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La sincerità di monsignor Charamsa

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di Giuseppe Savagnone

 

«Voglio che la Chiesa e la mia comunità sappiano chi sono: un sacerdote omosessuale, felice e orgoglioso della propria identità». Le parole di monsignor Krzysztof Charamsa – 43 anni, ufficiale della Congregazione per la Dottrina della Fede dal 2003,  segretario aggiunto della Commissione Teologica Internazionale, docente di teologia alla Pontificia Università Gregoriana e al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum a Roma – hanno fatto il giro del mondo e sono state oggetto dei commenti più svariati.

Molti le hanno considerate un gesto di sincerità. È la lettura che lo stesso monsignor Charamsa ha suggerito quando, alla domanda circa il perché del suo coming out, ha risposto: «Arriva un giorno che qualcosa si rompe dentro di te, non ne puoi più. Da solo mi sarei perso nell’incubo della mia omosessualità negata, ma Dio non ci lascia mai soli. E credo che mi abbia portato a fare ora questa scelta esistenziale così forte – forte per le sue conseguenze, ma dovrebbe essere la più semplice per ogni omosessuale, la premessa per vivere coerentemente – perché siamo già in ritardo e non è possibile aspettare altri cinquant’anni. Dunque dico alla Chiesa chi sono. Lo faccio per me, per la mia comunità, per la Chiesa».

Alla sincerità, dunque, bisogna aggiungere la volontà di rendere un servizio alla Chiesa, anche a costo del sacrificio personale: «Sono pronto a pagarne le conseguenze, ma è il momento che la Chiesa apra gli occhi di fronte ai gay credenti e capisca che la soluzione che propone loro, l’astinenza totale dalla vita d’amore, è disumana».

Personalmente ho il massimo rispetto per i problemi umani dei singoli, gay o non gay, e sono convinto che, nei confronti delle loro coscienze, valga quel severo monito – «Non giudicate!» – che il Vangelo rivolge da duemila anni, con poco successo, a chi vuole seguire Gesù. Però i comportamenti vanno anche valutati per quello che sono, quali che siano le loro motivazioni profonde e imperscrutabili .

E,  guardando ai fatti, devo dire che il primo pensiero che la  dichiarazione di monsignor Charamsa ha suscitato in me riguarda il problema della par condicio tra condizione presbiterale e stato matrimoniale. Mi sono chiesto come sarebbe stato considerato il gesto di un uomo che avesse dichiarato, dopo diciassette anni di matrimonio: «Voglio che mia moglie  e tutti quanti sappiano che da molto tempo la tradisco con un’altra persona (poco importa adesso se uomo o donna). E credo di rendere un servizio alla società denunziando la disumanità di un obbligo di fedeltà che costringe a rinunziare all’amore di tante altre donne solo per il fatto che ci si è legati a una».

Perché anche la fedeltà coniugale, oggi soprattutto, è difficile, “disumana”.. Forse anche per questo non ci si sposa più. Ma, chi lo fa, sa di compiere, consapevolmente e liberamente, una scelta molto impegnativa, che lo vincola. E se, dopo anni, rivela di non aver mantenuto questo impegno, di avere sistematicamente fatto il contrario di ciò che aveva promesso all’altro davanti alla comunità, il suo richiamo alla sincerità non può non apparire un po’ tardivo.

Anche perché il rispetto della sincerità non può mai del tutto essere separato dal senso della responsabilità. Un funzionario che, dopo aver nascosto per anni la sua inadempienza dei propri obblighi lavorativi (con inevitabile pregiudizio dell’intera comunità), manifestasse la sua volontà di essere sincero dichiarando pubblicamente di non averli  mai osservati, perché obiettivamente troppo onerosi, si sentirebbe sicuramente obiettare che doveva scegliere un altro lavoro e che i danni prodotti dalla sua condotta irresponsabile sono ormai irreversibili.

Certo, resta sempre sullo sfondo  il dramma delle coscienze, in cui solo Dio può penetrare. Ma, se il marito fedifrago, dopo la sua rivelazione, facesse circolare sui mezzi di comunicazione delle fotografie che lo ritraggono affettuosamente abbracciato alla sua amante, sarebbe difficile evitare un moto di solidarietà vero la moglie tradita e sbeffeggiata e qualcuno arriverebbe forse a parlare di cattivo gusto.

Resta la volontà di monsignor Charamsa di rendere un prezioso servizio alla Chiesa, aprendole gli occhi sul vero senso dell’omosessualità. Ed è chiaro che il momento da lui scelto per questa clamorosa presa di posizione – l’immediata vigilia del Sinodo dedicato a questi problemi – non è causale. «Sì, vorrei dire al Sinodo che l’amore omosessuale è un amore familiare, che ha bisogno della famiglia. Ogni persona, anche i gay, le lesbiche o i transessuali, porta nel cuore un desiderio di amore e familiarità. Ogni persona ha diritto all’amore e quell’amore deve esser protetto dalla società, dalle leggi. Ma soprattutto deve essere curato dalla Chiesa».

Personalmente sono convinto che anche i gay, le lesbiche o i transessuali, portano nel cuore un desiderio di amore e che, se da un lato «le unioni fra persone dello stesso sesso non possono essere equiparate al matrimonio fra uomo e donna», come ribadiva la relazione del cardinale Erdö nel precedente Sinodo dedicato alla famiglia, «vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partner», come si aggiungeva nello stesso documento.

Il punto è che su questo tra i padri sinodali c’era allora, e c’è anche adesso, un forte dissenso. Molti di loro temono che simili riconoscimenti possano implicare una approvazione dell’omosessualità come tale, sull’onda di una sempre crescente pressione sociale a favore della sua “normalizzazione”, di cui tutti oggi siamo spettatori.

Il problema non dev’essere sottovalutato, anche se a mio avviso non dovrebbe costituire un ostacolo insormontabile a un atteggiamento di maggiore comprensione verso le persone  (che non significa giustificazione del principio). Ma quello che è certo è che il coming out di monsignor Charamsa e le considerazioni da lui offerte come corollario della sua posizione costituiscono, sul piano  psicologico, un fortissimo campanello di allarme e un monito per chiunque, al Sinodo, avesse un atteggiamento di apertura, nonché un’arma formidabile per i padri sinodali “catastrofisti”.

Questo un uomo che ha vissuto per diciassette anni in Vaticano non poteva non saperlo! E, alla resa dei conti, ferma restando l’impossibilità di giudicare la persona e a prescindere dal suo essere gay, è forse soprattutto l’ambiguità del suo gesto – compiuto a parole per favorire l’apertura della Chiesa, ma nei fatti vistosamente destinato a ostacolarla – che mi dà un senso di profondo fastidio, quando sento lodare la sincerità e il coraggio di monsignor Charamsa.

 

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