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il ritorno dei volti

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di Giuseppe Savagnone

 

Il discorso di insediamento del nuovo Presidente della Repubblica ha ricevuto quasi unanimi apprezzamenti. Confesso, però, di essere rimasto un po’ stupito delle motivazioni che hanno giustificato, stando ai titoli dei quotidiani, questo apprezzamento. L’insistenza, da parte di tutti, è stata sul riferimento al ruolo di arbitro del capo dello Stato, che però ha bisogno, per svolgerlo bene, dell’aiuto di tutti. Un concetto giusto, ma per la verità un po’ ovvio.

Anche a me il discorso di Mattarella è piaciuto, ma – forse perché non sono un politologo – per altri motivi. Il primo è che il nuovo Presidente non ha interpretato questa doverosa  imparzialità come una rinunzia a prendere posizione. Sulla linea già tracciata da Napolitano, egli non si è limitato a ricordare e ribadire i princìpi e le regole, ma ha tracciato un quadro inquietante della situazione reale in cui oggi ci troviamo.

«La lunga crisi, prolungatasi oltre ogni limite», egli ha detto, «ha inferto ferite al tessuto sociale del nostro Paese (…). Ha aumentato le ingiustizie. Ha generato nuove povertà. Ha prodotto emarginazione e solitudine. Il lavoro che manca per tanti giovani, specialmente nel Mezzogiorno, la perdita di occupazione, l’esclusione, le difficoltà che si incontrano nel garantire diritti e servizi sociali fondamentali». E ha concluso: «Sono questi i punti dell’agenda esigente su cui sarà misurata la vicinanza delle istituzioni al popolo». La crescita delle ingiustizie e delle povertà, le diverse forme di emarginazione e di esclusione, la mancanza o la perdita del lavoro, l’incapacità delle amministrazioni di garantire diritti e servizi sociali fondamentali ai più deboli: questi i veri problemi, da cui la classe politica distoglie da anni lo sguardo, ripiegata com’è sulle sue faide interne.

In particolare, ha raccomandato Mattarella, «dobbiamo saper scongiurare il rischio che la crisi economica intacchi il rispetto di principi e valori su cui si fonda il patto sociale sancito dalla Costituzione». Siamo ben al di là di un astratto, retorico richiamo alla fedeltà alle regole: qui si  mette in evidenza il pericolo che il nuovo contesto serva da alibi per imporre logiche di potere e interessi che finora erano stati tenuti a bada in nome dei princìpi costituzionali.

Questa taglio fortemente “sociale” del discorso del nuovo Presidente fa riflettere. Sono anni che la “sinistra” ufficiale del nostro Paese parla quasi soltanto in termini neo-liberali, battendosi principalmente per far valere come diritti le pretese individuali. Ci voleva un ex democristiano – in sintonia, in questo, con un papa come Francesco (non a caso citato nel discorso) – per ricordare, anche se con grande delicatezza ed eleganza, che i ricchi e i poveri ci  sono ancora e che la giustizia è un fine primario della comunità politica.

Peraltro, il destinatario di Mattarella – a differenza di quello di tanti interventi di Napolitano – non è stato solo o principalmente il Parlamento. Certo, egli ha richiamato l’appello del suo predecessore all’urgenza delle riforme. Ma la sua preoccupazione principale è stata quella dell’unità. «L’unità che lega indissolubilmente i nostri territori, dal Nord al Mezzogiorno». (Per questo il discorso non poteva piacere alla Lega). «Ma anche l’unità costituita dall’insieme delle attese e delle aspirazioni dei nostri concittadini. Questa unità, rischia di essere difficile, fragile, lontana».

Il problema di questi anni non sono stati solo i politici di professione. Sono stati i cittadini. Sono le persone che hanno proiettato, in questa scadente classe politica, uno specchio della loro incapacità di andare oltre i propri individualismi e particolarismi. Bisogna andare oltre. Per uscire dalla crisi, ha detto chiaramente il Presidente, «non servono generiche esortazioni a guardare al futuro ma piuttosto la tenace mobilitazione di tutte le risorse della società italiana. Parlare di unità nazionale significa, allora, ridare al Paese un orizzonte di speranza. Perché questa speranza non rimanga un’evocazione astratta, occorre ricostruire quei legami che tengono insieme la società». L’unità vera è quella che può nascere da questa ricostruzione dei legami, da «un popolo che si senta davvero comunità». E soltanto essa può ridare speranza.

Certo, un ruolo specifico, in quest’opera di riunificazione delle menti e dei cuori in una comune direzione,  spetta alla classe politica, che deve recuperare il suo compito specifico, a lungo dimenticato: «In queste aule non si è espressione di un segmento della società o di interessi particolari (…). Condizione primaria per riaccostare gli italiani alle istituzioni è intendere la politica come servizio al bene comune, patrimonio di ognuno e di tutti».

Ma, ha sottolineato Mattarella,  «tutti sono chiamati ad assumere per intero questa responsabilità». La parola-chiave, per questo, è “partecipazione”: «La strada maestra di un Paese unito è quella che indica la nostra Costituzione, quando sottolinea il ruolo delle formazioni sociali, corollario di una piena partecipazione alla vita pubblica». Non solo individui da una parte e Stato dall’altra, come nella tradizione liberale, ma corpi sociali intermedi in cui maturi una coscienza del bene comune. È un quadro condivisibile da tutti ma che, per chi conosce la dottrina sociale della Chiesa, ha in essa una evidente fonte ispiratrice.

Così come dipende chiaramente dalla formazione cristiana del neo Presidente il richiamo finale ai volti. Volti di bambini, di anziani, di giovani, di imprenditori e di volontari, di uomini e di donne. Non solo riforma delle strutture, non solo logiche di Pil e di debito pubblico. L’unità e la speranza di questa nazione passano attraverso il ritorno dei volti. E possiamo prevedere che l’«arbitro», pur senza venire meno alla sua imparzialità istituzionale,  non si limiterà a far rispettare le regole del gioco, ma farà ciò che è in suo potere perché questi volti, specialmente quelli dei più deboli, vengano visti e rispettati.

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