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L’arresto di Messina Denaro: al di là dei festeggiamenti

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Shirto, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

Qualche interrogativo

L’arresto di Matteo Messina Denaro costituisce sicuramente un successo importante nella lunga lotta dello Stato italiano contro “Cosa nostra”. Comprensibile, perciò l’esultanza dei rappresentanti delle istituzioni – Giorgia Meloni ha voluto volare a Palermo, per congratularsi personalmente con la Procura del capoluogo e i carabinieri – , ma anche della gente in strada.

Nel tripudio generale che ha salutato l’evento, c’è però il rischio di perdere di vista qualche aspetto che forse merita di essere rilevato. Perciò, senza sminuire i meriti di chi ha condotto le indagini e le ha portate a compimento, vale la pena di fermarsi a porsi qualche interrogativo, anche a costo di essere qualificati, per usare una espressione della stampa governativa, dei “rosiconi”, mai soddisfatti di quello che di buono si realizza nel paese.

Un primo interrogativo – il più ovvio – nasce dal fatto che ci sono voluti trentanni per arrivare a questo arresto. Dando per scontato che la magistratura e le forze dell’ordine ce l’abbiano messa tutta, in questo arco di tempo, per individuare e neutralizzare il più famoso e pericoloso boss mafioso rimasto a piede libero, è quanto meno inquietante che solo ora i loro sforzi siano stati coronati da successo. Trentanni sono tanti. Di quali protezioni, di quale rete di omertà, di quali connivenze ha goduto Messina Denaro per potere sfuggire così a lungo alla cattura? Qui non si tratta di qualche occasionale prestanome, come quelli che adesso è facile inchiodare. Qui c’è un ambiente in cui il boss ha potuto nuotare come un pesce nell’acqua.

Ciò è tanto più evidente – e questo fa nascere un secondo interrogativo – quanto più appare chiaro che, in tutti questi anni, egli non si è mai allontanato dal territorio dove era cresciuto e dove aveva svolto la sua carriera criminale. Per scovare i criminali nazisti sfuggiti a Norimberga è stato necessario andarli a cercare in Sud America. Per trovare Messina Denaro bastava indagare nella provincia di Trapani, a Castelvetrano, del cui mandamento era sempre stato il capo indiscusso. Certamente lo si sarà fatto, ma allora bisogna chiedersi come il boss è riuscito a rendersi invisibile. Se non altro per smascherare la fitta trama di collusioni che una così incredibile latitanza suppone.

«La lettera rubata»

A meno che non abbia funzionato, per tutto questo tempo, il meccanismo illustrato da Edgar Allan Poe nel suo famoso racconto «La lettera rubata», dove si narra di una missiva disperatamente cercata con accurate perquisizioni, e che alla fine si scopre essere stata “nascosta” dal suo detentore lasciandola in bella evidenza, sulla scrivania, resa invisibile proprio dalla sua totale visibilità.

Così sembra essere andata, almeno negli ultimi mesi, con Matteo Messina Denaro. Il latitante più ricercato della storia italiana recente non ha fatto nulla – e questo suscita un terzo interrogativo – per nascondersi. Ha condotto una vita normale, intrattenendo rapporti cordiali con i vicini, facendo shopping, frequentando il bar, circondandosi di donne. E quando si è ammalato, si è fatto ricoverare e curare in una notissima clinica privata, dove si è perfino concesso un selfie con un medico della struttura.

Una sfida così plateale alle forze dell’ordine sguinzagliate da trent’anni sulle sue tracce si può spiegare solo in due modi. O, come sostengono alcuni, ormai il boss, colpito da un male incurabile e con prognosi infausta, intendeva farsi prendere, oppure aveva delle protezioni che gli garantivano, malgrado questa ostentata visibilità, di rimanere fuori della portata dei riflettori degli inquirenti.

Non sono in grado di sciogliere il dilemma. Osservo soltanto che la prima ipotesi funziona solo se questo stile di vita di Messina Denaro si è inaugurato solo a partire dalla scoperta della sua malattia, circostanza, questa, che non risulta. In caso contrario vale la seconda. Che sarebbe in linea con la lunghezza della latitanza e con la rinunzia alla fuga in terre lontane.  

Una festa di trentanni fa finita male

Sono tutte osservazioni che dovrebbero indurre, al di là delle dichiarazioni trionfalistiche, a farsi delle domande. Anche per evitare che in questa euforia generale si ripeta ciò che accadde trent’anni fa, nel gennaio 1993, dopo l’arresto di Riina. Anche allora si disse che la mafia era stata sconfitta definitivamente. Anche allora ci furono grandi festeggiamenti. Ma – come è emerso in una polemica riaccesa proprio nei giorni scorsi – , in questo clima di euforia qualcuno bloccò la perquisizione dell’abitazione del boss corleonese, che avrebbe sicuramente consentito di accedere a documenti di fondamentale importanza.

Pare che a decidere in questo senso sia stato lo stesso ROS (Raggruppamento Operativo Speciale) dei carabinieri che aveva condotto l’operazione dell’arresto, e che l’obiettivo fosse di non pregiudicare le indagini su altri complici. Peccato, però, che, incomprensibilmente, la perquisizione non sia mai stata effettuata. Anzi, non fu neppure attivata la sorveglianza del residence dove Riina abitava, consentendo a chiunque lo volesse di entrarvi indisturbato e trafugare il materiale compromettente.  

Difficile dire, a distanza di tanti anni, se si sia trattato di errori o di forme di complicità. Ma è un monito per tutti coloro che anche oggi celebrano la vittoria dello Stato sulla mafia.

La mafia non è solo “Cosa nostra”

Tanto più che quest’ultima non si può ridurre alle sue forme platealmente criminali – “Cosa nostra” – , ma ha radici molto profonde nel tessuto culturale della Sicilia. Ora più che mai è importante rendersi conto che la mafia non coincide con la sua espressione “militare” – quella della lupara e, in tempi più recenti, degli attentati al tritolo – , ma è innanzi tutto un modo di pensare e di sentire, uno stile di vita, un costume, la cui manifestazione non consiste innanzi tutto nell’uso della violenza fisica, ma nel disprezzo del bene comune e nella strumentalizzazione delle istituzioni che hanno il compito di perseguirlo.

Perciò la mafia – nel senso che si è appena detto – continua a tenere in ostaggio la Sicilia anche nel tempo del declino della criminalità organizzata di “Cosa nostra”. In realtà il suo potere è tale che non ha neppure bisogno di violare le leggi, perché è in grado di condizionare chi le fa.

In un bel documento della CEI, pubblicato 1991 e intitolato Educare alla legalità, si identificava quest’ultima non solo con l’osservanza delle regole, ma con la conformità di queste ultime alle reali esigenze del bene comune. Riferendosi all’Italia intera, i vescovi denunziavano il pericolo di un «neo-feudalesimo, in cui corporazioni e lobbies manovrano la vita pubblica, influenzano il contenuto stesso delle leggi, decise a ritagliare per il proprio tornaconto un sempre maggiore spazio di privilegio» (n.7).

Questo pericolo in Sicilia è reso particolarmente drammatico dal fatto che il regime dell’Autonomia regionale a statuto speciale favorisce quel neo-feudalesimo e consente  operazioni spregiudicate ad esso funzionali. Con la copertura di una classe politica che resiste ad ogni tentativo di rinnovamento e che, come alcune sentenze della magistratura hanno confermato – si pensi al caso dell’ex governatore Totò Cuffaro, o a quello dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri – , non  è estranea neppure a una diretta compromissione con la mafia criminale.

Il risultato è un crescente degrado dell’Isola, che impoverisce progressivamente la sua economia e costringe i giovani più promettenti ad emigrare in altre regioni d’Italia o a addirittura in altre nazioni per trovare un lavoro adeguato.

Se si guardano le cose da questo punto di vista più comprensivo, l’arresto di Messina Denaro non costituisce certo il punto d’arrivo della lunga storia che ha visto intrecciarsi, in una complessa alternanza di conflittualità e di complicità, le istituzioni pubbliche e il fenomeno mafioso.

In questa prospettiva, l’accento va sicuramente posto sulla necessità di un’educazione alla cittadinanza che è il solo efficace antidoto contro tutte le forme della mafia, anche di quella che cammina in giacca e cravatta. Un popolo ha i governanti che si merita. Se i siciliani liberi e onesti vogliono uscire da questa difficile situazione, devono impegnarsi a diffondere, soprattutto nelle nuove generazioni, una visione della convivenza che, invece di ridurla alla lotta per la difesa dei privati interessi, promuova la ricerca del bene comune. Solo se cambieranno i rappresentati c’è la speranza d un radicale rinnovamento dei rappresentanti. Ma forse questo è il compito più urgente che ci attende, più in generale, come italiani.

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