruire qualcosa di nuovo, finalmente in linea con i segni dei tempi e i bisogni del mondo. Costoro infatti contrappongono lo spirito del Concilio sotteso ai testi alla loro letterarietà che andrebbe trascesa per seguire queste intenzioni.

Accettando una simile lettura però si lascia aperto il campo dell’arbitrio potendosi far sostenere al presunto spirito del Concilio ciò che si vuole. In una simile impostazione poi l’assise diviene una sorta di costituente, quasi che i padri fossero chiamati da un mandato umano ad affermare questa o quella tesi. Ma Chiesa, come altre volte il Papa Emerito ha avuto modo di sostenere, non è una democrazia rappresentativa, la sua missione proviene dall’alto e discende da Dio stesso che, nella III Persona trinitaria la assiste in ogni decisione. Solo partendo da questa prospettiva noi possiamo illuminare il tempo, sotto la guida prudente e saggia dei vescovi, simili ad amministratori che, fedeli nel poco, ricevono anche il molto. Per questo, restando nella letterarietà dei testi,  occorre seguire la direttrice del rinnovamento nella continuità fatta propria da Giovanni XXIII e Paolo VI i pontefici che aprirono e chiusero l’Assise nei loro rispettivi discorsi. Secondo Papa Roncalli” il concilio vuole trasmettere pura ed integra la dottrina ,senza attenuazioni o travisamenti”.

Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore all’opera che la nostra età esige”. Riflettere sulla rivelazione ed  approfondire la dottrina è questo il compito dell’Assise vaticana in una sintesi tra dinamica innovatrice e fedeltà al deposito della fede. Oggi possiamo vedere finalmente come il positivo sia più grande dell’agitazione dell’ immediato post concilio, risiedendo in una disputa sull’uomo tesa ad approfondire, nell’orizzonte di una fede vissuta, la proposta antropologica cristiana.

In una mirabile sintesi, l’analisi di Benedetto XVI si sofferma sui rapporti tra Chiesa ed età moderna: lo fa con rapide pennellate, che , però sono capaci di dipingere questa dialettica in uno stupendo  affresco: dal suo burrascoso sorgere col caso Galileo conoscendo poi molte fasi fino al ripensamento conciliare che non è atto subitaneo ma avviene dopo un graduale, reciproco processo di riconoscimento e di riduzione delle diffidenze. La relazione si era rescissa dal punto di vista storico  con i frangenti  più radicali della Rivoluzione Francese che avevano  postulato l’esistenza di una realtà statuale totalmente autonoma dai dettami religiosi e da quello filosofico con l’ultima fase della riflessione Kantiana, in cui la religione veniva ridotta nell’ambito della semplice ragione. A simili tendenze la Chiesa del 800 reagì scontrandosi in modo frontale con il liberalismo radicale,e con le stesse scienze che pretendevano di abbracciare la totalità del reale.

Il pontificato di Pio IX, autore del già citato sillabo, rappresenta il  momento più acuto di questa frizione: egli temeva che tutte queste forze portassero a una progressiva marginalizzazione dell’ipotesi stessa di Dio. L’ecumene  è però vasta e proprio nel seno della stessa età moderna la Rivoluzione Americana, sorta da una scaturigine anche di tipo religioso, mostrava come fosse possibile una statualità diversa da quella teorizzata dai Giacobini. Nelle stesse scienze della natura, soprattutto dopo il II conflitto mondiale, andavano profilandosi tendenze meno olistiche: queste, infatti, pur potendo raggiungere risultati mirabili, si rendevano conto di non essere in grado di comprendere, con il loro metodo,  tutta la realtà. Per tali  vie  le  due parti si aprivano  progressivamente a un confronto ulteriormente corroborato dal fatto che, dal punto di vista politico uomini di stato cattolici avevano mostrato, nella seconda metà del secolo passato, come potesse esistere una nazione  laica, ma non neutrale  difronte ai valori espressi  nelle filosofie personaliste, baluardo contro i totalitarismi di ogni colore.

Questa posizione, largamente condivisa nel secondo dopoguerra, va oggi  attentamente considerata, soprattutto in società pluraliste: anche senza voler ricorrere al politeismo valoriale, va però evidenziato come l’ipostatizzazione di alcuni principi sottratti alla dialettica democratica può risultare problematica nell’ occidente secolarizzato. La Chiesa si trova così stretta tra la scilla di dover annunciare alcuni principi e la cariddi secondo cui proprio un simile annuncio la rende afasica  per  masse sempre più numerose di persone.  Ma torniamo al termine della II Guerra mondiale: allora la dottrina sociale cattolica veniva a configurarsi  come una soluzione mediana tra il collettivismo marxista da un lato e il liberalismo radicale dall’altro. Anche nell’età moderna la chiesa appare come segno di contraddizione: un segno non tanto di apertura verso il mondo quanto del plurisecolare riproporsi del problema dei rapporti tra fede e ragione. Nel XIII secolo l’emergere delle opere di Aristotele in un’antropologia sostanzialmente di matrice agostiniana e quindi platonica aveva posto, certo in un’orizzonte diverso, la medesima criticità  che San Tommaso d’Aquino tentò di disinnescare con la sua grandiosa sintesi.

Ancora prima nella stessa Scrittura è San Pietro a invitarci a rendere ragione della nostra fede che non può ridursi alla sola sfera emotiva. Molto tecnico appare il contributo  del Card Brandmuller, già presidente del Pontificio Istituto di Scienze Storiche, originato dall’edizione completa dei decreti conciliari curata dal prof Giuseppe Alberigo. L’apporto verte sulla  differenza, criticata dal porporato, tra concili ecumenici e concili generali della chiesa Cattolica Romana cioè, secondo gli editori, il Tridentino e i due Vaticani. A giudizio di Brandmuller questa distinzione appare arbitraria perché riflette un’ecclesiologia ortodossa, sostanzialmente coincidente con il concetto Bizantino di Pentarchia. Secondo tale asserzione dopo lo scisma del 1054 la chiesa indivisa non esisterebbe più mentre per l’autore essa sussiste  sempre in chi resta fedele al Vescovo di Roma. Dal punto di vista storico il porporato rivendica  l’ecumenicità del Vaticano I al quale furono invitati sia i vescovi Ortodossi sia quelli Protestanti.

Più calzanti paiono le sue riflessioni sulla sostanziale differenza tra un concilio e una costituente di ordine politico su cui è opportuno indugiare. Concilio è l’adunanza dei titolari della potestà magisteriale e pastorale della chiesa riuniti sotto la guida del Vescovo di Roma. Non si tratta quindi di un parlamento ecclesiastico inteso in senso democratico: la dottrina non dipende dal consenso della maggioranza, ma è innestata nel deposito della fede: il concilio è cosa di vescovi, sono loro che, successori degli apostoli giudicano sull’errore. È quindi il carisma episcopale e non l’alternarsi delle maggioranze ad attestare la coerenza tra una data asserzione e la dottrina rivelata nella Scrittura, nella Tradizione o nel Magistero straordinario. Altra cosa, distingue sempre il cardinale, è il sinodo per come lo intendono le comunità ecclesiali sorte dalla riforma: presso di loro, infatti questo è organo di formazione democratica, sono quindi in senso proprio le maggioranze che si alternano a determinare la validità di un asserto.

Tornando  in ambito cattolico lo stesso sinodo diocesano appare come un’espressione impropria essendo presente in questa assemblea un solo vescovo, poiché quelli ausiliari non sono dotati di potestà piena. Tesi queste su cui si potrebbe aprire un ampio dibattito che, però esula dall’orizzonte di una recensione. Qui oltre i singoli apporti che vertono su questioni più o meno specifiche basterà conclusivamente rievocare lo spirito del Vaticano II interpretato come la parte in un tutto. Non un nuovo e assoluto inizio, ma l’espressione più viva e genuina  della natura della  chiesa che  tramanda in quanto vive e vive in quanto tramanda.

Lo sottolinea Don Nicola Bux sicuramente più noto in ambito ecclesiale per la stessa affermazione in campo liturgico.  Cifra della Chiesa  è la  tradizione dinamicamente intesa, non il mutevole spirito del mondo. Il cui contributi verte sulla fede come rapporto originario con Cristo in un dialogo , talora problematico, con la ragione e soprattutto con l’etica umana. Svellere ogni concilio da questa vivificante atmosfera significa fraintenderlo, misconoscendo non solo quella assemblea, ma la natura stessa della Sposa di Cristo.

Per questo va riaffermata l’ermeneutica della continuità che non interpreta i decreti in modo isolato e non ignora i numerosi richiami dell’Assise vaticana  ai padri, ai dottori della Chiesa, ai precedenti concili tra cui primeggiano il tridentino e il Vaticano I. Tradizione è vita, non sterile conservatorismo: possiamo notarlo anche solo facendo riferimento agli scismi che hanno seguito, per un’errata concezione della storia, i due ultimi concili. Come sottolinea ancora Brandmuller il movimento veterocattolico che nacque dopo il Vaticano I si esaurì ben presto perché la sua protesta era sostanzialmente infondata e anche l’esperienza della fraternità San Pio X, sorta dopo il Vaticano II, rischia di ossificarsi nell’idolatria di una tradizione morta.

Per questo, oltre le frasi fatte e i convulsi anni del post concilio, possiamo rileggere oggi, con animo più sereno, le Costituzioni e i Decreti per scoprire in quei testi il paziente rinnovamento e la tenace ripresa di un passato e non la sua demolizione. Ma vi leggiamo, soprattutto l’indomita ansia di ridire quel passato in forme nuove in una Chiesa ospedale da campo che offre olio e vino alle ferite dell’umano al quale applica la  “medicina della carità”. Concilio pastorale, per un mondo nelle pieghe delle cui inquietudini vanno cercati i segni del Cristo che, con la creazione intera, geme sulla Croce fino alla fine del mondo affinché il mondo: “ascoltando creda, credendo speri, sperando ami”.

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