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Per una corretta gestione dei conflitti nella Chiesa

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di Giuseppe Savagnone

 

 

Ho visto anch’io su Internet l’appello «Fermiamo gli attacchi a papa Francesco», lanciato da gruppi e associazioni ecclesiali all’indomani dell’articolo fortemente critico di Vittorio Messori sul «Correre della Sera». Ma non l’ho firmato. Chi segue le mie riflessioni su «Tuttavia» non può avere dubbi sulla mia piena adesione alla linea inaugurata e coraggiosamente perseguita dall’attuale pontefice. Ma non mi sembra corretto che la Chiesa si divida in un “partito del papa” e in uno “contro”. Il papa, vescovo di Roma, presiede nella carità la vita di tutta la Chiesa e non è, perciò, oggetto di una scelta di parte. Chi, anche in perfetta buona fede, lo confina in questo ruolo, finisce involontariamente per indebolirne l’autorità, che non deve né può dipendere dal numero dei suoi sostenitori.

Ciò non significa che non sia possa avanzare delle critiche nei suoi confronti. Rispettarne la singolare dignità del Vicario di Cristo non vuol dire sacralizzarlo e farne un idolo, come a volte in passato si è fatto.  Il papa è un uomo e, quando non si pronunzia ex cathedra, può benissimo essere soggetto ad errori di valutazione più o meno gravi. Lo ha confermato e testimoniato, con ammirevole umiltà e onestà intellettuale, il predecessore di Francesco, Benedetto XVI quando, nel marzo del 2009, inviò una lettera a tutti i vescovi della Chiesa, per scusarsi della gaffe commessa con la remissione della scomunica al vescovo lefevriano mons. Williamson, ignorando che fosse un negazionista dell’olocausto. «Mi è stato detto», scriveva allora Benedetto, «che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema. Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestare più attenzione a quella fonte di notizie».

Alla luce di questa bella confessione di fragilità da parte di un sommo pontefice, si capisce bene che non c’è nulla di male nel mettere rispettosamente in questione le posizioni del papa. Così come è naturale che ci sia chi invece ne evidenzi le ragioni e ribatta a queste critiche. Altrimenti la Chiesa sarebbe condannata al silenzio! Del resto, non ci sono stati dei contrasti anche nella comunità primitiva: tra i giudeo-cristiani e i cristiani ellenisti, tra Pietro e Paolo… L’unità della Chiesa  non può essere intesa come un blocco monolitico.

Il problema è di gestire correttamente questi conflitti, di per sé  assolutamente fisiologici, e non trasformarli in una sottile violenza reciproca. Perché il conflitto, come insegna la scuola di pensiero che va sotto il nome di “nonviolenza”, è di per sé un’importante occasione di scoperta dell’altro e di se stessi. Cosa sarebbe la relazione tra due innamorati senza un margine di conflittualità? E i conflitti tra genitori e figli non sono forse importanti per la maturazione di entrambi? Più a monte, ognuno di noi cresce attraverso i propri conflitti interiori. La violenza non è il conflitto, ma una gestione scorretta di esso, che porta ad eliminare l’altro, chiudendo così – ma nel peggiore dei modi – il conflitto stesso.

Ciò può avvenire attraverso una eliminazione fisica (Caino e Abele), ma anche appioppando all’altro una maschera che ne nasconde il vero volto. È questo che nella Chiesa dobbiamo stare attenti ad evitare, dall’una e dall’altra parte. L’articolo di Messori era sbagliato non perché esprimesse delle perplessità sulle posizioni del papa, ma perché ne dava una versione che le falsava. Un esempio per tutti: la telefonata di solidarietà a Pannella, che Messori cita come una evidente contraddizione con le posizioni della Chiesa in materia morale, era esplicitamente riferita alla battaglia del leader radicale per migliorare le disumane condizioni di vita dei carcerati (spesso ancora in attesa di giudizio). Non andava detto questo ai lettori, per aiutarli a capire che – opportuna o sbagliata che sia stata la scelta del papa – essa comunque non era affatto un tradimento della linea morale della Chiesa?

Questa attenzione a non imprigionare l’altro in una maschera dovrebbe spingerci a evitare le etichette che, nel dibattito in corso su temi scottanti, come quello della famiglia, spesso dividono i cattolici in “conservatori” e “progressisti”. Quando è in gioco la duplice fedeltà a Dio e all’uomo, richiesta dalla fede in Gesù Cristo, non ha senso parlare in termini di strategie politiche. Sono personalmente favorevole ad alcuni cambiamenti sollecitati da papa Francesco, ma non perché sono un “progressista”, bensì semplicemente perché mi sembra rispecchino meglio il volto della Chiesa di Gesù. Altre novità, proposte a volte nel dibattito teologico e morale, mi sono sembrate invece un tradimento del Vangelo e le ho rifiutate, senza per questo ritenermi un “conservatore”.  

Ciò che conta, allora, non è essere d’accordo su tutto, ma di evitare le logiche di “partito” e di riconoscere, in chi non condivide le nostre idee, un fratello, una sorella, che in nome della nostra stessa fede sostengono le proprie. Su questa base, è fondamentale sapersi ascoltare a vicenda.  Il conflitto, dicevo prima, può essere un importante momento di crescita. A patto che si sia disposti ad accogliere con simpatia l’anima di verità che c’è  anche nelle tesi di chi, a nostro avviso, è in errore. Come insegna il Concilio Vaticano II, quando chiede «che innanzi tutto nella stessa Chiesa promuoviamo la mutua stima, rispetto e concordia, riconoscendo ogni legittima diversità, per stabilire un dialogo sempre più profondo (…). Sono più forti infatti le cose che uniscono i fedeli che quelle che li dividono; ci sia unità nelle cose necessarie, libertà nelle cose dubbie e in tutto carità» (Gaudium et Spes, n. 92).

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