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La vedova fedele

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Introduzione alla lectio divina su Mc 12,38-44

08 novembre 2015 -XXXII domenica del tempo ordinario

 

In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ambiscono i saluti nelle piazze, i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Loro che divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più forte».
Ed essendosi seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, cioè un quadrante.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova povera ha gettato più di tutti quelli che hanno gettato nel tesoro. Perché tutti hanno gettato del loro superfluo, lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutta la sua vita».

Una vedova, figura antica della povertà, dell’estrema fragilità e del bisogno, diviene per noi, questa domenica, segno rivelativo di una ricchezza ben più grande, quella del cuore. Nella povertà di un pugno di farina (1Re 17.10-16) e di due spiccioli ci viene annunciata la straordinaria fecondità del dono che viene elargito al prossimo come gesto assoluto di libertà e atto generativo di vita.

Quello che appare quasi un paradosso –il povero che dona l’unico spicciolo che possiede- viene proposto da Gesù come un racconto antifrastico nei confronti della zelante ma ipocrita elargizione di monete da parte dei ricchi, così come verso l’altrettanto falso atteggiamento degli scribi che fanno della loro carica religiosa un’occasione per riscuotere prestigio e riconoscimento, non certo un servizio offerto a Dio e ai poveri.

Il brano di Marco si apre proprio con un avvertimento a guardarsi bene dall’ambizione e dall’avidità degli scribi. Le loro “lunghe vesti” alludono forse al tallit, un lungo e ampio mantello cultuale, mentre i “i primi seggi nelle sinagoghe” si riferiscono al pubblico riconoscimento che veniva loro tributato dal popolo perché interpreti fedeli della Legge mosaica. La loro ‘lunga’ preghiera è svuotata di qualsiasi significato: risulta solo un monologo recitato allo specchio della propria vanità. La religione diviene così strumento di potere e di affermazione personale, di ricchezza e prestigio, rito solenne ma ipocrita e svuotato di senso. Invece di farsi servi dei fratelli e di Dio, gli scribi ‘si servono’ della carica religiosa per essere serviti dagli altri sulle cui miserie lucrano fino addirittura ad annientarli (“divorano le case delle vedove”). Su di loro Gesù pronuncia un duro giudizio di condanna.

Contro questa falsa pienezza, arida e infeconda, risalta il drammatico vuoto della vedova che, però, grazie al gesto vivificante del dono, si rivelerà subito ‘fecondo’, capace di partorire la vita per gli altri.

La scena si svolge stavolta nel cuore del tempio, in un atrio dove anche le donne potevano avere accesso e in cui vi era la stanza del ‘tesoro’ destinata alle offerte. In questa vi erano disposte tredici cassette a imbuto in cui venivano versate le donazioni; al momento del versamento un addetto declamava a voce alta la somma che veniva versata. In tale contesto si comprende quanto facile fosse il desiderio di ostentazione da parte dei ricchi, attenti al quanto viene proclamato e fatto cadere nella cassetta così da averne da tutti un pubblico e benevolo riconoscimento. Il dono appare così viziato fortemente dalla ricerca di un personale appagamento che riduce l’offerta o il rito cultuale ad una ipocrita occasione di autocelebrazione. In questo orizzonte di falsità si è attori solitari di una messinscena per un pubblico che si vuole compiacere: non c’è il prossimo né tantomeno può esserci Dio.

Tuttavia, l’attenzione di Gesù non va al cosa si dona ma al come. Seduto davanti al tesoro, Egli non guarda quanto e cosa ciascun fedele versa ma, come dice Marco, il come. Egli guarda alla semplicità dell’offerta della vedova che versa solo due spiccioli contro il superfluo e inessenziale denaro versato dai ricchi. Ciò che è misero e di nessun conto agli occhi di tutti –due spiccioli- rappresenta il vero bene per Gesù perché quell’obolo rappresenta il ‘tutto’ per la vedova, ‘tutto quello che aveva per vivere’. In questo senso il dono della vedova è un ‘dono totale’ che mette a rischio la sua stessa vita: per questo è ‘olocausto’, cioè sacrificio e offerta della propria vita a Dio (L. Manicardi). Un’immagine, questa, che ci rimanda alla croce e a Gesù stesso che fa dono generoso della sua vita per il mondo perché donare è essenzialmente esperienza d’amore ed è, nel contempo, esperienza di libertà che ci emancipa dal possesso e dallo sguardo degli altri, ci solleva dal protagonismo e ci apre alla vita senza fine. Sarà solo allora che la “farina della giara non verrà meno né l’orcio dell’olio diminuirà” (1Re 17,16) .

 

Isabella Tondo 

 

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