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Misericordia giuridica e misericordia biblica

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di Andrea Volpe

 

   La parola misericordia in genere nel linguaggio comune fa pensare a qualcuno che magnanimamente concede un bene a qualcun altro, ma con atteggiamento distaccato e con grande manifestazione di autorità: la grazia concessa ad un condannato è un atto di misericordia giuridica, che si dà proprio perché c’è un’autorità “altra e distante” che ha il potere di farlo!

 

   Questo usuale modo di intendere la misericordia di ordine giuridico, talvolta persino in ambito ecclesiale falsa il significato della misericordia biblica, perché essa nella Sacra Scrittura non si caratterizza nei termini e nei limiti di una concessione o di una benevola comprensione, che qualche soggetto attivo concede a qualche altro soggetto passivo.

 

   La misericordia biblica è invece qualcosa di molto diverso. Essa è un atto primariamente teologico con duplice valenza:

  1. agente principiale e generante della misericordia è personalmente Dio;
  2. la misericordia di Dio esige la sua “imitazione” da parte umana ed è normativa sia per il pio ebreo dell’Antico Testamento sia per il cristiano del Nuovo Testamento.

 

   Per l’esplicitazione della natura della misericordi biblica, un valido punto di partenza risulta l’analisi di alcuni termini con i quali essa viene indicata nelle Sacre Scritture.

 

   In primo luogo, dalla sua etimologia latina misericordia vuol dire “miser cordis”, cioè “misero di cuore” o meglio “con un cuore misero”, ossia un cuore desideroso di sostentarsi di amore: compare già qui la natura contrastata della misericordia, che si sostanzia nell’ossimoro di una povertà di cuore che si allieva donandosi. La povertà della misericordia diventa dono per chi la riceve e gioia per chi la offre.

 

  Continuando, nel linguaggio biblico veterotestamentario questo stato d’animo viene espresso in primo luogo con ‘hesed’, che pur provenendo dalla stessa radice ‘sdq’ di giustizia, però in effetti risulta più vicino al concetto di bontà o di fedeltà ed è tuttavia proteso soprattutto verso una disposizione d’animo personale affettuosa, non disgiunta dalla volontà pratica di un immediato intervento salvifico.

 

   Un altro termine ancora più sorprendente per l’Antico Testamento per esprimere la misericordia divina è ‘rahamim’, che è un vocabolo appartenente all’ambito anatomico e che fa riferimento all’utero, cioè l’organo della riproduzione umana: per Dio la misericordia è una questione viscerale, nel senso che riguarda il suo rapporto materno nei confronti dell’uomo e in questa prospettiva supera la visione unidirezionale dell’amore ed apre alla reciprocità tra il donatore, che è Dio, e il ricevente, che è la persona umana oggetto di misericordia, allo stesso modo della reciprocità che si instaura durante la gestazione tra madre e figlio, dove le naturali asimmetrie tra gestante e il frutto del suo ventre non sono distacco, ma archetipo di amore incondizionato e incondizionabile.

 

   L’atto di misericordia così prospettato, da parte di Dio si configura come un vuoto trasbordante impegnato a colmarsi di amore donato, dove la reciprocità asimmetrica tra Dio e l’uomo fonda l’azione salvifica resa possibile dalla volontà divina.

 

   Quindi l’essere misericordioso da parte di Dio è esattamente l’opposto di un’azione che crea distanza tra benefattore e beneficiato o sbilanciamento di autorità tra il donante misericordia e il ricevente.

 

   Infine nel Nuovo Testamento è Gesù Cristo che si mostra come il volto della misericordia del Padre: in Lui, vero Dio e vero uomo, non c’è più né distanza né separazione autoritaria tra il divino e l’umano, ma solo compartecipazione e compassione al vissuto esistenziale ed esperienziale dell’umanità tutta.

 

   Così compresa, la misericordia per i cristiani appare l’unico programma esistenziale possibile per la vita di fede e illumina le ragioni che hanno indotto Papa Francesco a sceglierla come la “pietra d’angolo” sulla quale edificare il suo pontificato.

 

 

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