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Miseria e nobiltà: il Nobel che svela l’Europa

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«Abbiamo vinto il Premio Nobel per la pace!». Possiamo gioire così per l’assegnazione del premio 2012 all’Unione Europea: noi tutti, suoi cittadini e protagonisti, più o meno convinti e consapevoli, della sua costruzione, riceviamo il Nobel perché l’UE «da oltre 60 anni – afferma il Comitato Nobel norvegese che lo assegna – contribuisce al progresso della pace e della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani in Europa».

 

La notizia ha suscitato innanzitutto sorpresa, in Italia come nel resto d’Europa, percepibile sia nell’entusiasmo degli europeisti convinti, sia nella stizza degli euroscettici. Era difficile prevedere l’assegnazione di un premio all’UE proprio in un momento in cui essa non gode certo di “buona stampa”; il processo di integrazione del continente sta vivendo una fase molto difficile, i partner appaiono più divisi che uniti, anzi, spesso contrapposti: Paesi con i conti a posto contro Paesi in crisi economica, Nord contro Sud, centro contro periferia, ecc.; in non pochi Paesi vanno sviluppandosi sentimenti antieuropei (l’Inghilterra prima fra tutti), risentimenti contro altre nazioni (la Germania in particolare), tentazioni di isolamento, dubbi sul fatto che stare in Europa corrisponda davvero all’interesse nazionale. Assai più logico sarebbe parso attribuire questo premio all’UE in altri momenti, ad esempio nel 2004, in occasione del suo allargamento più significativo, quello verso Sud e, soprattutto, verso Est, che sigillò, a 15 anni dalla caduta del muro di Berlino (novembre 1989), la fine del processo di riunificazione di un continente rimasto diviso all’indomani della Seconda guerra mondiale.

Chi ha assegnato il premio ha dunque preso il classico “granchio”? Forse, ma è possibile anche che abbia scorto qualcosa che i nostri occhi, troppo abituati a spiare i segni di crisi o a cercare segnali che almeno possano scongiurare le paure più grandi, non riescono a percepire. In questo senso ha reagito l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, la cui esperienza anche in campo europeo non consente di dubitare dell’acutezza della sua vista: «La notizia del Nobel per la pace all’Unione Europea mi ha emozionato. Vi ho scorto una scintilla, piccola, ma non tanto da non poter ravvivare – voglio sperare in modo non effimero – il grigiore che da troppo tempo avvolge l’orizzonte europeo». E precisa di non riferirsi in prima battuta alla crisi economica, ma «a un infiacchirsi dello spirito, a un ripiegamento su se stessi che toglie slancio e capacità di guardare avanti» (Rampino A., «Ciampi: scintilla che ravviva un grande progetto», in La Stampa, 13 ottobre 2012).

In questa chiave proveremo ad andare alla radice della emozione suscitata dal Nobel per la pace all’UE, alla ricerca di quella realtà che sembra rimanere nascosta agli occhi dei più e che, invece, può essere di grande importanza soprattutto in un momento faticoso come quello che stiamo attraversando come europei, certamente, ma anche come cittadini di quel pezzo di Europa che è il nostro Paese. La notizia del Nobel è arrivata, infatti, in un periodo in cui eravamo – come siamo tuttora – travolti dai troppi scandali nella gestione della cosa pubblica, che non fanno che alimentare il distacco e la sfiducia verso una democrazia rappresentativa apparentemente incapace di funzionare, bloccata da meccanismi che ne contraddicono tanto profondamente gli ideali. Anzi, l’abitudine generata dal ripetersi di questi fenomeni sembra addirittura riuscire ad anestetizzare quel sussulto che spesso gli scandali riescono a mettere in moto.

Il Nobel ci permette di sottolineare alcuni punti di una «prospettiva adeguata», di «lungo respiro» di cui il nostro Paese ha bisogno, come giustamente ricordava il cardinale Bagnasco nella sua prolusione al Consiglio permanente della CEI del 24 settembre 2012: «Siamo in obbligo però di constatare che c’è carenza di quella visione capace di tenere insieme i diversi aspetti dei problemi e coglierne i nessi, abbarbicati come spesso si è alla propria visione di parte, quando non al proprio tornaconto personale. Bisogna che si reagisca con un ripensamento anzitutto spirituale e morale, il quale solo può abilitare ad un realismo crudo ma fiducioso, aperto al superamento non demagogico della situazione. Il nostro popolo tiene, resiste […] ed esige la nuda verità delle cose, pur senza lasciarsi imprigionare da prospettive solamente negative e deprimenti. È in questa cappa di sfiducia, infatti, il fattore più pernicioso e pervasivo».

 

Anatomia di un premio

Il Premio è il riconoscimento di quello che il Comitato Nobel ritiene il più significativo risultato raggiunto dall’UE: «l’impegno coronato da successo per la pace, la riconciliazione e per la democrazia e i diritti umani. Il ruolo di stabilità giocato dall’Unione ha aiutato a trasformare la gran parte d’Europa da un continente di guerra in un continente di pace». Ma per comprendere appieno la portata del Premio occorre entrare più in profondità nelle motivazioni che il comunicato menziona in maniera relativamente rapida. Nel farlo, riporteremo varie citazioni dei padri ispiratori dell’UE, in particolare di Jean Monnet (1888-1979) e Robert Schuman (1886-1963), per renderci conto di come una visione che all’epoca appariva quanto meno idealistica abbia preso corpo e ancora ci possa aiutare ad avere un orizzonte verso cui procedere.

 

a) Lo spessore della pace

Il Comitato Nobel ricorda la lunga serie di guerre che hanno insanguinato l’Europa, a partire dai tre conflitti che hanno opposto Francia e Germania tra il 1870 e il 1945, concludendo che oggi una guerra tra questi due Paesi è «impensabile». Raggiungere questo risultato, storicamente straordinario, è stato possibile perché fin dalla sua nascita l’UE se lo è posto come obiettivo. Il primo e fondamentale mezzo per raggiungerlo è stato partire da una nozione integrale di pace: non solo l’assenza di guerra e nemmeno solo la firma di patti e trattati (che sono necessari, ma non sufficienti). Come spiegava Jean Monnet, «la pace non è solo una questione di trattati o di intese (commitments). Dipende fondamentalmente dal creare le condizioni che, pur non potendo cambiare la natura umana, guidino il comportamento reciproco dei Popoli in una direzione pacifica» («Speech, Washington, 30 April 1952», in Pointers for a method, thoughts on the construction of Europe, Fayard 1996, 106).

La pace non è dunque solo un fatto formale, ma deve avere una sostanza, concreta e simbolica: per questo la motivazione del Nobel insiste sul legame tra promozione della pace, della democrazia e dei diritti umani. La pace, la riconciliazione, la concordia sono sostenibili solo a precise condizioni. Non basta dire no alle spinte nazionalistiche firmando dei trattati – in questo sta la radice del fallimento della Società delle nazioni che, pur animata da nobili ideali, non riuscì a frenare il precipitare dell’Europa e del mondo verso la Seconda guerra mondiale –; occorre disinnescare le micce che possono far esplodere i conflitti: la povertà, la corrosione della democrazia con il senso di alienazione e di impotenza che ne deriva, il rarefarsi dello Stato di diritto che poco a poco “sdogana” abusi sempre più grandi. Aver capito questo e aver agito di conseguenza è la grandezza dei fondatori della costruzione europea e dei loro successori, che oggi viene premiata con il Nobel.

 

b) Il Nobel a un’istituzione

Un secondo elemento di grande interesse è la scelta di attribuire il Premio a un’istituzione. Non a una persona, né a una associazione o a una ONG. In un’epoca in cui una politica sempre più personalizzata è alla ricerca spasmodica di leader, come se un nome e un volto potessero bastare, è una decisione quantomeno controcorrente o controculturale. Ma giustamente, diceva Monnet, «nulla è possibile senza gli uomini, niente è duraturo senza le istituzioni» (Memoirs, Doubleday & Company, INC. Garden City, New York 1978, vol. 2, 304-305).

Dal punto di vista istituzionale, poi, l’UE è un esempio (o un unicum) di grande creatività: istituisce un livello di autentica sovranità sovranazionale (in questo senso è diversa dall’ONU, che non ha una vera sovranità), senza cancellare o assorbire il livello nazionale – un passaggio che non sarebbe stato possibile, e non lo è ancora al giorno d’oggi – e riuscendo in questo modo ad articolare unità e differenze. Preserva così le identità da cui è composta, anzi le potenzia: non a caso, l’effettiva tutela delle minoranze è un capitolo chiave dei negoziati per l’adesione all’UE, che riesce così a far maturare cultura e istituzioni in contesti tradizionalmente meno attenti a questi temi; al tempo stesso, però, diminuisce il potenziale conflittuale delle differenze, perché riesce a inserirle in una cornice istituzionale fatta di democrazia e difesa dei diritti umani.

Va rimarcato a riguardo che il Nobel non può essere in alcun modo interpretato come una «canonizzazione» dell’esistente, anche sul piano delle istituzioni europee: bisogna accettare il fatto che la creatività istituzionale su cui si fonda l’UE richiede spesso tempi lunghi, processi di apprendimento dai propri errori o un procedere che alterna passi in avanti e passi indietro. Monnet fu estremamente chiaro a riguardo: «Come tutti i sistemi politici, la Comunità non può prevenire i problemi che sorgono; essa offre un quadro e degli strumenti per risolverli in maniera pacifica. Questo è un cambiamento fondamentale in rapporto al passato – e al passato molto recente» (Memoirs, cit., vol. 2, 390). E aggiunge Schuman: «L’Europa non apparirà in una notte […] essa si realizzerà con passi pratici, costruendo sul sentimento di uno scopo comune». («Appendix: The Declaration of 9 May 1950», in Pour l’Europe, Editions Nagel, Paris 1963).

Uno stimolo su cui meditare anche all’interno del nostro Paese, da lungo tempo in attesa di riforme che tardano ad arrivare e soprattutto a portare frutto. Una dinamica sana è quella che iscrive il cambiamento istituzionale all’interno della promozione del bene comune, costruendo un quadro per la soluzione condivisa dei problemi, e non nella ricerca di posizioni di forza o di privilegio.

 

c) Il Nobel a un processo storico

In questa prospettiva è interessante notare come il Nobel sia stato assegnato a un processo storico di lunga durata – e tutt’altro che concluso! –, ben più che al singolo risultato concreto, come fu invece nel 1997, quando venne premiata la Campagna internazionale per la messa al bando delle mine antiuomo (ICBL): il premio sancì l’entrata in vigore dell’apposito trattato, ottenuto grazie alle pressioni della società civile.

Questo fatto ci ricorda come anche in politica i risultati più importanti richiedono la capacità di proiettare la propria azione nel futuro e di elaborare strategie di lungo periodo. Tattiche limitate nel tempo, in chiave elettorale, certo trovano il loro spazio, ma non possono essere l’unico orizzonte, né l’agenda può essere dettata dalla volatilità dei sondaggi. Quando la politica si riduce a questo, perde respiro e contatto con la realtà, fatta anche di tempi lunghi, e certamente non sarà “da Nobel”: che si tratti di pensare alla nuova legge elettorale italiana o di gestire la crisi dell’euro, la politica non può essere proiettata solo sull’orizzonte delle scadenze elettorali dei Paesi chiave.

Inoltre, il “premiato” processo storico di costruzione dell’UE è tutt’altro che lineare ed esente da contraddizioni. Tra le molte, segnaliamo la situazione delle minoranze rom, che in molti Paesi europei (tra cui l’Italia) continuano a essere oggetto di discriminazioni e di limitazioni dei diritti. O, ancora più eclatante, l’atteggiamento di chiusura assunto dall’Europa nei confronti delle migliaia di profughi che cercano di varcare le sue frontiere, mettendo a repentaglio la propria vita se non, molto spesso, perdendola; questo atteggiamento contraddice l’esplicita dichiarazione che la democrazia e la tutela dei diritti sono un impegno che va al di là dei confini dell’Unione. Dice infatti il Trattato di Lisbona, in quella che era stata pensata come la Costituzione europea: «L’Unione contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti del minore».

In questo senso, il Nobel chiaramente non è attribuito all’UE sulla base di una sua perfezione, peraltro irraggiungibile. Molte delle critiche rivolte all’assegnazione del premio all’UE vengono da chi ha aspettative e standard talmente idealizzati che non può che essere sempre e comunque insoddisfatto della realtà esistente; agire politicamente, invece, significa non realizzare immediatamente gli ideali, ma avere la forza di affrontare le situazioni con i mezzi disponibili, alla ricerca non della perfezione, ma del maggior bene concretamente possibile. Questo atteggiamento conduce ai risultati che il Premio Nobel riconosce.

 

d) Non solo economia: il modello sociale europeo

Un ultimo elemento che non può essere tralasciato in questa sede è il modello sociale europeo. In modo del tutto coerente con la convinzione che la pace sia una questione di sostanza e non solo di forma, o meglio, che il suo mantenimento richieda precise condizioni sostanziali, l’Europa ha costruito la propria democrazia e la tutela dei diritti attorno all’idea dell’economia sociale di mercato, cioè a un modello capace di «associare prestazione economica e giustizia sociale» (Commissione Europea, Verso un atto per il mercato unico. Per un’economia sociale di mercato altamente competitiva. 50 proposte per lavorare, intraprendere e commerciare insieme in modo più adeguato, 27 ottobre 2010, COM[2010] 608 DEF, 4 s.), differenziandosi in questo sia dal capitalismo nordamericano sia dalle traiettorie seguite dai nuovi protagonisti dell’economia mondiale. Fino a pochi anni fa appariva scontato che sviluppo economico e democrazia andassero di pari passo, mentre oggi i Paesi di maggiore successo economico sono regimi non democratici (Cina) o solo parzialmente tali (Brasile, India), che non assegnano la stessa importanza al rapporto tra crescita e giustizia sociale.

Oggi occorre difendere con particolare impegno questo tratto distintivo dell’esperienza europea: anche il comunicato del Comitato Nobel affianca la crisi economica all’emergere di forti tensioni sociali, un cocktail potenzialmente esplosivo, o quanto meno un fattore di arretramento sul cammino della promozione congiunta di pace, democrazia e diritti umani di cui l’Europa è campione. È un elemento da tenere presente anche nel momento in cui è necessario declinare in scelte politiche concrete l’esigenza irrinunciabile del rigore della finanza pubblica.

Anche in questo caso si tratta di un percorso guidato da una intuizione originaria: «I nostri Paesi sono diventati troppo piccoli per il mondo attuale rispetto alla portata raggiunta dalla tecnologia moderna e all’importanza che hanno oggi America e Russia, o che avranno Cina e India domani. L’unione dei popoli europei negli Stati Uniti d’Europa è il modo per far crescere il loro standard di vita e per preservare la pace. È una grande speranza e opportunità per i nostri giorni» (Monnet J., «Meeting with the members of the High Authority of the ECSC [novembre 1954]», in Memoirs, cit., vol. 2, 399-400).

Partire dall’economia (il mercato comune) fu un modo per fornire una base concreta in vista della costruzione di una autentica casa comune. Per Schuman era chiaro: «Oltre e prima di essere una alleanza militare o economica, l’Europa deve essere una comunità culturale nel più alto senso». (Pour l’Europe, cit., 35).

È importante ricordarcelo, soprattutto ora, quando è fin troppo facile identificare l’Europa con l’euro e le istituzioni europee con la Banca centrale europea e la vigilanza sui conti pubblici nazionali. Per funzionare davvero, invece, l’unione economica, quella monetaria e quella bancaria hanno bisogno di una crescita dell’unione fra gli Stati e fra i popoli anche a livello politico e culturale, per costruire quella «comunità di responsabilità e solidarietà» di cui abbiamo già scritto (cfr l’editoriale del numero di marzo 2012).

 

Quale Europa (e quale Italia) vogliamo?

L’analisi delle ragioni che hanno portato l’UE a ricevere il Nobel per la pace e della situazione concreta che essa vive ci rimette di fronte l’orizzonte del cammino intrapreso, invitandoci a rinnovare quella creatività che rischia di spegnersi.

Certo, all’interno dell’UE è difficile immaginare che si riaccendano guerre o che la democrazia venga messa radicalmente in discussione. La sfida è diversa e più sottile: nelle democrazie “mature” l’involucro sembra apparentemente intatto, ma al loro interno l’organismo vitale avvizzisce, diventando così l’ombra di se stesso. I riti istituzionali, come le elezioni, restano invariati, ma le dinamiche sociali prendono direzioni diverse: la coesione diminuisce, rispuntano i populismi e la pace, in primo luogo quella interna, torna a essere minacciata dalle tante tensioni di tipo razzista o xenofobo che percorrono i nostri Paesi e spesso esplodono in episodi di violenza che non esitiamo a definire “barbari” (cioè estranei al nostro “demos”, alla base socio-culturale della nostra democrazia). In questa situazione occorre “rifondare il fondamento” della democrazia, altrimenti il DNA dell’Europa rischia di andare perduto, trasformandosi in facciata esteriore.

In Italia questa sfida assume l’aspetto peculiare della corrosione della democrazia rappresentato dalla corruzione e dagli scandali: il sistema democratico perde efficienza e attrattiva nei confronti dei cittadini, smette di suscitare emozione ed entusiasmo, cioè di catalizzare energie, indebolendosi inevitabilmente.

Le prossime campagne elettorali (nazionali e regionali) saranno un’occasione per riprendere questi temi. Non ci serve mantenere lo sguardo sui disastri passati, né subire propagande personalizzate, urlate, astiose. Vogliamo ritrovare una prospettiva, riaccendere il desiderio di superare quei “totalitarismi” che sempre portiamo dentro di noi, intesi come assolutizzazione del nostro punto di vista. Fondamentale sarà quindi che i partiti ci dicano con chiarezza quale Europa hanno in mente, quali sono i loro riferimenti politici continentali, quali impegni europei accettano o rifiutano, che cosa vogliono fare infine della moneta comune.

Il Nobel per la pace che abbiamo appena ottenuto non può poi essere interpretato come un “Oscar alla carriera”, consegnato a qualcuno che ha ormai fatto il suo tempo. Certo l’Europa deve imparare a ritrovare la propria collocazione nel mondo. A lungo essa è stata un centro di potere globale. Quando nel 1952 le istituzioni europee hanno mosso i primi passi, vari Paesi membri (e futuri membri) erano potenze coloniali e l’Europa rappresentava uno dei poli di quell’alleanza transatlantica che strutturava il mondo, almeno quello occidentale. Oggi, nel nuovo mondo multipolare dei Paesi emergenti, l’Europa si avvia ad essere sempre più periferica dal punto di vista economico e geopolitico. Non lo è invece per quanto riguarda la costruzione della pace, la promozione della democrazia, la tutela dei diritti dell’uomo e un modello sociale imperniato sulla giustizia. Da questo punto di vista mantiene un primato che il Nobel in qualche modo certifica. Continuerà a essere questa la sua vocazione globale? Dipende da quanto sapremo resistere alle secche delle democrazie “sazie”, a cui manca quella fame di giustizia senza la quale non si percepisce perché sia così importante la libertà.

Lo sguardo esterno del Comitato Nobel ci ha aiutato a rileggere la storia del nostro continente e a risentire l’orgoglio per una terra che dopo secoli di guerre sanguinose sa essere strumento di pace al proprio interno e anche verso il resto del mondo, grazie al fatto di aver costruito una democrazia attenta ai diritti umani e alla giustizia sociale. È questa l’identità dell’Europa che vorremmo non andasse smarrita.

 

 

Giacomo Costa SJ

Da Aggiornamenti Sociali

http://www.aggiornamentisociali.it/1211editoriale.html

 

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