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“Imparate da me che sono mite e umile di cuore” – Lectio Divina su Mc 14,1 – 15,47

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La domenica delle Palme apre la grande settimana santa, centro di tutto l’anno liturgico, in cui ripercorreremo la passione, morte e risurrezione di Gesù.

L’ingresso di Gesù a Gerusalemme, proclamato prima del rito della benedizione delle palme, ci permette di contemplare la folla che festosa lo acclama, agitando rami frondosi e gettando a terra i propri mantelli. La folla vede in Gesù l’arrivo del messia politico atteso per la liberazione dalla dominazione romana. Gesù non sconfessa pubblicamente le speranze delle folle, ma non le alimenta: si allontana invece verso Betania.

Il vangelo ci presenta il lungo racconto della passione e ci pone davanti alla scandalo della croce invitandoci alla contemplazione del volto sfigurato di Cristo amore, che dona per noi la sua vita. La narrazione di Marco mostra lungo tutto il racconto il paradosso del Messia: dopo un iniziale successo, il ministero di Gesù viene caratterizzato dalle crescenti tensioni con le autorità religiose ma anche dal rifiuto dei suoi compaesani e dei suoi stessi discepoli.

Davanti alla sua imminente passione viene messo in risalto l’umana paura provata da Gesù: nell’orto degli ulivi, affida nella preghiera la propria angoscia al Padre, si abbandona teneramente al suo amore con fiducia.

Nel Getsemani Gesù non reagisce davanti agli avvenimenti che non può impedire, accetta passivamente quanto sta accadendo, sia il bacio di Giuda sia la violenza insensata di Pietro che sguaina la spada contro il servo del sommo sacerdote. Davanti alla violenza, Gesù è presentato da Marco come mite e umile di cuore, perché anche i cristiani sono chiamati a seguire il suo esempio davanti alla ferocia del male del mondo. Può l’uomo essere salvato dall’impotenza di Dio e non dalla sua potenza, dalla sua debolezza e non dalla sua forza? Davanti quest’atteggiamento passivo di Gesù, i suoi discepoli scandalizzati si danno alla fuga.

E Gesù davanti ai testimoni falsi, agli insulti e alle menzogne tace, consapevole che i suoi nemici hanno già decretato la sua morte. Il silenzio di Gesù non è il silenzio di chi manca di coraggio ma è il silenzio di chi non reagisce davanti alle provocazioni, alla calunnie e all’arroganza, perché certo della giustizia della causa per cui si sta battendo e della vittoria del bene sul male.

Ora però a prevalere è la solitudine, tutti hanno abbandonato il Maestro e nessuno nella narrazione di Marco lo accompagna, solo alla fine è annotata la presenza di alcune donne che lo osservavano da lontano. Gesù, completamente solo, prova l’angoscia della sconfitta: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”, sperimenta l’esperienza del fallimento nella lotta all’ingiustizia e alla menzogna. Muore e sembra che tutto sia finito. Dio non risponde al suo grido.

Eppure mentre è sulla croce Cristo rivela la sua vera identità, il vero volto di Dio. Al Calvario le folle che lo osannavano sono scomparse, i discepoli sono fuggiti, ma un centurione romano, vedendolo spirare, esclama: “Veramente costui era Figlio di Dio”. Non è più possibile equivocarne il senso: Cristo è colui che, nella sua donazione totale, rivela il volto d’amore del Padre in pienezza e se un uomo riconosce Gesù messia nel momento più drammatico della sua kenosi, ciò è possibile perché Dio è presente. Dal momento in cui Gesù è morto, “nell’inferno non c’è speranza, ma l’inferno è nella speranza” perché “l’inferno appartiene a Cristo. In lui e attraverso di lui, anche l’inferno è trascinato per sempre nel mistero di salvezza” (Lochet).

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