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La costanza della ragione

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di Giuseppe Savagnone

 

L’approvazione delle nuova legge elettorale si è svolta in un tale clima di contrapposizione da favorire l’impressione, nell’opinione pubblica, che fosse in gioco la sopravvivenza stessa, nel nostro Paese, della democrazia. In realtà, pochi hanno un’idea precisa di ciò che cambierà effettivamente. Prevale, sulle idee, la ridda degli stati d’animo, favorita, senza dubbio, dallo stile e dai toni esasperati con cui da una parte il governo, dall’altra le opposizioni, hanno condotto le loro rispettive battaglie. Vale la pena, perciò, seguendo una linea che  da sempre caratterizza questi “chiaroscuri”, di interrogarsi sulle luci e sulle ombre della nuova normativa, sforzandoci restare fedeli, almeno noi, alla ragione.

La prima cosa da notare è l’inaffidabilità delle prese di posizione di buona parte delle forze politiche che più aspramente hanno contestato la legge. Esemplare e insuperabile l’incoerenza di Forza Italia, che l’aveva votata al Senato, quando Berlusconi era alleato di Renzi col cosiddetto “patto del Nazareno”, e che nel dibattito alla Camera ha fatto barricate perché non passasse, sostenendo a gran voce che è assolutamente incostituzionale. Senza dire che proprio a Forza Italia, insieme alla Lega Nord, dobbiamo quel “Porcellum”  che vigeva prima dell’attuale riforma e che il suo stesso soprannome indica come l’esempio senza paragoni peggiore di legge elettorale. Chi ha occhi per vedere valuti.

Ma anche il Movimento 5stelle, che si è opposto altrettanto strenuamente a questa legge, accusandola di essere l’anticamera della dittatura, dovrebbe chiedersi se questa  denunzia sia compatibile con le passate pretese di Grillo di “mandare tutti a casa” e di governare senza alleati che lo condizionino. Perché questo è precisamente ciò che hanno sempre preteso tutti i dittatori, quando hanno rivendicato per se stessi piena libertà di manovra, escludendo così, ovviamente, il gioco delle reciproche limitazioni tipico delle democrazie.

Quanto ai dissidenti  del Pd, francamente si stenta a capire come sia possibile che in un partito dove la maggioranza, nel rispetto delle regole democratiche, ha deciso una linea, la minoranza pretenda di continuare a seguirne una diversa e opposta, restando al tempo stesso dentro il partito. Si è liberi di dissentire nel dibattito interno finché non si arriva a una decisione comune (che non vuol dire, in nessuna comunità, unanime), non dopo. Se non si vuole aderire – ed è un diritto – , si esce dal partito e, volendo, se ne fonda un altro. Altrimenti gli elettori si trovano di fronte a due partiti che, pur continuando ad avere lo stesso nome, non vanno nella stessa direzione.

Da parte sua l’atteggiamento del governo  – cioè di Renzi, perché gli altri sono sostanzialmente invisibili – ricorda molto la risposta di Napoleone ai principi tedeschi, da lui appena sconfitti in battaglia, che protestavano contro la sua idea di ridisegnare (come poi effettivamente fece) i confini interni della Germania: “Voi non capite”, disse: “Io non sono il vostro superiore, sono il vostro padrone”.  “Je ne suis pas votre seigneur, je suis votre maître». Non c’è bisogno di entrare nel merito delle singole norme per sospettare che un premier protagonista e sprezzante rottamatore (degli altri) – vi ricordate il “Fassina chi?” e l’”Enrico, stai sereno”? – abbia potuto fare una legge cucita sul suo vorace protagonismo, prima che sulle esigenze reali del Paese.

Detto tutto ciò, la costanza della ragione ci aiuta a discernere ciò che è reale e ciò che, sollevato dall’una e dall’altra parte, è solo polverone. Intanto, l’Italicum è sicuramente meno disastroso del Porcellum, e chi – cittadino o parlamentare – non ha protestato, allora, per quello (e sono tantissimi), farebbe meglio adesso, per questioni di elementare pudore, a star zitto. Almeno ora al cittadino viene data la possibilità, che il Porcellum aveva eliminato, di votare per i candidati che stima di più, invece di dover appoggiare a occhi chiusi la lista dei nomi imposta dalle segreterie (e che segreterie!). Non è, però, piena libertà di scelta, perché i capilista restano bloccati. Una sopravvivenza di potere partitocratico, in un’Italia dove i partiti sono svuotati di reale partecipazione democratica dal basso e si riducono ai loro notabili.

Il premio di maggioranza alla lista che raggiunge il 40% dei voti alla prima tornata elettorale o vince il ballottaggio sicuramente fa il gioco di Renzi, che è l’unico a poter sperare in un simile risultato al primo turno e che comunque ha buone probabilità di prevalere al secondo, quando i partiti minori saranno costretti ad appiattirsi su uno dei due rimasti in corsa. Si obietta che questo è un modo – equivalente nella sostanza a quello che si fa in altri Paesi democratici, come la Francia o l’Inghilterra – di rendere stabile il governo e di assicurare finalmente la piena responsabilità del partito vincitore di fronte a coloro che lo hanno votato, sconfiggendo finalmente l’inveterato vizio italiano di cercare scuse nella necessità di fare compromessi con gli alleati di governo, con chi “rema contro”, etc. Col nuovo sistema, effettivamente, non potrà più accadere ciò che è successo alle ultime politiche, dopo le quali la sola soluzione possibile è risultata l’alleanza tra due forze antitetiche come il Pd e Forza Italia, che si sono paralizzate a vicenda.

Tutto questo è vero. Come è vero anche, però, che l’Italia non ha il tessuto civile e la tradizione democratica della Francia o dell’Inghilterra e che, se appare esagerato parlare di “dittatura”, non lo è avere seri timori sul modo di gestire un potere così ampio da parte del futuro vincitore.  Specialmente se già oggi, che non ce l’ha, usa dei modi che ricordano maledettamente Napoleone.

 

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