Leone XIV e gli sviluppi estremi del capitalismo

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Foto di Max Böhme su Unsplash

Un nome che richiama una storia

Troppo pochi, fino ad ora, sono gli elementi per fare una valutazione di ciò che sarà questo pontificato, e l’esperienza dell’assordante battage mediatico di ipotesi infondate, di false previsioni, di fake news che ha preceduto l’elezione del nuovo papa dovrebbe metterci in guardia dalla pretesa di indovinare che cosa farà e dirà Leone XIV.

Per limitarci a parlare di ciò che effettivamente ha fatto e detto, possiamo cominciare dal nome che si è scelto e dalla spiegazione che ne ha dato. Parlando ai cardinali, Prevost lo ha collegato al fatto che l’ultimo papa a portarlo – Leone XIII – si era trovato a fronteggiare una svolta epocale com’era la rivoluzione industriale, col conseguente avvento del capitalismo.

Oggi, ha osservato, la Chiesa è chiamata a «rispondere a un’altra rivoluzione industriale e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale, che comportano nuove sfide per la difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro».

Vale la pena di ricordare brevemente la pagina di storia a cui il papa si riferiva. Alla fine del Settecento e nel corso dell’Ottocento l’irrompere delle macchine aveva capovolto il rapporto tra i lavoratori e i loro strumenti, riducendo i primi a meri inservienti dei secondi.

Ne era conseguita la riduzione degli operai ad ingranaggi del sistema industriale e il loro sistematico sfruttamento da parte del capitalista, interessato ad avere il massimo profitto mantenendo bassi i salari. Da qui condizioni di vita miserevoli delle masse, a fronte dell’arricchimento sfrenato di una minoranza.

Inevitabile lo svilupparsi di una protesta che aveva trovato la propria più efficace espressione teorica e pratica nel socialismo di Karl Marx e Friedrich Engels. In tutto questo il ruolo della Chiesa – salvo qualche isolata eccezione – era stato piuttosto quello di pilastro portante del sistema borghese che non di voce profetica alternativa ad esso.

E in effetti il marxismo – col suo dichiarato ateismo e il suo attacco alla religione, col suo implicito o esplicito materialismo, con la sua proposta di una radicale abolizione della proprietà dei mezzi di produzione e la conseguente mortificazione degli spazi di autonomia e di creatività dei singoli – non favoriva certo l’adesione dei credenti.

Si deve a papa Leone XIII lo sforzo di valorizzare le esigenze di giustizia e di umanità che stavano dietro queste teorie estreme e di riscoprire nella tradizione cristiana gli elementi per proporre una visione alternativa al marxismo e al tempo stesso fortemente critica nei confronti del capitalismo liberale.

Nacque così, nel 1891, la prima enciclica sociale della Chiesa, la «Rerum Novarum», che, contro il collettivismo socialista, rivendicava il valore della proprietà come garanzia dell’autonomia della persona rispetto alla collettività, ma – sulla scia di quanto insegnavano già i padri della Chiesa – ne vedeva il significato non nell’interesse privato, ma nella sua funzione sociale.

Centrale in questa prospettiva è l’idea che la terra e i beni di questo mondo sono dati da Dio a tutti e che chi ne ha il possesso non solo deve utilizzarli al servizio del bene comune, ma è rigorosamente tenuto a condividerli con chi si trova in una estrema necessità.

Sulle orme di Leone XIII

E su questa linea si sono pronunziati unanimemente, dopo Leone XIII, tutti i papi, senza tacere le conseguenze potenzialmente rivoluzionarie di questa concezione, che molti esponenti del giornalismo e della politica di destra oggi denunzierebbero indignati come un cedimento inaccettabile al “comunismo”.

Emblematici due passaggi di un’enciclica del Paolo VI, la Populorum progressio, del 1967, dove, citando un autorevole padre della Chiesa, il papa scriveva: «“Non è del tuo avere, afferma sant’Ambrogio, che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi”. È come dire che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario» (n.23)

Applicando questi princìpi al nuovo orizzonte planetario, nel testo si dice anche: «Una cosa va ribadita di nuovo: il superfluo dei paesi ricchi deve servire ai paesi poveri. La regola che valeva un tempo in favore dei più vicini deve essere applicata oggi alla totalità dei bisognosi del mondo» (n.49).

In un’enciclica pubblicata in occasione del centenario dalla Rerum Novarum, il 1 maggio 1991, e intitolata perciò Centesimus annus, Giovanni Paolo II, ne rivendicava la piena attualità: «Si può ancora oggi, come al tempo della Rerum Novarum parlare di uno sfruttamento inumano. Nonostante i grandi mutamenti avvenuti nelle società più avanzate, le carenze umane del capitalismo, col conseguente dominio delle cose sugli uomini, sono tutt’altro che scomparse» (n.33).

E precisava: «È inaccettabile l’affermazione che la sconfitta del cosiddetto “socialismo reale” lasci il capitalismo come unico modello di organizzazione economica» (n.35).

Trump e la fase estrema del capitalismo

Questa l’eredità che il nome scelto da papa Leone XIV inevitabilmente evoca. Per non cadere nel gioco perverso delle previsioni, diciamo subito che non possiamo sapere se e in che modo egli la valorizzerà.

Quel che è certo, è che mai come in questo momento storico appare appropriato  e urgente il richiamo a questa visione alternativa. Perché davvero, come ha colto bene il nuovo pontefice, oggi gli ultimi sviluppi del capitalismo «comportano nuove sfide per la difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro». E nessuno meglio di lui, che ha trascorso venti anni in uno dei paesi più poveri del Sudamerica, è in grado di cogliere la dimensione planetaria di queste sfide.

L’emblema degli sviluppi estremi di cui parliamo è la linea del nuovo presidente degli Stati Uniti. Una delle prime decisioni del nuovo inquilino della Casa Bianca, dopo il suo insediamento, è stata quella di sospendere tutti i programmi di assistenza all’estero.

E in effetti, poco dopo, il governo americano ha tagliato il 92% dei fondi destinati all’UsAid (Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale) – 58 miliardi di dollari – in massima parte destinati programmi alimentari salvavita, una misura che il Programma alimentale mondiale (PAM) ha definito «una condanna a morte» per milioni di persone affamate. Non meno gravi gli effetti sul piano sanitario, visto che quel denaro serviva a curare molte persone malate.

È una svolta. Da un capitalismo “misericordioso”, che si sforzava di compensare le forme esplicite o implicite di sfruttamento dei più deboli con forme di assistenza, si sta passando ora, con il nuovo inquilino della Casa Bianca, a quello che, in nome dello slogan «America first», “Prima l’America”, considera gli interessi – innanzi tutto economici – degli Stati Uniti il principale criterio delle scelte anche politiche.

In questa logica è stato possibile che il presidente dello Stato a cui si sono rivolte, come a un punto di riferimento, tutte le democrazie occidentali, abbia potuto annunciare tranquillamente il suo piano di deportare dalla loro terra due milioni e mezzo di palestinesi, per costruire sulle macerie un resort turistico: «Penso che lo trasformeremo in un posto internazionale, bellissimo». «Sarà la rivière del Medio Oriente».

Nella stessa logica, mentre a Gaza quotidianamente decine di donne e bambini vengono uccisi dall’esercito israeliano col pretesto di colpire i terroristi di Hamas, ma col motivo reale – e ormai dichiarato ufficialmente da Netanyahu – di costringerli ad andarsene («liberamente», si precisa), Trump ha fatto in questi giorni un viaggio in Medio Oriente, insieme alla sua corte di magnati miliardari, con l’esplicito intento di concludere affari vantaggiosi, per cifre astronomiche, con califfi ed emiri arabi.

Facendo coincidere, secondo tutti gli osservatori, due dimensioni che strutturalmente erano e avrebbero dovuto rimanere distinte, quella della politica e quella dell’economia, dove la prima appare ormai totalmente asservita alla seconda.

Il capitalismo era già prima di Trump agli antipodi della concezione sociale proposta nella Rerum Novarum, ma ora precipita in un parossismo che ne estremizza la disumanità, rinunziando anche al pudore che prima velava le sue logiche. Si dirà che in questo modo è più sincero.

Ma chi si vergogna di quello che fa rivela di avere una coscienza per cui continua ad accettare che ci siano criteri etici, anche se li viola. Quello che colpisce nel tycoon americano è l’apparente scomparsa, appunto, della coscienza.

Sulle orme di Trump

Peraltro la sua linea, che fino a pochi anni fa sarebbe stata considerata  insopportabilmente cinica, viene oggi salutata come “realistica” da molti. Emblematico il caso del nostro governo, che non perde occasione per confermare la sua stima e la sua fiducia nei confronti di Trump, e la cui premier si è detta recentemente «orgogliosa» di aver un «rapporto privilegiato» con lui.

Del resto, pur se in modalità diverse, la logica del capitalismo progredisce sempre più anche nel nostro paese. Un esempio significativo – centrale nell’insegnamento sociale della Chiesa – è quello della retribuzione del lavoro.

Nella Rerum Novarum si insiste sulla necessità che al lavoratore venga garantito un salario adeguato. «Se costui, costretto dalla necessità o per timore di peggio, accetta patti più duri i quali, perché imposti dal proprietario o dall’imprenditore, volenti o nolenti debbono essere accettati, è chiaro che subisce una violenza, contro la quale la giustizia protesta» (n.34). E si sottolinea che «è stretto dovere dello Stato prendersi la dovuta cura del benessere degli operai (…) osservando con inviolabile imparzialità la giustizia cosiddetta distributiva» (n. 27).

Nel suo discorso del 1 maggio, il presidente della Repubblica, Mattarella (espressione del mondo cattolico precedente la Seconda Repubblica), citando rapporti ufficiali dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo e dell’Istat, ha denunciato con forza e chiarezza: «I salari reali troppo bassi sono una grande questione, le famiglie sono in difficoltà: a marzo 2025 sono dell’8% inferiori rispetto a quelli di gennaio 2021».

L’Italia non è un paese povero. Secondo le statistiche più aggiornate, i miliardari italiani sono 74, cifra che colloca il nostro Paese al settimo posto al mondo. Ma ci sono anche 457 mila milionari, e la ricchezza finanziaria italiana è in crescita costante.

Il nostro sistema produttivo funziona discretamente. Sono i salari a diminuire. Non quelli nominali, che anzi crescono, ma quelli reali, calcolati in rapporto all’inflazione. E, se si guarda a un lasso di tempo più lungo di quello di cui parlava Mattarella, le statistiche dicono che il nostro paese registra il peggiore risultato rispetto all’intero gruppo del G20: dal 2008 a oggi, i salari reali sono diminuiti dell’8,7%, un dato che pone l’Italia in fondo alla classifica globale.

È evidente che si verifica uno scarto tra il mantenimento o l’aumento dei profitti dei datori di lavoro e i loro dipendenti. Col conseguente impoverimento di questi ultimi.

«Di questo», secondo Leone XIII, «è stretto dovere dello Stato prendersi la dovuta cura». Quanto siamo lontani da questa preoccupazione lo dice il fatto che, il fenomeno non viene neppure riconosciuto. Ventiquattrore dopo la denunzia del presidente della Repubblica, la nostra premier in un video – il mezzo di comunicazione da lei preferito – ha detto l’esatto contrario: «I salari reali crescono in controtendenza rispetto al passato».

Anche in Italia, dunque, il processo per cui i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri sembra non trovare freni da parte delle autorità politiche.

Il capitalismo si avvia a forme estreme, che forse rendono necessario un nuovo deciso intervento della Chiesa, come ai tempi di Leone XIII. Non sappiamo se il nuovo papa lo farà. Ma il nome che si è scelto e la sua esperienza passata, a cavallo tra in Nord ricco e il Sud povero dell’America, ci permette di sperarlo.

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