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NO ALLA CULTURA CALATA DALL’ALTO. DIALOGO, ASCOLTO E UN LINGUAGGIO NUOVO. Intervista esclusiva di Tuttavia.eu

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 Intervista a Don Antonio Sciortino

di Luciana De Grazia

 

Abbiamo incontrato don Antonio Sciortino in occasione della conferenza tenutasi il 15 novembre presso la nuova “Libreria Paoline”. Il direttore del settimanale Famiglia Cristiana si è aperto in una conversazione franca e non retorica, in cui ha toccato i temi che gli stanno più a cuore. Educazione, mass media, laicato, Vaticano II, impegno politico. Temi trattati con lo stile del cristiano che guarda al futuro.

Pubblichiamo di seguito questa preziosa conversazione con lui e ne approfittiamo per ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile questo incontro.

 

 

In un’epoca caratterizzata da una forte omologazione qual è oggi la sfida educativa per la ricerca di autenticità?

Il problema dell’educazione è oggi la vera emergenza. Giustamente i Vescovi in questo decennio hanno programmato l’orientamento pastorale su questo tema: raccontare la vita buona del Vangelo chiamando in causa tutte le agenzie educative dalla famiglia, alla scuola, alla parrocchia, all’oratorio e soprattutto i mezzi di comunicazione.

Bisognerebbe dare maggiore attenzione ai mezzi di comunicazione, perché spesso sottovalutiamo quanto influiscano sulle nuove generazioni. I ragazzi sono spesso disorientati, anche perché scuola e famiglia dopo anni di alleanza adesso camminano su vie parallele e non dialogano più insieme. Siamo in quel relativismo morale da cui ci mette in guardia Benedetto XVI e che viene accentuato sempre di più anche per l’uso non corretto dei mezzi di comunicazione, in particolare dei nuovi media che i ragazzi praticano e usano con maggiore frequenza. Il rischio, infatti, è che senza un’educazione questi nuovi media, che sono straordinari, aumentino la loro confusione.

 

A chi spetta educare all’utilizzo di questi mezzi di comunicazione? Difficile pensare che possano farlo i ragazzi da soli.

No anzi, ci sono ragazzi che sono obesi e bulimici da internet e che bisogna disintossicare. Penso soprattutto alla scuola e alla famiglia, anche se dobbiamo chiederci se la scuola e la famiglia sono in grado di svolgere questo ruolo.

Umberto Eco, che è stato uno dei primi studiosi di internet e dei fenomeni legati alla rete, diceva che forse oggi non ci sarebbe neanche bisogno dell’insegnante, perché i ragazzi possono trovare tutte le informazioni che cercano su internet. Però paradossalmente, alla fine, sostiene che proprio oggi è importante il ruolo dell’insegnante e dell’educatore.

Il problema è la formazione degli insegnanti e degli educatori. Per cui per la Chiesa e per la società la sfida da affrontare è quella educativa: bisogna ricreare l’alleanza tra la scuola, la famiglia, l’oratorio e soprattutto i mass media. Non importa solo la quantità di informazioni che i ragazzi possono avere, bisogna insegnare a contestualizzare e a stabilire delle priorità, perché internet non distingue, mette tutto sullo stesso livello.

 

Lei parla di scuola, di famiglia, di oratorio e a me viene in mente l’impegno del singolo insegnante, della singola famiglia o del singolo parroco.

E’ il problema della nostra società che è diventata sempre più individualista, abbiamo smarrito il senso comune, l’orientamento. Mi piace citare una frase che è nell’ultimo libro del Cardinale Ravasi, in cui si fa riferimento alla metafora della navigazione di Kirkegaard e dice che quello che oggi interessa non è più la rotta: ciò che noi ascoltiamo è un megafono di bordo che annuncia non la rotta, ma il menù del giorno dopo.

Abbiamo davvero smarrito il senso, la direzione e anche la proporzione delle cose. Per questo è importante che ai ragazzi si dia la possibilità di dare senso, di dare una gerarchia. I nuovi mezzi di comunicazione sono straordinari e non bisogna assolutamente demonizzarli, anzi noi ci chiediamo come facevamo prima quando non esistevano. Però bisogna utilizzarli bene anche per l’educazione e per l’evangelizzazione.

Il rischio è che oggi non si riesca più a parlare con i giovani perché abbiamo un linguaggio differente. Vittorino Andreoli nel suo libro “Preti. Viaggio fra gli uomini del sacro” dice che la situazione da cui i preti devono rifuggire è di continuare a fare quello che hanno sempre fatto, perché non ci si rende conto che, nel frattempo, il mondo è cambiato e con esso anche il linguaggio.

 

Come questo nuovo linguaggio a cui fa riferimento influenza l’opera di evangelizzazione?

La nuova evangelizzazione non è nuova perché si danno nuovi contenuti, ma perché si devono utilizzare nuovi linguaggi. Non si tratta di un uso strumentale, ma di entrare nella logica di questi messaggi, è un’incarnazione del messaggio del Vangelo in una nuova forma di comunicazione.

Evangelizzare oggi è comunicare, ma non si tratta semplicemente di un uso strumentale dei mezzi di informazione. Bisogna usare una nuova logica per fare passare il messaggio. È quanto mai attuale ciò che ha detto Paolo VI, secondo il quale il dramma è che la cultura e la fede non si incontrano più. E’ invece importante far dialogare la cultura e la fede. Questo mondo è diventato quasi refrattarioal messaggio del Vangelo e non c’è niente di peggio della impermeabilità, dell’indifferenza.

Credo che sia questo lo sforzo maggiore che si deve fare: creare un ponte tra la fede e la cultura.

La nuova evangelizzazione deve riuscire in questa sfida. Siamo in un periodo di fervore per la Chiesa: abbiamo appena cominciato l’Anno della Fede, il cui inizio è coinciso con i 50 anni del Concilio Vaticano II e il Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione cristiana.

Questi momenti non devono essere solo celebrazioni, ma motivo di riflessione per la Chiesa su cosa significa essere cristiani in un contesto che non è più quello del secolo scorso caratterizzato da una società tutta cristiana. Oggi viviamo in una società che è diventata multiculturale, multietnica e multireligiosa e, quindi, il rapporto con le altre religioni e culture è determinante per noi cristiani e anche qui la sfida si vince non chiudendosi e alzando le barriere, ma creando ponti di dialogo e di reciproco rispetto.

E’ un falso problema quello che, per rispetto del credo religioso, dobbiamo rinunciare ai nostri simboli religiosi. Ricevo continuamente lettere di insegnanti e presidi sull’esposizione dei simboli religiosi nelle scuole; adesso l’ultimo numero di Famiglia cristiana l’ho dedicato a questo tema: perché il presepe no e la festa delle zucche si.

 

Secondo lei cosa si può fare per favorire la formazione di un laicato attivo e responsabile che sia meno timido nei confronti del clero?

Ho scritto tante volte con chiarezza che il futuro della Chiesa si gioca sui laici. Su questo non siamo andati avanti rispetto al Concilio Vaticano II. Il Concilio aveva scoperto la dignità e la vocazione dei laici in forza del comune battesimo, capovolgendo la concezione di Chiesa piramidale e gerarchica a favore di una Chiesa come popolo di Dio, dove tutti hanno la stessa dignità e la stessa missione, pur con diversità di compiti e di funzioni.

 

Pensa che ci sia il problema della clericalizzazione?

In parte, si. Invece di valorizzare i laici secondo quanto era stato indicato dal Concilio Vaticano II, abbiamo clericalizzato anche i laici, per cui essi sono rimasti ancora una volta cristiani di serie B, dei gregari.

Il laicato è così importante che Lazzati, che era una figura eminente di laico, diceva che come ci sono i seminari per formare i preti bisognerebbe prevedere dei seminari per formare i laici. Ci sono dei terreni che sono specifici per i laici come il terreno del sociale o della politica dove i laici formati e preparati possono calare il messaggio evangelico nella realtà.

Però bisogna che i laici ritornino a rivendicare all’interno della Chiesa gli spazi di autonomia e di libertà che gli sono dovuti. La grande rivoluzione del Concilio Vaticano II è stata la gerarchia a servizio del Popolo di Dio, non il Popolo di Dio a servizio della gerarchia.

Noi abbiamo dimenticato troppo in fretta questi concetti. Il Concilio aveva espresso anche il tema della piena valorizzazione del laicato cattolico; si parla di corresponsabilità che non è mai stata attuata in questi anni da parte della Chiesa. Il laico ha una sua specifica vocazione e bisogna rivendicare e affermare questa identità, questa vocazione laicale. Il futuro si gioca davvero su questo: bisogna pensare alla Chiesa come popolo di Dio, non come piramide. Questo dovrebbe essere uno dei rinnovamenti per i 50 anni del Concilio, affinché questa ricorrenza diventi un momento per riflettere su cosa è oggi la Chiesa a 50 anni dal Concilio Vaticano II, perché ci sono tanti aspetti che non sono stati ancora attuati.

 

Secondo lei per cosa verrà ricordato il 2012 nel mondo cattolico: per l’anniversario del Concilio Vaticano II, per il ventennale del Catechismo della Chiesa cattolica o per l’anno della Evangelizzazione che si è appena aperto?

Questi eventi sono tutti molto importanti. Io vorrei che fosse ricordato per il Concilio Vaticano II, perché è stato una svolta notevole non solo per la Chiesa, ma per tutti.

Con il Vaticano II la Chiesa si è aperta al mondo e ha dato un segno di speranza e di ottimismo in un momento in cui il mondo era lacerato dai conflitti. La Chiesa ha svolto un’opera importantissima, aprendosi al mondo e dicendo che non era qualcosa di separato dalla storia: la Chiesa cammina nella storia con gli uomini del proprio tempo e ne condivide la gioia e le speranze, ma anche le angosce e le tristezze, con una particolare attenzione per coloro che più hanno bisogno.

Vorrei che si riflettesse e si ritornasse oggi a quella ventata di ottimismo, di apertura e di speranza, perché l’opera dello Spirito è di saper parlare agli uomini di oggi, con il linguaggio degli uomini di oggi per vivere accanto agli uomini di oggi.

Non c’è una storia sacra e una profana: la storia è unica.

 

Lei dirige Famiglia Cristiana ormai da tanti anni e durante questo decennio ha trattato molti temi delicati, attirandosi le critiche e i consensi di parti politiche contrapposte. Secondo lei verso quale periodo politico ci avviamo?

Oggi la politica è davvero nel massimo della confusione e del discredito da parte dell’opinione pubblica, perché ha smarrito la sua funzione. Ciò a cui assistiamo oggi non è politica: è una degenerazione della politica.

La politica è servizio, mentre oggi chi fa politica si serve della politica. Dovremmo tornare a quella concezione alta della politica che aveva Paolo VI. In questo i cattolici avrebbero potuto svolgere un ruolo importante, invece hanno mancato al loro mandato, perché si sono accodati alle linee del partito e non hanno avuto il coraggio di mettere il Vangelo come principio dell’azione politica.

Abbiamo assistito soprattutto in questi ultimi anni a cattolici che hanno votato leggi che contrastavano con i principi cristiani. Pensiamo ai provvedimenti che hanno discriminato per il colore della pelle o della provenienza. Questo ha portato la politica ha un degrado umano, civile e anche cristiano. L’Italia avrebbe potuto segnare la strada per una vera integrazione con gli stranieri, nel rispetto della legalità e della sicurezza. Abbiamo acconsentito che in questo paese ci fossero delle leggi xenofobe e addirittura razziste.

Sono stato molto forte nel contrastare i politici cattolici che avevano votato questi provvedimenti, perché avrebbero dovuto indicare la strada dell’integrazione e dell’accoglienza.

Nella Bibbia e nel Vangelo è molto radicato il rispetto degli altri, del diverso, del rispetto dello straniero. Già nella Bibbia si ricordava al popolo ebraico che era stato schiavo in Egitto e gli si ricordava di non fare patire agli stranieri quello che a sua volta aveva patito. “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete accolto”: cosa ne abbiamo fatto dei principi evangelici, perché siamo stati così timidi in un momento in cui era forse la stessa società laica che chiedeva da parte dei cattolici una maggiore presenza etica?

 

Pensa che possiamo intravedere dei cambiamenti per il futuro?

Ci sono dei segnali positivi. E’ importante che in politica ci sia la presenza di una certa società civile. Bisogna cercare di attuare i principi aderenti al Vangelo. C’è un’Italia che si è rimboccata le maniche, che è stata accogliente e che ha sopperito alle mancanze istituzionali. Bisogna che questo emerga e non emerga solo l’Italia che occupa i salotti televisivi, che poi è minoritaria, anche se fa più opinione.

E qui entra in gioco la cultura.

Perché sono scomparsi, in un momento così difficile come quello che ha passato l’Italia in questi ultimi 20 anni, gli uomini di cultura che avrebbero potuto fare opinione?

Anche dal punto di vista cattolico, tanti centri di cultura avrebbero potuto essere molto più vivaci. Bisognerebbe che sui fatti concreti fossero anche i laici preparati ad intervenire per essere punto di riferimento all’interno dell’opinione pubblica

 

In che modo Famiglia cristiana contribuisce alla formazione dell’opinione pubblica?

Intanto con le nostre prese di posizione, nel mantenere vivo un dibattito quando in questo paese si stanno spegnendo tutte le voci critiche. La diversità di opinione su tutto quello che capita anche all’interno della Chiesa non è una eresia, è una ricchezza.

In questo paese si è vissuto in questi ultimi anni, dal punto di vista politico, quasi un pensiero unico. Anche i mezzi di informazioni hanno le loro responsabilità. I mezzi di comunicazione devono alimentare il dibattito, affinché l’opinione pubblica si possa fare un’opinione e possa scegliere con cognizione di causa. Invece i mezzi di informazione si sono un po’ asserviti ai vari poteri e potenti di turno. Non hanno svolto il ruolo di servire la verità. Il calo della democrazia in un paese va di pari passo con i mezzi di informazione; è una cartina di tornasole importantissima.

In questo paese ci vuole maggiore opinione pubblica nella società, ma anche all’interno della stessa Chiesa. La vivacità delle idee che c’erano all’epoca conciliare erano segni di speranza.

Monsignor Bettazzi, che abbiamo intervistato recentemente in occasione dell’anniversario del Concilio, diceva che alla gerarchia spetta l’ultima parola, ma l’ultima parola viene dopo che ce ne sono state tante altre. La Chiesa deve tornare a questa vivacità, a non avere paura del dialogo e del confronto. Come diceva San Paolo, ci si può fare santi attraverso la politica, che non è una cosa sporca. E’ sporco il modo in cui l’abbiamo attuata. Bisogna tornare alla formazione anche nella politica.

 

In molti paesi europei si è provveduto al riconoscimento delle coppie di fatto, ma la politica a sostegno della famiglia tradizionale è decisamente migliore della nostra.

Non crede che oggi assistiamo ad una contraddizione in Italia tra la difesa della famiglia tradizionale, spesso contrapposta alle coppie di fatto, e l’assenza di una politica a sostegno della famiglia?

Ho scritto un libro sulla famiglia e mi sono chiesto come si può dichiarare cattolico un paese che nei fatti, non a parole, fa così poco per la famiglia.

La famiglia è una risorsa fondamentale su cui si investe poco: è un capitale umano, sociale ed economico. Anche dal punto di vita economico investire sulla famiglia vuol dire avere un ritorno, non solo dal punto di vista sociale, come coesione sociale.

I paesi che meglio superano la crisi sono quelli che hanno delle politiche sociali sostanziali. Noi invece ci limitiamo a dare dei piccoli contributi. La laicissima Francia ha una politica familiare degna di quel nome.

Noi siamo un paese che dal punto di vista demografico si sta suicidando, perché siamo uno dei paesi più vecchi al mondo. La nostra politica è anche miope, perché non sa guardare avanti. Oggi tutti vogliono essere famiglia, quando la famiglia così come riconosciuta nella costituzione all’art. 29 viene sbeffeggiata e dal punto di vista politico non ha nessun aiuto, se non episodico.

I figli non sono un affare solo privato, sono una ricchezza per il paese. Mi chiedo se sia ancora cattolico un paese che parla tanto di famiglia e poi concretamente non fa nulla o fa davvero poco.Ci sono anche dei dati terribili per quanto riguarda il lavoro femminile: in Italia avere un figlio diventa una scommessa, perché non ci sono aiuti. Dopo il primo figlio molte donne sono costrette a lasciare il lavoro.

La cosa peggiore è che il figlio in Italia non è un fattore di crescita e di ricchezza, ma di povertà. C’è anche un altro dato su cui bisogna riflettere: la media del lavoro femminile in Italia è al 40%, mentre negli altri paesi europei è sul 60%. Nel sud dell’Italia il lavoro femminile è al 24%: già all’interno della stessa nazione bisogna lavorare per recuperare questo divario. E’ necessaria una politica di sostegno affinché si possa conciliare lavoro e famiglia, senza dovere essere costretti a scegliere.

 

Secondo lei cosa può voler dire fare cultura cristiana a Palermo, in una terra di contraddizioni, nella terra di Falcone e Borsellino, ma anche nella terra di Riina e Brusca? In che modo diffondere la cultura può avere un effetto tangibile nella società siciliana?

Io non sono palermitano, ma, per quanto mi è possibile, seguo le vicende di Palermo e della Sicilia. Credo che qui ci sia una ricchezza immensa che non viene assolutamente valorizzata.

Bisogna tornare a partire dal rispetto della legalità e dai valori quale l’onestà. Bisognerebbe eliminare la cultura del favore e valorizzare il merito. Bisogna che la società civile cresca nel riconoscere e affermare i diritti, altrimenti tutto diventa un favore, tutto ha un prezzo. Bisogna puntare molto sulla formazione e sulla educazione. La mafia non è solo una questione di polizia, perché i ranghi si rinnovano. Bisogna puntare sulla formazione delle nuove generazioni, togliere il terreno da cui la mafia attinge le nuove leve.

E’ quello che faceva don Puglisi, che non faceva nulla di straordinario: non era un eroe che gli altri non possono seguire, perché solo gli eroi possono fare quello che ha fatto. Don Puglisi, per quello che io conosco, era una persona normalissima che faceva il suo compito, che era quello di annunciare il Vangelo, di stare a fianco delle categorie più deboli.

Solo incidendo sulla cultura e sulla formazione si possono cambiare molti fenomeni malavitosi. Bisognerebbe anche capire che le persone oneste sono di più rispetto ai mafiosi e bisognerebbe affermare questa maggioranza. Per cui tutto quello che si può fare è far crescere le nuove generazioni con una mentalità diversa, puntare molto sulla formazione e sull’annuncio del Vangelo senza tanti compromessi. Padre Puglisi ha pagato con la vita questa sua coerenza col Vangelo ed è quello che è chiesto a tutti i preti.

La mafia si combatte annunciando il Vangelo. Questa è la migliore lotta nei confronti della mafia: educare i giovani ai valori e ai principi etici, al rispetto della legalità, all’onestà, alla partecipazione a favore delle categorie più deboli.

 

Famiglia cristiana è diventata un punto di riferimento per la cultura. Ci può dare un suggerimento su come il nostro sito, che appena cominciato ad operare, possa diventare un luogo di dialogo e di confronto?

Bisogna abbandonare l’idea di calare la cultura dall’alto e mettersi nella disposizione dell’ascolto che prepara anche al dialogo. Dare risposte a domande che non si pongono, sono risposte che poi cadono nel vuoto. Quindi non fare un’operazione dall’alto, ma un’operazione che in qualche modo parta dal basso e cresca dal basso, mettendo in dialogo e in comunicazione le tante realtà che esistono e che spesso non si conoscono tra di loro.

 

L’impressione è che manchi una sinergia tra le diverse realtà all’interno della diocesi: ogni parrocchia lavora sul suo territorio, ma difficilmente comunica con quella che ha accanto.

Credo che si debba fare rete; bisogna cominciare dalla semplice conoscenza perché tante volte non si conoscono le belle realtà che possono diventare un modello e un esempio.

Per cominciare già è importante mettere in comune la ricchezza che c’è e che spesso è ignorata.

Quindi superare gli atteggiamenti di diffidenza o di chiusura. Non è un lavoro semplice ma andiamo a toccare il cuore della nuova evangelizzazione, che è proprio quella di calare nella cultura i principi cristiani. Alberione diceva che, quando si gira con la cultura, è come se pescassimo con la rete e non con l’amo, perché davvero incidiamo sulla cultura.

Per cui la prima cosa da fare è mettere in comune le ricchezze che esistono, per poi farle dialogare tra di loro.

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