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Recensione a “Contro le immagini, le radici del iconoclastia” di Maria Bettetini

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Recensione a Maria Bettetini: Contro le immagini, le radici del iconoclastia. Ed. Laterza

“Il distruttore di immagini è lucido nella sua persecuzione: distruzione, distrugge per motivi molto precisi. Per odio o non amore, per scandalo per paura o ancora per evitare scandali, paure, blasfemie. Non occorreva attendere una così detta civiltà delle immagini per accorgersi del loro tremendo potere”.

Sostituire , rappresentare, simulare, suscitare ancestrali paure: fin dai secoli più remoti in contesti diversi dai tre grandi monoteismi alle principali scuole filosofiche la questione delle immagini ha innescato vivaci dibattiti che lambiscono la cronaca, sfatando miti acriticamente ripetuti.

Maria Bettetini, nel suo testo “contro le immagini”, ci conduce all’interno di queste discussioni dominate dal timore che una realtà comunque fatta dall’uomo, dipinta, scolpita, oggi fotografata, sia più vera della cosa stessa godendo di un’esistenza propria, svincolata dal suo autore. E così la creatura, in un eccesso di tracotanza, diverrebbe rivale dell’altissimo, idolatra non tanto perché adoratrice di un Dio falso, quanto, più profondamente, perché creatrice di un ossimorico artefatto “vivente”. L’artista dona vita, in quella mania poetica che Platone biasimerà e di cui le religioni, se da un lato ne temeranno la concorrenza, dall’altro, soprattutto in ambito Cristiano cercheranno di recuperarne positivamente l’energia. Argomento principe dei fautori del culto delle immagini, detti Iconoduli, o se più moderati, iconofili, sarà che, se Dio stesso aveva assunto un corpo, allora anche la figura dipinta della persona non andava disprezzata, ma valorizzata.

Si dice idolatria e si pensa a epoche arcaiche: a Platone, la cui anfibolica posizione scandaglieremo tra breve, a un Imperatore bizantino, a un Califfo del VIII secolo d.C. a un riformatore religioso come calvino, tutti variamente iconoclasti, a patto di interpretare correttamente questo termine, distinguendolo dall’iconofobia. Poi però, guardando più attentamente, si scopre che, in pieno XX secolo, questo dilemma carsico riemerge: dopo la nascita della fotografia, con la riflessione estetica di pittori e letterati sui ritratti dal vero; ma anche negli interstizi della cronaca, se, nella Francia secolarizzata, la comunità Islamica insorge per alcune vignette blasfeme raffiguranti il Profeta, apparse su un giornale satirico; o se, solo per fare un altro esempio, le statue dei dittatori si abbattono prima degli stessi tiranni, certificando così un’anteriorità dell’immagine sulla realtà storica.

Non è questo, nota saggiamente l’autrice, il luogo per istituire stolidi giudizi di valore sui fenomeni accennati che qui servono solo a mostrare la forza dell’icona, capace di mutare pelle nei vari contesti senza però mai smarrire la sua suggestiva, ancestrale potenza evocatrice. Proprio questa Vis ammaliatrice ci spinge a interrogare nuovamente i grandi filosofi, da Aristotele a Seneca e Plotino e i testi sacri delle tre religioni monoteistiche, per comprendere come sia possibile che con tanta diffidenza unanimemente espressa sui vaghi colori e le vane figure, nonostante l’ossessione islamica ed ebraica per la cultura orale e l’indiscusso primato che il Cristianesimo occidentale assegna alla parola scritta; noi viviamo nella così detta “ civiltà dell’immagine”.

Forse ciò accade perché, nel mutare dei secoli, mentre culture e posizioni a un tempo si alternano e si sovrappongono,questa diatriba non ci ha mai abbandonati, nonostante le sue fasi più accese si collochino nel I millennio della nostra era. Una collocazione che ha per tramite soprattutto la lingua greca, idioma della filosofia, delle distinzioni sottili e raffinate sorte in ambito platonico: a questo pensatore, la cui nota condanna dell’immagine non può essere ridotta al facile slogan per cui queste sarebbero ombre di ombre, copie manchevoli all’ennesima potenza dobbiamo anche l’idea dell’icona come tramite tra un mondo sovrasensibile e gli sguardi opachi di chi non è in grado di vederlo, se non attraverso l’arte del pittore.

Ecco l’anfibolia di cui si diceva: da un lato la realtà dipinta è parvenza, opinione ingannevole e instabile, perennemente esposta all’abbaglio dei sensi; dall’altro è feritoia, tramite verso una paradigmatica ulteriorità donde veniamo e di cui le nostre anime, prigioniere di un corpo, provano struggente nostalgia. L’immagine ha uno statuto paradossale: è perché non è; è riflesso di un volto, perché non è un vero volto; è vero ritratto di un uomo, perché non è un vero uomo. Per questa via, oltre Platone, ma non contro di lui, l’iconoclastia si trasformerà in iconofilia, se non addirittura in iconodulia. Ma torniamo alla posizione dell’autore della VII lettera: Platone è, un iconoclasta trasversale; mentre saranno i platonici, senza tuttavia dover attendere Plotino e Proclo, a favorire una più positiva lettura dell’immagine che influenzerà la patristica cristiana.

Va detto che l’autore della Repubblica, come chiunque legga il Fedro o il Simposio può agevolmente comprendere, non disprezza le arti in quanto tali: anzi, onora il bello e la bellezza, radici da cui rampolla il bene stesso. Ne condanna, in un’aspra polemica contro la sofistica, suo vero bersaglio, l’aspetto mimetico: l’artista proprio come il retore, finge di conoscere le cose, ma si limita a riprodurle. Dotata di un’esistenza autonoma l’idea di letto viene riprodotta, con un primo scadimento ontologico dal falegname, e imitata, con un ulteriore depauperamento gnoseologico, dal pittore o declamata tramite le parole dal sofista che, al pari del produttore di immagini, imita tutto senza avere conoscenza di nulla. Per l’autore della repubblica pittori, poeti, musici, indipendentemente dal grado di figuratività della loro arte, sono fabbricatori di idoli, e le varie teknai vogliono imitare la filosofia, unica custode della vera sapienza che senza risparmiarsi la fatica di un viaggio tanto lungo quanto necessario, indaga la verità delle cose.

La polemica di Platone contro le arti, chiarisce la Bettetini, non si situa tanto sul piano estetico, quanto su quello gnoseologico: la conoscenza per immagini, detta in greco ehichesia rappresenta il grado infimo del sapere, essendo abissalmente  lontana dall’intuizione intellettuale. Ma il poeta, come si può leggere nello Ione, può essere tale anche per ispirazione divina: in questo caso però la paradossale ambiguità della speculazione platonica lo allontana ancor più dal vero conoscere, non essendo egli padrone di ciò che fa, ma in balia di una forza esterna.

Gli Dei si prendono gioco degli uomini e non intendono favorire il loro avvicinamento alla verità che è e resta opera eminentemente filosofica: analogamente pittori, musici, scultori, agendo tramite la materia, partecipano a questo diversivo che li fa rimanere prigionieri nel fondo della caverna, abissalmente lontani dal sole i cui riflessi pure illuminano le ombre delle cose riprodotte sulla parete dell’antro. Gioco, per Platone è la stessa scrittura, utile a rammentare le nozioni ma non a farle apprendere: farmaco per la memoria, anche nella sua versione eterea o digitale, la grafia non aiuta il processo di assimilazione: il testo,orfano di chi lo ha redatto ,vaga per il mondo, senza più nessuno che ne possa spiegare i contenuti. Tanto il sapiente, quanto lo sprovveduto possono entrare in contatto con l’ipostatizzazione della parola scritta, facendone un uso diverso, anche opposto, rispetto alle originarie intenzioni del suo creatore. Per questo, veicolo del conoscere autentico è per Platone l’oralità dialettica, di cui i dialoghi e, a un livello diverso gli stessi miti, rappresentano l’eco.

Lungi dall’essere scisse, parola scritta ed immagine, vengono qui appaiate, non tanto in una condanna, quanto in una dimensione giocosa del reale che non accresce la conoscenza, di cui qui ci stiamo precipuamente occupando. Affinché anche gli artisti possano, al pari dei filosofi, avvicinarsi al divino, attingendo veridicamente l’essere delle cose occorrerà attendere il neoplatonismo che trasferirà nel loro animo la possibilità di vedere il modello tassativamente collocato nel iperuranio dal Fedro. Per tramite della logica stoica l’immaginazione del pittore diverrà così una via di assimilazione al oggetto di una visione intelligibile cioè delle stesse idee: oltre l’arte mimetica esiste una vera imitazione di cui è cifra la conoscenza intellettuale: questa, travalicato l’ambito del sensibile, coglie il carattere dialettico della realtà. Secondo i neoplatonici, ripresi dal eclettico Cicerone e, per suo tramite, giunti a influenzare il Medioevo, noi vediamo le forme della perfetta eloquenza unicamente con lo spirito, percependone tramite l’udito solo una copia, analogamente a quanto accade con la pittura e la scultura.

Fidia quando realizzò le sue statue non contemplava nessun corpo umano, ma un modello presente nella sua mente perché, argomenta l’oratore romano in una sorta di prolessi della prova ontologica anselmiana, non esiste qualcosa di tanto bello nel suo genere che l’originale, conosciuto con il pensiero, non possa essere ancora più splendente. Un ulteriore salto sarà operato dal ebreo filone di Alessandria che collocherà le idee nella mente divina Per questa via, che proseguirà nel platonismo cristiano di Agostino, si dischiude la possibilità di un’interpretazione positiva dell’immagine e della sfera artistica. Mitologicamente la parabola di Narciso, attratto dalla sua stessa figura, reinterpretata dalle metamorfosi di Ovidio mostra come, anche in questo nuovo clima, i prodotti dell’arte non perdano la loro vis ingannatrice.

Ma, sempre nello stesso autore, troviamo un altro mito che, nel doppio registro divenuto ormai abituale, parrebbe suggerire considerazioni diverse. Pigmalione, scultore misogino, realizzò una bellissima donna in avorio e, attratto dalla sua stessa creazione iniziò a vezzeggiarla, a parlarle, a vestirla, proprio come se fosse una vera fanciulla. Commossa da tanto amore, Venere concesse la vita alla statua e i due amanti vissero felicemente in un isola: l’arte si nasconde in se stessa, crea oggetti più belli della realtà tanto da far innamorare uno scultore misogino, allietandone la vita, proprio come le sculture di Fidia avevano arricchito l’esistenza dei greci. La bellezza non risiede tanto nella, pur maestosa, statua di Zeus, distrutta nell’incendio di Costantinopoli del 1453 d.C. che lo scultore aveva realizzato ad Atene durante il governo di Pericle, ma nell’animo dell’artista capace di rappresentare ciò che non scorge, l’idea con il senso, eminentemente ambiguo, della vista. Platone e Aristotele ne disvelano aspetti opposti per il primo l’immagine può discendere o dai sensi- cioè dal basso- o dall’ispirazione divina,- cioè dall’alto-; per il secondo la rappresentazione deriva solo dai sensi, ma, proprio per questo ne viene garantita tramite la concettualizzazione e l’astrazione, l’imprescindibile funzione gnoseologica. In Plotino che fonde platonismo ed aristotelismo l’immaginazione resta la facoltà più bassa dell’anima perché connessa con la materia, ma, proprio per questo legame, consente all’artista che lavora con realtà tangibili di superarla, giungendo, unico tra gli uomini, alla contemplazione dell’intelletto in cui si trovano le idee.

Con il neoplatonismo l’esperienza creatrice fuoriesce dall’ambito mimetico, per assurgere a punto di partenza di una conoscenza di ordine metafisico, secondo cui le arti risalgono ai principi razionali che costituiscono la stessa natura. L’anima non è più solo spettatrice: nel vedere il bello diviene bella essa stessa non essendo la sua sapienza acquisita tramite ragionamenti, ma qualcosa di riunito, come ben compresero gli intellettuali egiziani che quando volevano esprimerla non combinavano le lettere per creare parole, ma disegnavano immagini. Avversari dal punto di vista filosofico, Plotino e il nascente cristianesimo si incontrano da quello artistico: i seguaci della nuova religione, infatti, realizzeranno l’arte che il filosofo neoplatonico aveva teorizzato, allontanandosi dalla mimesi di stampo Greco-romano. Occorre ricapitolare alcune caratteristiche di questa nuova concezione estetica che discendono direttamente dalla finalità attribuita alla pittura dai seguaci di Cristo: contemplare, con gli occhi dello spirito, un reale divenuto rimando. La luce era diffusa e uniforme, l’ombra totalmente assente,bisognava prestare attenzione a ogni singolo particolare, l’intera immagine doveva collocarsi su un solo piano, facendo propria una prospettiva rovesciata. La stessa metafora fotologica, con aloni che circondavano i personaggi assumeva un significato nuovo, al pari della simbolicità di alcune figure, prima fra tutte il cerchio, che cingono le raffigurazioni dipinte per rappresentare il mondo extra cosmico. Questo legame si perfeziona ulteriormente nell’arte bizantina, trovando la sua fondazione teorica nei testi dello Pseudodionigi in cui le immagini sono intese come riflesso della potenza divina, allegoria capace di rinviare alla contemplazione del trascendente e non all’imitazione dell’immanente.

L’autore della gerarchia celeste, teoreta di questa nuova estetica, di cui possediamo due trattati e dieci lettere successivamente tradotti in Latino, risente sia della riflessione del neoplatonico Proclo, sia della dottrina cristologica dell’unione delle due nature,definita dall’Imperatore Zenone 482 d.C. con cui nasce la così detta teologia negativa, cioè l’idea che del primo principio, in se ineffabile, si possa parlare unicamente dopo averne affermato e negato gli attributi tratti dalle cose sensibili. In questa sede siamo interessati ai riflessi estetici di una simile teologia che sia nel oriente bizantino, sia nell’Occidente latino, fino a Tommaso d’Aquino ha esercitato un influsso incalcolabile: affermare la bontà di una certa realtà significa, necessariamente negare la contiguità di quello stesso ente con tutto ciò che è privo di bontà. In forza di questo assioma Dio si sottrae al quesito definitorio, essendo negazione assoluta, poiché non può essere contenuto , e quindi limitato, da nessuna asserzione.

Nascono così sia una nuova dottrina della metafora, sia l’idea del simbolo dissimile che, sganciando definitivamente l’arte dalla mimesi realistica di matrice platonica, influenzerà tutto l’Evo Medio. Per parlare dell’Onnipotente occorre, invece di tentare di descrivere l’indescrivibile, narrare realtà fortemente dissimili da lui, come ad esempio un verme unicamente capace di rammentare la caratteristica di Cristo che penetra nelle cose come il lombrico solca la terra.

D’altro canto tutto il creato è letto alla stregua di una grande metafora: in ciascuna realtà brilla analogicamente la pura luce dell’Altissimo. L’estetica diviene così logica che ha la sua plastica rappresentazione nelle chiese gotiche trovando la sua ultima scaturigine spirituale nel metodo anagogico. Platonicamente la bellezza è ostensione del bene: il mondo, pervaso di intelligenza, è avvolto da una luce intellettuale che l’artista può cogliere ed interpretare. Le Vetrate,lo splendore dell’oro, le iridescenze delle icone bizantine sono altrettanti sentieri che redimono dall’inappellabile condanna di un Platone rigidamente inteso, tanto la materia, quanto l’artista capace di svelare la sua luce. Come il santo, il pittore- meglio sarebbe tradurre il fabbricante di icone- guarda alla prima bellezza quella di Dio che riproduce in una sorta di somiglianza dissimile nel reale dipinto l’uso della cera, come più tardi quello dei colori a olio, fornisce spessore, solidità e luce al colore.

A questa caligine sfolgorante , in cui la creazione artistica a luogo si accede, come in Gregorio di Nissa e nello stesso Agostino, non tanto tramite l’esperienza intellettuale, quanto mediante la mistica: l’estasi conduce oltre la visione e la conoscenza, seguendo Mosè che adempie le condizioni necessarie per entrare in contatto con una simile esperienza, prima fra tutte la purificazione. Parallelamente al itinerario filosofico che, oltre l’Evo medio include autori come Cusano e Schelling, nasce una teologia dell’immagine cui soggiace la possibilità di un’imitazione che non sia contraffazione.

Uscendo dall’ambito Cristiano anche l’Islam si pose questo capitale problema: se nel Corano non troviamo alcuna esplicita proibizione al possesso e alla fabbricazione di statue e dipinti queste iniziano a profilarsi in alcuni detti raccolti due secoli dopo la vita del Profeta che hanno valore normativo, soprattutto se attestati in modo certo. Va comunque notato che, se si eccettuano alcuni esempi provenienti dalle culture persiana e indiana nelle quali all’Islam preesisteva un’intensa attività pittorica, le moschee sono ornate con foglie, forme geometriche, animali, ma non con figure umane.

L’islam muove da un principio fondamentale: la non rappresentabilità di Dio. In linea teorica sono due le idee che nel Corano possono opporsi , pur se non esplicitamente, alle immagini: la prima è quella secondo cui solo Dio è formatore, l’altra è l’avversione a ogni idolatria. Si tratta di asserzioni teoricamente non dissimili da quelle del XX capitolo del libro dell’esodo, senza che però si giunga, come nell’Ebraismo, a un’esplicita proibizione. Solo nei secoli successivi il divieto dell’idolatria, presente nel Libro Sacro dei Mussulmani, verrà usato alla stregua di un veto nei confronti di tutte le immagini. Diverso è, come accennato, il caso dei Detti del profeta, seconda fonte della legislazione religiosa e civile islamica: qui troviamo esplicitamente la richiesta di essere liberato da una veste adornata con crocette che lo distraevano sempre durante la preghiera. Altra frase rilevante di Maometto è quella secondo cui l’angelo non entrerà in una casa che contenga anche una sola figura: per questo, conquistato un tempio pre-islamico verranno distrutte tutte le immagini, eccettuate quelle di Cristo, precursore più dell’Inviato di Allah, e della Vergine Maria. In conseguenza di questi detti gli Abbassidi faranno ricoprire le raffigurazioni,e dal IX al XIII secolo , anche in ambito islamico, vi sarà un’iconoclastia molto rigida: ignoriamo però cosa sia successo tra i secoli VI e IX cioè quelli antecedenti alla codificazione dei Detti del Profeta.

Proibendo le raffigurazioni , mentre si lancia alla conquista dei territori cristiani che, come vedremo, sulle immagini lottano aspramente, l’islam si individua, sia rispetto al monoteismo cattolico- qui inteso nel senso greco di universale-, sia nei confronti del politeismo premussulmano che adorava figure e statue come se fossero dei. Del resto per i Mussulmani i seguaci di Cristo, soprattutto dopo la svolta nicena su cui torneremo, lambivano pericolosamente l’idolatria: scindendo il divino in tre Persone, venerando oggetti come le reliquie o uomini come i santi, atteggiamenti che portarono la cultura islamica a una crescente diffidenza nei confronti dell’immagine. I fedeli di Allah si scoprirono così iconoclasti: non già in virtù di una dottrina, che come abbiamo visto dovette essere riformulata, ma per circostanze al contempo storiche e teologiche derivanti dalla necessità di ripensarsi nel contatto con altre culture.

Solo apparentemente più lineare è l’atteggiamento dell’Ebraismo: all’inizio del X secolo a. C. Salomone avvia la costruzione del Tempio, adornato da sontuose sculture. Gli occhi e il cuore di Dio avrebbero dimorato sempre in quel luogo,a patto che il suo popolo, come già avvenuto, non si volgesse all’adorazione degli dei stranieri. Ma fu proprio il terzo re di Israele nella sua vecchiaia a cadere in questo peccato: venerava idoli che esistevano solo in quanto venivano rappresentati in statue, ma erano incapaci, di rispondere alle invocazioni degli uomini. Quando, secoli prima, Mosè trovò il suo popolo in adorazione di un vitello d’oro, manofatto idolatra che usurpava una caratteristica quella di creare appartenente solo al vero Dio, tornò dal Signore e si disse disposto a essere cancellato dalla Bibbia se l’onnipotente non avesse sopportato una così grave colpa da parte di Israele.

Per riconciliarsi con l’Altissimo, il condottiero pretenderà di vedere il volto del signore, ma questi gli risponderà con parole taglienti capaci di imprimere una curvatura netta tanto alla teologia ebraica quanto in quella cristiana “non puoi vedere il mio volto, perché l’uomo non può vedermi e vivere”. In questo contesto nasce la Parola divina che la tradizione cattolica definirà comandamento, sul divieto di farsi sculture o immagini di ciò che è in cielo o sulla terra per non imitare il Creatore. Alcuni oggetti, come le tavole su cui ha dormito Giacobbe, possono diventare sacri, perché sono luoghi in cui il divino si è manifestato, ma nessuna realtà materiale può rappresentarlo.

Il Dio veterotestamentario ha si un volto, ma questo resta nascosto, circostanza che verrà utilizzata in ambito cristiano tanto dagli iconoclasti, per sostenere il divieto di ogni immagine, quanto dagli iconofili per affermare la differenza tra un Dio che resta celato e uno, quello evangelico, così intimo all’uomo da incarnarsi egli stesso. Questo divieto parrebbe però collidere con i celebri versetti iniziali del libro della Genesi “ facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza “ e poi”Dio creò l’uomo a sua immagine a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò”. Per questo, già in ambito ebraico, ancor prima della celebre ripresa cristiana di Ireneo di Lione, si diffonde l’idea che l’unica immagine legittima dell’Altissimo sia l’uomo, in quanto da lui creato. Versetti su cui l’allegoresi dei Padri della Chiesa si è scatenata vedendo nel plurale facciamo una prefigurazione trinitaria, mentre con immagine di Dio possono intendersi l’anima, parte spirituale dell’uomo o il Figlio. Va anche rilevato come la cultura ebraica più che sull’immagine si fondi sulla parola scritta, si pensi al ruolo della Bibbia, e prima ancora detta, si rifletta sulla sua trasmissione orale: gli Ebrei non hanno abbattuto luoghi di culto per costruirne altri e, quando sono entrati in contatto con popoli stranieri hanno generalmente tentato di conservare la loro identità più che di ridefinirsi per contrasto. Lo stesso Chagall Ebreo e pittore non fu ortodosso e dipinse situazioni estranee alla cultura del popolo cui apparteneva come la pittura della crocefissione in Golgota o la rappresentazione del suo popolo come un crocefisso in crocefissione bianca.

Torniamo in ambito Cristiano: alcuni elementi, già ampiamente evidenziati avrebbero dovuto costituire le premesse di un’accettazione delle immagini da parte della nuova fede: il Dogma dell’Incarnazione sembrava preludere a una positiva valorizzazione del corpo e la stessa fusione con elementi di filosofia neo platonica dischiudeva all’arte l’accesso al divino. Tuttavia anche in questo contesto il rischio idolatra tornò ad affacciarsi perché, pur se incarnato, l’altissimo restava ineffabile, tanto che sia dal punto di vista teorico, sia da quello” pastorale”, le prese di posizione dei concili e di singoli vescovi furono altalenanti.

A partire dal III secolo d.C, troviamo pitture inizialmente nelle catacombe e successivamente nelle chiese, nonostante un primo interdetto emanato dal Concilio di Elvira nel 306 d.C. Va detto che la cultura romana, con cui il Cristianesimo tendette a fondersi, era generalmente favorevole alle immagini anche se nella nuova religione, ben prima della tempesta iconoclasta, non mancarono le resistenze. Nel IV secolo Epifanio, vescovo di Salamina domandò retoricamente rivolto a un fedele” come vuoi tu vedere i santi che devono brillare nella gloria in una materia senza gloria, morta, muta.

Posizione analoga ebbe Clemente alessandrino e, in Occidente, non senza oscillazioni, Agostino. Riprendendo il paragone tra pittura e testo, il Vescovo di Ippona afferma che un quadro si guarda in modo diverso da uno scritto, quando vedi un dipinto ti basta osservare per lodare, mentre un testo esige necessariamente la capacità di leggere per essere decodificato. Proprio per la sua, solo apparente semplicità di decifrazione, prosegue l’autore delle confessioni, l’immagine si presta ad alcuni errori come quello, grossolano di chi, guardando degli affreschi ha ritenuto che Cristo avesse scritto lettere a Pietro o a Paolo, andandole vanamente a cercare. Ma qui l’errore non risiede nel pittore che ha raffigurati vicini i tre personaggi, ma di chi ha visto il quadro, fermo a un ermeneutica letterale dell’opera incapace di comprendere la metaforicità di quella prossimità dato che, come è noto, l’Apostolo delle Genti non ha mai incontrato Gesù di persona. L’immagine va interpretata, ma il suo limite è quello di colpire i sensi esterni, primo fra tutti la vista contro la quale il Vescovo di Ippona condivide il disprezzo platonico attinto per tramite di Plotino. In tutto il Medioevo latino il solo mezzo affidabile per trasmettere la verità del cristianesimo sarà considerato la parola: donde la priorità assegnata agli studi storici e di retorica per comprendere le scritture, fino ad accusare di barbarie la cultura bizantina, almeno inizialmente più incline al culto delle immagini.

Non meno polemico è lo spirito di Ambrogio, maestro dell’Ipponate, espresso nelle due lettere al Imperatore Valentiniano II che come lui risiedeva a Milano, divenuta nuova capitale a causa dell’insicurezza di Roma. I Pagani adorano le statue reputando loro Dio un pezzo di legno: siamo nel Occidente latino, si badi, non nell’Ellade dove, secoli dopo, scoppierà la crisi iconoclasta. In Oriente la differenza tra pittori e scrittori si attenua: per Basilio comunicano allo stesso modo, mentre Gregorio Nazianzeno ritiene i secondi capaci di insegnare con le immagini. Già nel Concilio di Calcedonia 451 d.C. vennero condannate le interpretazioni docetiste, cioè quelle che avrebbero voluto ridurre la natura umana del Cristo a semplice apparenza e che, dal punto di vista estetico, si sarebbero schierate, secoli dopo, sul versante iconoclasta. Proprio dall’Incarnazione e più ancora, dalla dottrina dell’unità delle nature ha invece preso le mosse la legittimità delle immagini, avendo Gesù accettato di farsi circoscrivere dalla limitatezza e dalla materia. L’immagine di cristo non deve essere bella ma solo tenere vivo il ricordo del suo santo volto: per questo l’icona, in cui la fede della Chiesa si riassume, rappresenta l’intrinseco legame tra Incarnazione e attesa della fine dei tempi.

Modello del ritratto di Gesù è il Pantokrator effigiato nel Duomo di Monreale o nella Cappella Palatina di Palermo con il suo sguardo che non fissando un punto determinato allude al mondo intero redento dal suo sangue ma anche atteso come protagonista del giudizio universale. A differenza dei Pagani i Cristiani non adorano una pittura ma, soprattutto se analfabeti, sono aiutati dal quadro a comprendere ciò che deve essere adorato. L’immagine quindi, almeno ,inizialmente, assume in occidente, grazie alla riflessione di Gregorio Magno, un ruolo catechetico: insegna nozioni e richiama costantemente alla memoria ciò che si è appreso.

La crisi iconoclasta, avvenuta a Costantinopoli in un momento storico in cui si assisteva a un rafforzamento del potere imperiale, romperà drammaticamente questo precario equilibrio: siamo nel 727 d.C.durante il regno di Leone III e poi di suo figlio Costantino V si proibisce la produzione di immagini di Dio e dei santi che vengono ovunque distrutte e sostituite con semplici croci, politicamente simbolo dell’Impero Romano D’oriente. Fortemente evocativa, da questo punto di vista, è la rimozione del icona di cristo dalla porta bronzea del Palazzo imperiale, decretata dal Sovrano – non dal Patriarca- per motivi su cui gli storici discutono animatamente. Tra tali ragioni vanno sicuramente annoverate l’influenza del aniconismo ebraico ed islamico, il desiderio di contrapporsi alla Chiesa di Roma, ma soprattutto la volontà di arginare il crescente potere dei Monaci, produttori di immagini e molto amati dal popolo, oltre che, politicamente, esenti da ogni tassazione.

Difese strenuamente le icone Giovanni Damasceno, che scrisse tre orazioni contro i calunniatori delle immagini: libri aperti, araldi silenziosi, in contrasto con la lettura ad alta voce molto diffusa nel mondo antico, le pitture sono per la vista ciò che la parola rappresenta per l’udito e, benchè fossero proibite nell’antico Testamento, ricevono una nuova dignità proprio dal dogma dell’incarnazione. Ultimo grande padre della chiesa greca, autore dell’opera fonti della conoscenza, Giovanni subì la curiosa sorte di essere scomunicato dopo morto, salvo venire riabilitato dal secondo Concilio di Nicea 786 d.c.. Sempre nelle orazioni si legge che le cose materiali non meritano venerazione, ma se rappresentano chi è pieno di grazia, sostenere che partecipino di quella virtù è conforme alla fede.

ùLa reazione occidentale alle politiche iconoclaste fu immediata: Papa Gregorio II inviò due lettere a leone III per invitarlo a desistere dall’iconoclastia e il suo successore convocò a Roma un’ assemblea di vescovi in cui i nemici delle immagini vennero scomunicati. Orientali risposero con il Concilio di Ieria 754 d.C. in cui si dichiararono idolatre le immagini di cristo e dei santi: le prime perché rappresentano la divinità irrappresentabile, le seconde perché degradano i loro modelli collocandoli in una sfera materiale. Come sovente accade nella storia gli atti del concilio di Eria ci sono noti unicamente attraverso le confutazioni operate dai vincitori niceni che vanno naturalmente depurate dagli eccessi polemici come l’accusa di aver trasformato le chiese, spogliate di ogni immagine sacra, in depositi di piante e animali.

Tuttavia la linea ermeneutica degli iconoclasti si può intuire: sia nel collegamento con la proibizione veterotestamentaria, sia in una lettura dell’unione ipostatica che vede nella pittura, rappresentazione del Cristo Uomo, un indebito tentativo di circoscriverne la divinità. Le stanze attigue alla Cappella Palatina di Palermo ci restituiscono alcuni di questi affreschi abilmente realizzati dai mosaicisti bizantini, con ritratti di piante, animali, grifoni, in luogo dei Santi e degli imperatori.

Dopo la morte di Costantino, Irene- che coltivava l’ambizione politica di riunire Oriente ed Occidente- ammorbidì le posizioni iconoclaste convocando il secondo Concilio di Nicea. Nell’assise trionfarono le tesi iconodule, sia grazie alla lettura allegorica delle Sacre Scritture, soprattutto dell’Antico Testamento, sia in virtù della differenza tra atto di venerazione, dovuto solo a Dio, e adorazione indirizzata alla Vergine e ai santi. Secondo i sostenitori delle immagini queste rimandano sempre, soprattutto nel caso di quella di Cristo fulcro della questione iconoclasta al prototipo: la pittura non ha la pretesa di significare interamente il suo modello, ma solo di rinviarvi, favorendo la venerazione del divino. Altro aspetto cruciale di questa assemblea fu quello di porre sullo stesso piano le Sacre Scritture e le icone, entrambe veicoli di conoscenza acquistata con l’udito per le prime, con la vista per le seconde: questa equivalenza sarà contestata anche in occidente già in età carolingia, sulla base dell’assunto che, mentre la Bibbia è opera di Dio, le immagini, pur belle, sono creazioni umane. Argomento non irrilevante che, radicalizzato, tornerà in Lutero, oltre che in tutte le teologie dialettiche, basate cioè sull’alterità assoluta di Dio. Quando gli atti del Secondo Concilio Niceno giunsero alla corte franca, complice un fondamentale errore di traduzione cioè l’incapacità di cogliere la differenza tra adorazione e venerazione, Carlo magno non si fece sfuggire l’occasione di apparire come il difensore della vera fede, contrapponendosi agli errori ed alle sottigliezze dialettiche degli Elleni.

Vittoriose in Oriente, le immagini incontrarono dialetticamente, problemi proprio in quell’ Occidente latino che ne aveva visto i primi, pur se ondivaghi, difensori. La reazione carolingia sosterrà la tesi che non siano lecite né la rappresentazione di Cristo né quella dei santi, ma solo una storia che ricordi la vicenda del popolo di Dio.

Dal punto di vista teorico la risposta fu affidata ai libri carolini che, condannati dalla chiesa Cattolica e dimenticati per secoli, rappresenteranno la base dell’opposizione calvinista al culto delle immagini. Il loro retroterra teoretico, però ,soprattutto se paragonato con le sottigliezze argomentative greche, appare povero: una lettura di Agostino senza Platone, un culto delle icone senza Plotino,ma soprattutto senza i testi dello Pseudodionigi che verranno tradotti in latino solo trenta anni dopo l’uscita dei libri carolini.

Alla corte franca le immagini vengono viste solo come segni materiali di realtà fisiche , incapaci, proprio perché fabbricate con i sensi e decodificate con la vista, di fungere da tramite con il divino, per sua natura invisibile. Una simile interpretazione rappresenta uno straordinario impoverimento rispetto al complesso gioco di rimandi tipico del mondo orientale ulteriormente sancito in Occidente dalla definitiva vittoria della parola sull’immagine una parola che la scuola palatina si sarebbe incaricata di diffondere in tutta Europa, accreditando, sia di fronte a Roma, sia nei confronti dell’Oriente, la corte di Carlo come unico centro della vera fede.

Affidando all’immagine il ruolo di innocuo promemoria o comunque deprivandola della sua forza contemplativa l’Occidente ha scelto la parola come principale veicolo del sapere: oggi le illustrazioni sono sempre mescolate a termini che non fungono solo da didascalia ma guidano in certo modo la lettura, proprio perché non siamo più capaci di contemplare. Non fu questo il ruolo delle icone orientali, dipinte secondo regole precise, senza alcuna concessione alla prospettiva, composte di volti santi che guardano più che essere guardati, non hanno una funzione meramente catechetica, ma servono ad infiammare l’anima che elevano fino al divino. Più radicalmente: l’iconografo non dipinge l’idea che ha di Dio, ma Dio stesso.

In Oriente la reazione al interdetto iconoclasta portò, come non raramente accade nella storia, al successo di quanto era stato vietato: nel mondo ortodosso, come afferma Florenskij nel suo saggio le porte regali, l’immagine divenne il principale sostegno alla debolezza dei fedeli nella stessa azione liturgica; mentre in quello latino le pitture saranno ridotte a strumenti di propaganda. Bonaventura e Tommaso sosterranno autorevolmente questa tesi, soprattutto in un mondo in cui molti erano gli analfabeti e moltissimi coloro che non capivano più il latino acuendosi sempre più il divario tra la lingua parlata dal popolo e quella colta intesa dai chierici. Lo scopo pratico del dipinto istruire, richiamare alla mente, prende così il sopravvento sulla sua natura più profonda che risiede nella catarsi.

Oggi l’immagine parla di se stessa, non allude, non ci eleva, nella sua infinita riproducibilità e onnipresenza risulta ultimamente muta donde anche la diffusione di culture dell’abrasione, fondate sull’abbattimento di statue e monumenti a personalità ritenute non allineate al dogma del politicamente corretto: la nuova iconoclastia riscrive la storia prendendosela con Cristoforo Colombo,o i finali di opere liriche ritenute misogine. Così le sue radici continuano a riguardarci, e, fendendo sotterraneamente il terreno dei secoli, giungono, in modalità diverse quando non contraddittorie, fino ai nostri giorni.  

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