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La frana e (è) la casta

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di Giuseppe Savagnone 

 

La ricostruzione del pilone dell’autostrada che unisce Palermo a Catania, stando alle ultime stime, richiederà due anni. Ma i siciliani sanno bene che, quando si tratta di lavori pubblici, ogni anno, in Sicilia, ne dura almeno dieci. Per questo bisogna prevedere che l’Isola resterà spaccata in due, ormai, per molto tempo. Un danno incalcolabile per la sua economia, ma anche per tanti suoi abitanti che facevano i pendolari e che da un giorno all’altro si sono trovati a dover rivedere radicalmente il loro regime di vita. Senza dire che si sarebbe potuto consolidare il colle spendendo 30 milioni, mentre adesso si dovrà rifare il viadotto sborsandone ben 350!

I mezzi di informazione hanno sottolineato la prevedibilità del disastro e la sua evitabilità, se appena gli organi competenti – in questo caso l’Anas – si fossero curati di intervenire tempestivamente. Dove “tempestivamente” indica un arco di tempo  di dieci anni, quanti ne sono trascorsi, dalla segnalazione della frana che minacciava le strutture dell’autostrada, al momento del loro cedimento.

E’ solo una delle assurde vicissitudini che hanno colpito ultimamente il sistema viario italiano. Perché, subito dopo il crollo della Palermo-Catania, se ne è registrato un altro, non meno disastroso, che in Sardegna ha colpito quella che l’Anas aveva orgogliosamente battezzato «la nuova 554». E a dicembre, sempre in Sicilia, c’era stato il cedimento inspiegabile di un viadotto, appena inaugurato, della veloce Palermo-Agrigento. Ora il presidente dell’Anas, Pietro Ciucci, su cui grava la responsabilità oggettiva di questi disastri, ha magnanimamente comunicato di voler fare «un passo indietro» e di aver deciso di abbandonare la sua carica, precisando comunque che aveva già in animo di farlo e rifiutando, dunque, di collegare la decisione  all’accaduto. Insomma, nessuno sembra dover rispondere. 

Una recente legge ha sancito la responsabilità civile dei magistrati. Come se fossero gli unici che possono incidere, con loro eventuali comportamenti scorretti e arroganti, sulla vita dei cittadini. Ma c’è tutta una casta di politici e di amministratori – super manager, direttori generali, “esperti” – , che (ovviamente con le dovute eccezioni) da decenni vive di privilegio e di incompetenza. Le loro prebende, confrontate con quelle dei loro omologhi stranieri, sono stratosferiche. Proprio i timidi tentativi fatti dagli ultimi governi per stabilire un “tetto” a questi super stipendi e super pensioni ne hanno rivelato l’incredibile sproporzione sia rispetto al reddito dei comuni cittadini, sia a confronto con i risultati raggiunti. La storia del nostro Paese è  segnata, in questi ultimi anni, dal tracollo di colossi – si pensi all’Alitalia, prima del tentativo di recupero ancora in corso – che, a carico dei contribuenti, hanno registrato perdite paurose. Ma i loro dirigenti hanno goduto, sempre a spese degli italiani, di stipendi favolosi e, quando si è stati costretti a mandarli via per la loro evidente incapacità, ci sono andati, ma con buonuscite da capogiro.  

Non ci si dovrebbe domandare perché proprio in Italia chi scala le posizioni di vertice nel ramo pubblico lo faccia a questo prezzo? E, in caso (non ipotetico, purtroppo) di risultati fallimentari, non dovremmo chiedere conto anche a loro il rimborso dei danni causati alla comunità?

L’impressione è che il sistema politico sia troppo debole e compromesso per poter introdurre veri controlli. Il caso del sullodato dott. Ciucci – promosso, sostenuto, coccolato e confermato da sinistra e da destra per trent’anni – è emblematico. Chiamato nel 1987 da Prodi alla direzione finanza dell’Iri, messo nel 2002 da Berlusconi al vertice della società per la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina , poi di nuovo, nel 2006, nominato da Prodi a capo dell’Anas, confermato  nel 2009 da Berlusconi amministratore unico, nominato nel 2013 da Letta presidente e amministratore delegato dello stesso ente pubblico, in cui ricopriva anche la carica di direttore generale, lasciato al suo posto da Renzi (malgrado la dichiarazione di voler porre un massimo di tre mandati per gli amministratori), Ciucci è stato la vera istituzione.

Lo conferma ciò che accade quando, tra agosto e settembre del 2013, il presidente amministratore dell’Anas decide di non avvalersi più dei servigi del direttore generale. Nessun problema, se non fosse che le due cariche sono ricoperte dalla stessa persona. E che, nel calcolo della buonuscita del direttore Pietro Ciucci, il presidente-amministratore Pietro Ciucci fa inserire anche il criterio “dell’indennità di risoluzione senza preavviso”, che comporta una maggiorazione di 779.682,83 euro. Così la buonuscita raggiunge la cifra complessiva di 1 milione 825.745,53 euro. Oltre al lauto mensile che, in qualità di pensionato, l’ex direttore generale Ciucci continua a ricevere, cumulandolo con  quello, altrettanto lauto, del presidente e amministratore delegato Ciucci, rimasto fedelmente al suo posto.

Una storia allucinante, che si sarebbe tentati di ritenere fantastica se diversi organi di informazione non l’avessero riferita senza essere smentiti. Ma almeno questo beniamino superpagato avesse fatto attenzione a non far franare le strade! Ritorna la domanda: chi risponde dei danni causati da una persona che abbiamo, come cittadini, strapagato perché gestisse decentemente le cose?

Qualcuno, davanti a questo interrogativo, potrebbe allargare fatalisticamente le braccia. Invece non è un fato: è una complicità, contro cui si può e si deve reagire. Perché il modo di rimediare a questi fenomeni c’è, c’è sempre stato. Basta fare una legge che vieti il cumulo di cariche e di prebende (includendo anche le pensioni) e legare i vantaggi economici dei manager pubblici ai risultati ottenuti, prevedendo, in casi di evidente, grave incuria, la possibilità di rivalsa da parte dello Stato. Se non ci si è mossi in questo senso non è perché non ci si è pensato, ma perché non conveniva a nessuno farlo. Tranne che ai cittadini. E tocca a loro, adesso, chiedere, alla vigilia delle prossime elezioni, un impegno ai partiti in questo senso. Se non altro, per dimostrare una volta tanto che il termine “democrazia” – potere del popolo –  non è del tutto vuoto di senso.

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