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La “rivoluzione” di Francesco: una Chiesa che, prima di parlare, ascolta!

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di Giuseppe Savagnone 

 

I cosiddetti “conservatori” l’hanno presa male: una Chiesa che si basa sui sondaggi d’opinione invece che sul Vangelo! Inaudito! «Bel papa che abbiamo», scrive sarcasticamente uno di loro, a commento della notizia che la Santa Sede, in vista del prossimo Sinodo sulla famiglia, ha diffuso un questionario con 38 domande, interpellando non solo i vescovi, come altre volte era stato fatto, ma, attraverso di loro, le comunità ecclesiali e i singoli fedeli che volessero far pervenire la loro opinione a Roma.

Ma la “rivoluzione” che i tradizionalisti deprecano è in realtà implicita, più a monte, nella scelta di papa Francesco di convocare – prima del Sinodo ordinario che prenderà posizione sui temi della famiglia, e che verrà celebrato nel  2015 – un Sinodo straordinario, sullo stesso tema, da celebrare nell’ottobre del 2014, con lo scopo di prendere coscienza della reale situazione nella società e nelle comunità ecclesiali.

Non era mai accaduto. Fino ad oggi i Sinodi sono stati concepiti come l’occasione solenne per esprimere il pensiero dei pastori sui più pressanti problemi spirituali ed etici. Nel breve tempo a disposizione, non c’era molto spazio per le analisi. L’esigenza – in sé giustissima – di rivolgere al mondo una parola significativa faceva passare decisamente in secondo piano quella di ascoltare, prima di parlare, ciò che il mondo aveva da chiedere alla Chiesa.

Il rischio, tutt’altro che teorico, è stato, in questi ultimi decenni, uno sdoppiamento – se non addirittura una incomunicabilità – fra la dottrina ufficiale del magistero e le scelte effettive della gente, a cominciare dagli stessi cristiani (spesso con la comprensione e perfino l’approvazione dei sacerdoti concretamente impegnati nella pastorale ordinaria), riguardo a una serie di problemi riguardanti la vita morale: da quello degli anticoncezionali a quello delle convivenze prima del matrimonio, da quello dello status dei divorziati  nella comunità ecclesiale a quello delle coppie omosessuali.

La decisione di papa Francesco di  dedicare un intero Sinodo a valutare la realtà, chiedendo aiuto, per metterla a fuoco, non soltanto agli uffici delle curie episcopali, ma ai gruppi, ai movimenti, alle parrocchie, rompe con questa prassi “dualista” e costringe la Chiesa a prendere atto di quanto il mondo sia cambiato.

Non certo per adeguarsi passivamente a questi cambiamenti, come denunziano a gran voce i tradizionalisti (assai più numerosi di quanto si creda, e sempre più scopertamente ostili a questo pontefice), ma perché solo dall’ascolto può venire una parola significativa per l’interlocutore a cui ci si rivolge. I monologhi,  con la loro univocità senza sfumature, possono essere rassicuranti per chi ha paura di misurarsi con la complessità dei problemi, ma hanno il difetto di restare autoreferenziali e, in definitiva, sterili. Non si tratta di cambiare il Vangelo, ma di essere aiutati dalle nuove sfide che vengono dal nostro tempo a capirlo sempre meglio.

Ciò è sempre avvenuto, peraltro, nella storia della Chiesa. E quando essa, che – per fare solo un esempio – nell’Ottocento era aspramente ostile alla teoria moderna dei diritti umani, ha saputo discernere ciò che in questa teoria era effettivamente erroneo e ciò che invece costituiva un’importante conquista, ciò è avvenuto non  in nome di una minore, ma di una maggiore fedeltà allo spirito del messaggio rivelato.

È questo che oggi deve essere realizzato dalla Chiesa del nuovo millennio, superando un ritardo culturale che il cardinale Martini stimava in duecento anni e che è comunque notevole. E che incide non solo e non tanto su quello che si dice, ma su come lo si dice. Perché anche i “no”, che a volte sono necessari per dare senso ai “sì”,  possono essere formulati in modi molto diversi, che li rendono comprensibili o incomprensibili ai destinatari. Papa Francesco, senza aver cambiato una virgola della dottrina tradizionale, si è fatto capire da tanti che, pur mantenendo la loro idea, divergente dalla sua, si sono sentiti più vicini  alla Chiesa. Si tratta, ora, di estendere questo stile  alle comunità ecclesiali di tutto il mondo.

Nel questionario molte domande si riferiscono al modo in cui finora nelle diverse diocesi sono stati affrontati i problemi. Se le risposte saranno sincere, emergerà che il ritardo di cui parlava Martini è drammatico non solo e non tanto a livello dottrinale, quanto a livello pastorale. Spesso a prevalere è la routine di un ritualismo che si adagia sull’amministrazione dei sacramenti e riduce il problema della formazione di cristiani maturi al catechismo per la prima comunione o ai corsi prematrimoniali. Non ci si può stupire se oggi la coscienza diffusa – anche tra i credenti – è lontanissima dal pensare in termini evangelici i problemi.  C’è da sperare che la realtà, nelle risposte “ufficiali”, emerga. La Chiesa deve avere il coraggio di valutare se stessa e di guardare in faccia i propri limiti. Gli atti penitenziali costano. Ma è da essi che si deve partire, se si vuole crescere.

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