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Le ferite dei santi

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di Giuseppe Savagnone 

 

Mi sono chiesto, in questi giorni di apoteosi mediatica delle figure dei due papi santi, se siamo ancora in grado, nella nostra società, di andare oltre il chiasso di una informazione spesso superficiale e pettegola, per cercare di comprendere che cosa significhi davvero la santità.

Spesso, in singolare contrasto con il delirio collettivo che ha salutato le nuove canonizzazioni, si ha di essa un’idea riduttiva, che la identifica con l’immagine ingessata di personaggi ormai distaccati da ogni passione terrena, esclusivamente dediti alla penitenza e alla preghiera, stucchevolmente virtuosi, degni di ammirazione, ma anche separati dalla nostra vita di ogni giorno. Non a caso il posto dei santi è, di solito, sugli altari, dove ricevono un culto che consacra, al tempo stesso, questa separazione. In questa prospettiva, essere santi sarebbe possibile solo cessando di essere uomini e donne veri, portatori dei problemi, dei limiti e delle sofferenze di tutti gli uomini e di tutte le donne di questo mondo.

Forse un primo risultato del solenne riconoscimento della santità di Giovanni XIII e di Giovanni Paolo II potrebbe essere di rivedere questa rappresentazione caricaturale. Perché né l’uno né l’altro di questi due papi possono essere fatti rientrare nello schema sopra descritto. Diversissimi tra loro, entrambi sono apparsi però, nel corso di tutto il loro ministero, dotati di una grande umanità, che ha affascinato la gente e ha determinato la loro immensa popolarità. E di questa umanità è stato elemento costitutivo una passione bruciante, che li ha portati a gettarsi, ognuno a modo suo, nella mischia dell’esistenza, lottando strenuamente per ciò che stava loro così fortemente a cuore.

 Entrambi hanno amato molto la Chiesa. Ma uno, Giovanni XXIII, come un buon padre vecchio e saggio, pacatamente intento a offrirle, come un dono, gli ultimi anni della sua vita; l’altro con l’energia prorompente di un combattente deciso a spendere per essa, fin all’ultimo, ogni goccia del suo sangue. «Due uomini coraggiosi», li ha definiti papa Francesco. Entrambi sono stati capaci di  uscire dai recinti precostituiti del passato e di avventurarsi, rischiando, verso il futuro. Il primo indicendo un Concilio di cui a volte gli si è rimproverato di non aver previsto chiaramente tutta la portata e i possibili sviluppi. Ma non fece qualcosa di simile anche Abramo, quando obbedì alla voce del Dio che lo chiamava e lasciò tutto ciò che conosceva per andare verso l’ignoto sulla sua parola? L’altro, inaugurando nuovi stili, inediti per un papato abituato ad avere con gli spazi e con le masse un rapporto mediato, sempre protetto da mille cautele, e facendo dei suoi viaggi e dei suoi incontri con le folle di tutto il mondo lo strumento per annunciare il Vangelo con una forza inaudita. Pure lui rischiando, anche fisicamente, e spendendo senza risparmio tutte le proprie energie  (viene in mente la figura dell’apostolo Paolo, proiettato in una missione permanente ed esposto a mille conflitti e a mille pericoli).

Entrambi hanno avuto tanti difetti e tanti limiti. Soprattutto il pontificato e la personalità di Giovanni Paolo II non hanno riscosso soltanto ammirazione. Qualcuno, citando quei difetti e quei limiti, ha storto il naso per la sua canonizzazione.

Ma il prezzo della vera santità, intesa non come estraniazione dalla reale umanità, ma come piena assunzione di essa in tutta la sua ricchezza e complessità, è di non escludere le ombre che ogni essere umano si porta dietro. I santi non sono perfetti. La loro eroicità si misura dall’amore, non da una impossibile esenzione da questo o quel lato oscuro.

Nell’omelia tenuta in occasione della loro canonizzazione, Francesco  ha collegato la vicenda di questi pontefici al vangelo del giorno, che parlava dell’apparizione di Gesù risorto ai discepoli e del suo farsi riconoscere mostrando non la sua gloria, ma le sue mani e il suo costato feriti: «Le piaghe di Gesù sono scandalo per la fede, ma sono anche la verifica della fede. Per questo nel corpo di Cristo risorto le piaghe non scompaiono, rimangono, perché quelle piaghe sono il segno permanente dell’amore di Dio per noi, e sono indispensabili per credere in Dio. Non per credere che Dio esiste, ma per credere che Dio è amore, misericordia, fedeltà».

Francesco applicava questa riflessione all’atteggiamento dei due nuovi santi nei confronti deli loro fratelli: «Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II hanno avuto il coraggio di guardare le ferite di Gesù, di toccare le sue mani piagate e il suo costato trafitto. Non hanno avuto vergogna della carne di Cristo, non si sono scandalizzati di Lui, della sua croce; non hanno avuto vergogna della carne del fratello (cfr Is 58,7), perché in ogni persona sofferente vedevano Gesù».

Noi però possiamo utilizzare questo riferimento alle ferite di Cristo anche per capire meglio che ruolo esse possono avere nella santità. Lutero ha escluso che ci possano essere dei santi da venerare perché riteneva che nessun uomo possa essere mai del tutto mondato dalle sue piaghe peccaminose. Per lui si resta peccatori anche da salvati e questo, a suo avviso, esclude la santità. Ma è davvero così? La scena del cenacolo, in cui il Risorto appare con le sue ferite non è il segno che la gloria della salvezza non è meno piena per il fatto di conservare le tracce delle nostre miserie, dei nostri limiti, forse delle nostre colpe? Se in Cristo la piena appartenenza al Padre non comportò la perdita del suo travagliato cammino umano, non possiamo pensare che anche i santi continuino a portare le loro ferite, pur nella gloria di Dio?

Così preferisco pensare che la canonizzazione di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II non abbia sancito una loro pretesa perfezione, che mi sembra discutibile, ma la capacità del loro amore di trasfigurare anche i loro limiti e i loro errori  in segni da cui è possibile riconoscere che in loro è presente il Cristo risorto, che viene sempre di nuovo, come allora nel cenacolo, a stare in mezzo ai suoi con le sue ferite.

 

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