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“Premio per i perfetti” o “alimento per i deboli”? Ciò che non abbiamo ancora detto su comunione eucaristica e situazioni “irregolari”

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di Luciano Sesta

 

 

   In controtendenza a un clima di denuncia generalizzata di ogni forma di “potere” e di “autorità”, il grande teologo Hans urs von Balthasar vedeva, nella gerarchia della Chiesa, un richiamo alla “verticalità” su cui si fonda tutta l’avventura cristiana, che nasce da un evento, l’Incarnazione, che viene proprio “dall’esterno” e “dall’alto”, benché corrisponda alle più intime attese del cuore umano (H. U. von Balthasar, Il complesso antiromano. Come integrare il papato nella Chiesa universale, Queriniana, 1974). Si potrebbe dire, in tal senso, che nella “resistenza” che molte delle indicazioni della Chiesa oppongono a un modo “più ragionevole” di vivere potrebbe nascondersi, più che un ostinato moralismo che non conviene a nessuno, il mistero di un appello divino a non confidare più in se stessi. Il carattere talvolta estremamente impegnativo di talune indicazioni del magistero della Chiesa, in altri termini, potrebbe essere un indizio che queste indicazioni, lungi dall’essere frutto delle nostre idee o di quelle dei papi, si collocano in continuità con l’appello alla conversione e con l’offerta della grazia che percorrono tutto il Vangelo. Ed è così, del resto, anche per molti dei discorsi di papa Francesco, che sembrano prendere in contropiede molti dei nostri pregiudizi su cosa sia realmente “cristiano” oggi.

 

 

   A questo proposito, chiunque abbia seguito, anche distrattamente, il dibattito sull’Amoris Laetitia, si sarà forse accorto che intorno al documento di papa Francesco si sta realizzando una sorta di regolamento dei conti nel mondo cattolico. Chi vi vede la conferma di ciò che, da anni, ha sostenuto invano come il “vero” significato del cristianesimo, sembra ora volersi prendere una rivincita culturale su chi ha sempre sospettato l’insinuarsi di una mentalità relativistica anche all’interno della Chiesa, che troverebbe nel papa argentino un’autorevole e ambigua conferma. Alcuni interpreti, così, più che da una sincera volontà di capire la posta in gioco, sembrano guidati dal desiderio di colpire l’atteggiamento “tradizionalista” o “progressista” di altri interpreti. Il carattere conservatore di certe critiche va certamente denunciato, senza però gettare via con l’acqua sporca (il legalismo) anche il bambino (la norma oggettiva come criterio della coscienza). In eguale misura va criticato l’atteggiamento progressista, senza però confondere la sua valorizzazione della coscienza personale con un totale relativismo. In entrambi i casi, come abbiamo detto anche nei nostri precedenti interventi, si fraintende la novità del linguaggio e delle proposte di papa Francesco, scambiandola erroneamente per una volontà di rottura con il magistero pontificio precedente. Abbiamo già evidenziato i motivi che rendono improponibile questa ipotesi. La mettiamo ora alla prova nel caso della comunione eucaristica e della possibilità di concederla anche a chi si trova nelle cosiddette situazioni “irregolari”.

 

   Nella sua omelia tenuta a Santa Marta lo scorso 20 maggio, parlando del matrimonio cristiano, papa Francesco ha detto: «Non sono più due, ma una sola carne. Dunque “l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto” […]. Gesù non negozia la verità. E questa è la verità sul matrimonio, non ce n’è un’altra». Lo stesso Gesù, aggiunge papa Francesco, «è capace di dire questa verità tanto grande e allo stesso tempo essere tanto comprensivo con i peccatori, con i deboli». Ecco, conclude papa Francesco, le «due cose che Gesù ci insegna: la verità e la comprensione».

 

   In quest’ottica, e riferendosi al problema della comunione ai divorziati risposati – ossia a quei fedeli che, pur avendo alle spalle un matrimonio canonicamente valido, vivono stabilmente una nuova unione – nell’Esortazione apostolica Amoris Laetitia papa Francesco ha parole di forte denuncia nei confronti di chi, pur animato dalla buona intenzione di promuovere la “verità” del matrimonio, lo fa senza un’adeguata “comprensione” della fragilità umana: «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano […].Pertanto, un Pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone. È il caso dei cuori chiusi, che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa “per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite”» (AL, 304-305).

 

   Per questo, presentando in Vaticano l’esortazione apostolica Amoris Laetitia, il card. Christopher Schönborn ha affermato che papa Francesco ha voluto superare «l’artificiosa, esteriore, netta divisione fra “regolare” e “irregolare”», ponendo «tutti sotto l’istanza comune del Vangelo». Sempre Schönborn ha affermato che fra il documento di papa Francesco e la Familiaris consortio di Giovanni Paolo II – in cui è contenuto un esplicito divieto di concedere la comunione eucaristica ai divorziati risposati – c’è «innovazione e continuità», individuando «l’esperienza dei poveri» come chiave di lettura del testo, perché nelle famiglie povere si sperimenta che «i piccoli passi sul cammino della virtù possono essere molto più grandi del successo virtuoso di chi vive in una situazione confortevole».

 

   Se dunque la “miseria” è propria di ogni uomo, qualunque sia la condizione, “regolare” o “irregolare”, che egli vive, e se Dio, in Gesù, è morto e risorto per tutti gli uomini, perché non tutti gli uomini possono ricevere l’Eucaristia? La risposta più immediata potrebbe essere: Dio è sempre con noi, ma non sempre noi siamo con Lui. Riferendosi alla propria vita prima della conversione, sant’Agostino si rivolge a Dio dicendogli: “Tu eri con me, ma io non ero con Te” (Conf. X, 27). Può infatti accadere che, per i motivi più diversi e talvolta imprevedibili, ci si trovi a vivere situazioni che risultano in contraddizione con il Vangelo. Questo non significa che Dio non sia sempre con noi. E non significa nemmeno che noi lo stiamo rifiutando. Quale cristiano può dire, del resto, di vivere una vita che non sia, in nessun aspetto, in contraddizione con il Vangelo? È chiaro, dunque, che possiamo continuare ad amare Dio anche in uno stato di vita che non corrisponde alla pienezza della vita cristiana.

 

  Affermando che la convivenza con un partner diverso dal proprio coniuge è incompatibile con la ricezione dell’Eucaristia, la Chiesa non condanna nessuno. Si fa piuttosto interprete dello stesso vissuto della nuova coppia, che sperimenta la precedente unione come un fallimento bisognoso di essere sanato. Ma, ed ecco il punto, chi o cosa può guarire la dolorosa esperienza di un matrimonio non riuscito? Forse la nuova unione, spesso vissuta come un rimedio all’insuccesso della prima? O forse la stessa Chiesa, alla quale oggi, sempre più insistentemente, si chiede di concedere la comunione ai divorziati risposati che hanno mostrato una “buona condotta”? Una certa interpretazione di alcuni passaggi dell’Esortazione Amoris Laetitia di papa Francesco, in particolare del cap. VIII, induce a ritenere che dopo un lungo e attento discernimento, accompagnati da un pastore attento e prudente, i fedeli regolarmente sposati in Chiesa ma poi divorziati e risposati civilmente o conviventi, possano infine accostarsi all’Eucaristia, nonostante il generale divieto posto dalla Chiesa. Ma è davvero così?

 

   Qui c’è il rischio, a mio avviso, di confondere due questioni diverse: a) il riconoscimento degli elementi di bontà e di genuina fede cristiana che si trovano nelle nuove unioni, e b) la richiesta di ricevere l’Eucaristia come “sanzione” sacramentale di quel riconoscimento. Chi accusa di scarsa “misericordia” il divieto di accostarsi all’Eucaristia per i divorziati risposati, sta di fatto confondendo la seconda questione con la prima. La proposta di concedere la comunione ai divorziati risposati, inoltre, essendo animata dal desiderio di “regolarizzare” una situazione “irregolare”, si mostrerebbe ancora prigioniera di quella dicotomia fra “regolare” e “irregolare” che invece si vorrebbe superare. Ma procediamo con ordine.

 

   Il criterio che può aiutare ad affrontare il tema è l’affermazione di papa Francesco secondo cui la comunione eucaristica «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (Evangelii Gaudium, n. 47, riportata in AL nota 351). Contrariamente a quanto pensano alcuni, lungi dal giustificare la comunione ai divorziati risposati, questa affermazione la esclude. Se infatti il singolo fedele che si trova in una situazione irregolare potesse, a condizione che intraprenda un cammino di penitenza, ascesi e preghiera, ricevere la comunione, si reintrodurrebbe l’idea che l’Eucaristia sia “premio per i forti”. Come se si potesse essere “degni” dell’Eucaristia in virtù di uno sforzo e di un merito personali. Si determinerebbe inoltre un rapporto di “potere” fra il pastore e il fedele, perché nell’ottica di un discernimento guidato, il pastore, rappresentando la Chiesa, avrebbe implicitamente l’ultima parola. Si introdurrebbero così delle imbarazzanti discriminazioni da pastore a pastore: ci saranno quelli di “manica larga” e quelli “intransigenti”, ci saranno le coppie “brave”, meritevoli del premio eucaristico, e quelle “meno brave”, che invece non sono ancora pronte e che, forse, non lo saranno mai. La vita cristiana dei divorziati risposati, come si può vedere, diventerebbe una “morale” sotto tutela clericale. Infine, visto che i pastori non si esprimerebbero tutti allo stesso modo nelle diverse situazioni, verrebbe meno l’unità del Popolo di Dio, ossia la consapevolezza che la personale vicenda di ciascun battezzato non è, per ciò che riguarda l’essenziale, diversa da quella di qualunque altro fratello che, in un angolo remoto del globo, crede e lotta insieme a lui “nella stessa barca”.

 

   La chiarezza delle norme della Chiesa, da questo punto di vista, se adeguatamente vissuta sia dai pastori sia dai fedeli, libera gli uni e gli altri dal dovere di dimostrare qualcosa, ponendo tutti davanti allo stesso Dio che perdona e che salva. Tutti, infatti, in qualunque situazione ci troviamo a vivere, siamo peccatori perdonati. La necessità di ricorrere al sacramento del perdono prima di accedere all’Eucaristia esprime proprio questa verità: davanti a Dio non ci sono aspetti della propria vita nei quali non occorra riconoscere la propria fragilità. Richiedendo la confessione sacramentale come premessa per ricevere la comunione eucaristica, la Chiesa non intende rilasciare un certificato di “buona condotta”. Il fedele che si è confessato può accostarsi all’Eucaristia, infatti, non perché ha una santità di vita che colui che non si è confessato non ha, ma perché mostra, rispetto ai propri peccati, quell’atteggiamento di umile riconoscimento che commuove sempre il cuore di Dio. Ciò non significa, di nuovo, che Dio perdona solo a condizione che l’uomo si penta. Dio perdona comunque, e, proprio per questo, può suscitare il pentimento.

 

   La tanto discussa norma della Chiesa secondo cui, prima di accedere alla comunione, occorre confessare i propri peccati e formulare il sincero proposito di non commetterli più, non implica dunque che l’Eucaristia sia un “premio per i perfetti”. Al contrario, essa rimane un “alimento per i deboli”, dove però la debolezza di cui si parla è quella riconosciuta nel sacramento della riconciliazione, non quella “normalizzata”, che rischia di trasformarsi, non tanto nelle singole coppie, ma nel ragionamento di alcuni teologi, in pretesa di ricevere l’Eucaristia. Il ricorso alla confessione, in tal senso, implica che la disposizione spirituale richiesta dall’Eucaristia è la consapevolezza di non essere degno di riceverla. È in altre parole veramente “meritevole” di ricevere l’Eucaristia solo chi, umilmente, riconosce di “non esserne degno”. Ed è per questo che chi vive una condizione “oggettivamente” incompatibile con la ricezione dell’Eucaristia può manifestare tale disposizione persino con maggiore profondità di chi invece può accostarvisi. Io posso avere, nei confronti dell’Eucaristia che non posso “oggettivamente” ricevere, una disposizione soggettiva molto più adeguata di quella che ha una persona che invece può oggettivamente riceverla. Che nessuna persona sia degna di ricevere Dio non significa, pertanto, che non ci siano criteri oggettivi che ci consentono di dire che certe disposizioni interiori sono migliori di altre. Quando Gesù loda il pubblicano che, in fondo al tempio, si batte il petto perché sa di non essere degno di stare al cospetto di Dio, ci sta indicando il criterio principale.

 

   Si comprende bene, a questo punto, che a essere incompatibile con la ricezione dell’Eucaristia non è la situazione oggettivamente irregolare che una persona si trova a vivere (essere sposati e convivere con una persona diversa dal coniuge o, perché no, anche essere omosessuali e vivere una relazione affettiva), ma la sua convinzione soggettiva di essere “a posto”. Qualora una simile convinzione si trovi anche in chi vive in situazioni “regolari”, verrebbe meno la giusta disposizione di fronte all’Eucaristia, e non ci sarebbe più differenza, in foro interno, fra chi fa la comunione da “irregolare” e chi la fa da “regolare”. Non a caso la Chiesa, nel momento liturgico che precede la comunione, prega tutta intera con le parole del centurione: “Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa”. Che la Chiesa proponga questa affermazione anche a chi si appresta a ricevere la comunione, chiarisce il vero significato della norma secondo cui solo chi si è confessato di eventuali peccati gravi può accostarsi all’Eucaristia. La confessione sacramentale non corrisponde a un “certificato di buona condotta”, ma, al contrario, a un segno tangibile che si è consapevoli della propria povertà al cospetto della santità di Dio. La comunione, in altri termini, non è mai qualcosa di dovuto a chi, essendosi confessato, ha le carte in regola, ma è sempre ricevuta in dono da chi, proprio perché sa di non avere le carte in regola, si è confessato. Che la comunione non sia un «premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli», insomma, non esclude, ma implica la necessità, per chi la riceve, di riconoscersi peccatore nel sacramento della penitenza. In caso contrario il “debole” finirebbe per credersi “forte”, sovvertendo, nuovamente, il senso dell’Eucaristia, che non a caso significa “ringraziamento”.

 

   Comincia a essere più chiaro, a questo punto, che la concessione dell’Eucaristia come “sanatoria” di situazioni “irregolari” ne distruggerebbe il carattere gratuito. Autorizzare la comunione ai divorziati risposati in nome di un atteggiamento umanamente più misericordioso, paradossalmente, farebbe venir meno proprio la misericordia divina. Normalizzando una condizione oggettivamente diversa da quella annunciata da Gesù nel suo Vangelo, infatti, la si priva di quel carattere di “miseria” che, invece, attira il “cuore” di Dio, come si evince dalla stessa etimologia della parola “misericordia”.

 

  Dopo la pesca miracolosa, Pietro dice a Gesù: “allontanati da me”. Come a dire: tu sei venuto a me anche “se” io sono peccatore, tu hai fatto un miracolo per me, “ma” io non ne sono degno. La Chiesa tiene fermi i “se” e i “ma” proprio per consentire questa esperienza di salvezza. Se venisse meno la consapevolezza della nostra povertà, che i “se” e i “ma” evidenziano, non sperimenteremmo come “grazia” il venire di Dio in mezzo a noi. L’Eucaristia sarebbe “dovuta” come un “diritto”, e non avrebbe più la forma di un incontro personale e gratuito, che non si limita alla comunione sacramentale, ma che prende le molteplici forme che lo Spirito inventa nella diversità delle nostre vite. Diversamente si attribuisce al singolo pastore o alla Chiesa tutta la funzione di “dar prova” di effettiva comunione con Cristo. Come se senza Eucaristia non si potesse essere degli ottimi cristiani. Come se, spesso, non ci fossero più buoni cristiani fra coloro che non si accostano all’Eucaristia piuttosto che fra coloro che, spesso per abitudine o, peggio, per presunzione, vi si accostano. L’idea che una più piena partecipazione alla vita della Chiesa debba passare tramite la concessione dell’Eucaristia alle persone che vivono in una situazione irregolare presuppone che senza Eucaristia non possa esserci partecipazione alla vita della Chiesa. Il sacramento che sancisce l’appartenenza alla Chiesa non è però l’Eucaristia ma il Battesimo.

 

   A ben vedere, con tutti i suoi limiti, e nella sua lunga vicenda storica, la Chiesa, in fondo, ha sempre riprodotto, non solo nel suo magistero ma anche nella vita dei suoi santi, la medesima provocazione che emerge dalla Scrittura, e cioè la proposta di una “conversione” che, in prima battuta, non è alla nostra portata. Solo così, a ben vedere, è possibile fare esperienza della grazia, e cioè di un intervento in cui è chiaro che ad agire non siamo soltanto noi. Ivan Karamazov, nell’immortale romanzo di Dostoevskij, si era domandato come fosse possibile amare il prossimo come se stessi, e si era detto: “è impossibile, ma dobbiamo farlo”. Lo si potrebbe dire anche così: la vita nuova del Vangelo è un “impossibile necessario”, espressione che dice insieme del nostro impegno e del nostro giusto distacco, ossia dell’abbandono fiducioso a Colui che, solo, può portarlo a compimento. Il limite costringe a confidare nella grazia. La sua rimozione trasforma invece il cristianesimo in autoredenzione umana, togliendo ogni spazio all’intervento di Dio. A quel punto, infatti, potremmo fare da noi stessi, perdendo però la sostanza del cristianesimo, che essendo un’esperienza di salvezza, è ultimamente basato su un incontro con ciò che supera le nostre forze e persino la nostra immaginazione. Lo aveva intuito molto bene sant’Agostino, quando, demoralizzato dalla propria incapacità di vivere pienamente i dettami del Vangelo, invece di ridimensionarli appellandosi alla propria coscienza o alla funzione “dispensatrice” e “mitigatrice” dell’epicheia, pregò così: “Signore, dammi ciò che mi chiedi, e poi chiedimi ciò che vuoi”.

 

   Una ricorrente obiezione, a questo proposito, è che porre limiti alla ricezione dell’Eucaristia è incompatibile con l’offerta di una salvezza che limiti, invece, non ne ha affatto. Si tratta di un’obiezione ragionevole, che però confonde l’agire umano con quello divino. È vero che Dio viene incontro all’uomo senza “se” e senza “ma”. Ma perché ciò possa avvenire, dei “se” e dei “ma” devono comunque esserci. In caso contrario nessuno potrebbe fare esperienza della divina capacità di non tenerne conto. La Chiesa non è Dio, ma il luogo in cui Lo si incontra. Per questo essa ha, per così dire, l’ingrato compito di fissare dei limiti, e cioè di chiamare per esempio “peccato” ciò che noi non consideriamo tale, prolungando così una delle opere dello Spirito annunciata da Gesù, ossia di “convincere il mondo quanto al peccato” (Gv 16, 8). Se la Chiesa, in continuità con il Vangelo, non fissasse un limite, nessuno di noi potrebbe fare esperienza della divina capacità di oltrepassarlo. La misericordia non sarebbe più sperimentata come dono di Dio fatto proprio a me, ma sarebbe un diritto ecclesiastico di ogni fedele con le “carte a posto”. Ritorniamo al primato delle opere sulla grazia e finiamo per appiattire il mistero della misericordia divina sulle procedure rituali e canoniche con le quali ci illudiamo di dispensarla a comando. Ma la Chiesa non è un’istituzione umana di welfare spirituale, in cui valgono criteri di giustizia distributiva. È invece il prolungamento dell’azione salvifica di Dio, in cui non sempre riusciamo a capire cosa sta accadendo. E in cui è importante sapere mantenere aperto lo spazio perché intervenga Lui, evitando di trasformare tutto in autogestione umana della misericordia divina. Il clericalismo implicito di questo dibattito è che si pensa che la Chiesa sia Dio, e che dunque possa amministrarne la misericordia a comando, senza lasciare a Dio stesso alcun margine di intervento diretto.

 

   Ed è qui che si manifesta, in fondo, la trascendenza di Dio all’interno di quella logica della mediazione umana che è tipica del cattolicesimo: bisogna capire cosa significa misericordia incondizionata, e a chi spetti, se alla Chiesa o a Dio, esercitarla come tale, ovvero in un modo che sia all’altezza delle aspettative che essa suscita. Che il perdono sacramentale sia sempre disponibile per chiunque ne faccia richiesta, in fondo, significa precisamente questo: Dio ci ha già da sempre perdonati, e attende, tramite il sacramento della riconciliazione, che noi lo accettiamo. Se invece si salta questo passaggio, la comunione diventa l’esito di un cammino ascetico di “riparazione”, che finisce per basare l’esperienza cristiana sulle nostre opere piuttosto che sull’agire divino.

 

   Tutto il Vangelo è caratterizzato dall’insistenza sulla consapevolezza dei propri limiti come condizione per poter incontrare Dio. Chi ha questa consapevolezza incontra già Dio. Ed è per questo che desiderare l’Eucaristia può avvicinare a Dio più di quanto non faccia il riceverla. Valga su tutte, a questo riguardo, una splendida pagina di Maurice Bellet: «Capita ad alcuni di non gustare che assenza e prova. Se qualcuno si trova allora senza Dio, senza pensieri, senza immagini, senza parole, resta almeno per lui questo luogo di verità: amare il fratello che vede. Ma se non giunge ad amare, perché è sommerso, solo, amareggiato, sconvolto, resta almeno questo: desiderare l’amore. E se persino questo desiderio gli è inaccessibile, a causa della tristezza, del non senso, della crudeltà da cui si sente inghiottito, resta ancora che può desiderare di desiderare l’amore. E può essere allora che questo desiderio umiliato, proprio perché ha perso ogni pretesa, tocchi il cuore di Dio. Non è su ciò che tu sei stato, né per ciò che sei, che ti giudica la misericordia, è su ciò che hai desiderato di essere» (M. Bellet, Incipit o dell’inizio, Servitium, 1997, p. 68).

 

 

 

 

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